di Enzo Melandri

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« L’uomo è per natura un animale sociale», dice Aristotele all’inizio della Politica; «la società (la polis, il modo d’essere politico) è un fatto naturale e anteriore all’individuo (umano)». Gli umanisti non hanno difficoltà nel comprendere il passo: lo han reso così ovvio, che ormai non se intende più il senso. I filosofi lo hanno usato come epigrafe genericamente introduttiva a un discorso il cui senso veniva tutto dopo. Questo vale per Hegel e per Feuerbach; e – in penultima analisi – anche per Marx. Alcuni storici moderni han cercato di riaprire il discorso: Eduard Meyer, il grande storico dell’antichità; e Arnold J. Toynbee, in una nota del suo primo volume degli « Studi di storia». Purtroppo lo schema dinamico del challenge-and-response è da ultimo puramente funzionale. Toynbee pretende di fondarsi su una morfologia obiettiva: la classificazione delle civilizations. Ma qui nessuno vuole, o è in grado di seguirlo. In mancanza di un solido supporto strutturale (il cui ultimo fondamento sta sul terreno della morfologia) le considerazioni funzionali degenerano inevitabilmente in tautologie; e della peggiore specie. Il funzionalismo rende banale fin dall’inizio la profonda implicazione biologica contenuta nella concezione aristotelica dell’anthropos inteso quale zoon politikon.

Come dimostra il séguito del discorso, l’accento batte sul physei: sul concetto strutturale dell’« esser per natura» così e così, e non semplicemente per costruzione successiva (thesei). In ogni modo va rilevato un fatto: né da un punto di vista umanistico, né da uno filosofico, né infine da uno storico o antropologico in senso lato si danno serie difficoltà a intendere in che senso l’uomo è condizionato fin dalla nascita e ancor prima dal suo doversi inserire, dopo nato, in una struttura sociale. Tutto quel che si può obiettare a questo modo di comprensione è d’esser troppo «facile»: nel senso che invita a deviare prematuramente in direzione funzionalistica quella che potrebbe essere una promettente prospettiva strutturale.

Cambiamo fronte (ma non partito). Passiamo dalla storia alla biologia. Qui la situazione è completamente diversa. Quel che per gli storici è ovvio fino alla nausea (col pericolo di sfociare in ciò che si potrebbe dire «incomprensione per mancanza di contrasto») diventa qui, o minaccia di diventare, l’antitesi in assoluto. La storicità dell’essere biologico è un concetto che nemmeno si può formulare. Il suo complemento può essere la teoria dell’evoluzione; ma fra questa e la biologia ci sono solamente delle sintesi speculative, non una correlazione effettiva a livello di scienza oggettiva. La situazione rammenta quella della fisica anteriore a Einstein, in cui la meccanica razionale non aveva alcun rapporto con la teoria elettromagnetica della luce. L’evoluzione ci abitua a pensare, comunque concepita, che l’uomo sia il termine assoluto o provvisorio di un certo processo. La biologia prende quel termine come uno stato ontologico. Fra le due cose non c’è nessuna saldatura. Un influsso positivo della società sul modo d’essere dell’uomo non è rilevabile che al livello del soma; la qual cosa è irrilevante, poichè non rientra nei fattori interni dell’evoluzione. I veicoli attraverso cui gli influssi esterni possono diventare interni all’organismo stanno al di sotto del soma (o «fenotipo»): essi sono il germen (il «genotipo») e l’endocrinon (il « sistema ormonico»). I neo-darwiniani e la genetica moderna insistono sul primo dei due veicoli. A quanto pare Bolk è stato l’unico scienziato a tentare di fondare sul secondo una teoria di carattere generale.
Sarebbe interessante disporre di una autorevole recensione critica del lavoro di Bolk. È probabile che, dopo quarant’anni, molti dei suoi dati non reggano più la teoria e si spieghino diversamente; ma è altresì probabile che si siano trovati molti altri dati a suo favore. In ogni modo, ci troviamo di fronte a una teoria che, per la sua generalità e ricchezza di articolazione interna, non pare facilmente confutabile. Siamo convinti che se un biologo di grande ingegno la prendesse sul serio, troverebbe il modo di riproporla nella situazione attuale. Per lo meno, solo a quella condizione potrebbe dare una confutazione definitiva. Ma in biologia le confutazioni definitive sono rare. Comunque stia la cosa, ci interessa meno la verità scientifica in assoluto che non la capacità ermeneutica della teoria. La fisica di Aristotele può ben esser falsa come teoria scientifica; essa resta valida sul piano ermeneutico, quando si tratti di teorizzare l’interpretazione per cosi dire « animistica » della natura. Sotto questo aspetto essa non è né vera né falsa. È qualcosa di più profondo di ogni scienza: è « sintomatica» di un certo modo di essere dell’uomo, e quindi dice qualcosa circa la natura di questi. In sede di ermeneutica generale la teoria di Bolk trova alcuni importanti nessi con altre teorie, anch’esse di interesse generale. Elenchiamo senza preoccupazione di sistematicità alcuni di questi, fra i tanti che possono venire in mente.

1. Il complesso di Edipo – Per la psicoanalisi il «complesso di Edipo» resta qualcosa di indeducibile. Si tratta di un postulato; solo una volta che sia accettato, tutto il resto diventa comprensibile. I neo-freudiani han cercato di dedurre il complesso, ma sempre in base a nuovi postulati. Otto Rank parla di «trauma della nascita»; la Karen sposta il problema allo stadio pre-natale. Queste teorie sono servite a dare al problema un’articolazione più fine, ma non l’hanno risolto.
Qui la teoria di Bolk offre decisamente qualcosa di più. Il ritardo evolutivo dell’uomo comincia non dalla nascita, ma dal concepimento. La tesi della fetalizzazione significa anche che la nascita dell’uomo è essenzialmente prematura. Questo è un fatto noto da un pezzo. Ma ora il significato diventa ben più pregnante. Per ragioni fisiologiche (il volume del feto) l’uomo, a differenza degli animali, viene espulso dal ventre materno molto prima di poter sopravvivere coi propri mezzi. Anche negli uccelli e nei mammiferi succede qualcosa di simile. Ma la differenza quantitativa è talmente rilevante (da un mese a due anni), da costituirsi in «salto qualitativo». L’organizzazione sociale dell’uomo, per mezzo della famiglia o altre istituzioni, deve provvedere al neonato qualcosa come un sostituto del ventre materno. Il neonato è in realtà un feto abortito, che sopravvive in virtù di un sistema artificiale di sussistenza. Solo a due anni, e forse più, si può dire «nato» un nuovo individuo.
Questo deve avere un nesso col complesso di Edipo. Per sopravvivere, la madre è costretta ad abortire, a espellere il feto prima, molto prima che questi sia maturo abbastanza per mantenersi in vita da solo. Di qui la genesi particolare dell’amore materno «umano»: il suo carattere ängstlich (ansioso-angoscioso), che emerge nettamente su quello semplicemente fűrsorgend (del prendersi-cura) degli animali superiori. Esso deriva dalla colpa biologica dell’aborto. Gli ormoni inibitori della crescita, da cui dipende l’espulsione del feto anzi tempo, diventano così i veicoli per la trasmissione di un sentimento di colpa specificamente umano. Da parte del neonato, avviene la formazione di un complesso reciproco: il bisogno di regredire al ventre materno, la paura dell’essere esposto o left-behind. Qui il Trauma der Geburt assume ben altro significato che in Rank; e lo stesso dicasi dei ricordi dell’esperienza prenatale. Da notare che se il complesso edipico è deducibile da tutto questo, esso non ha più un significato sessuale. La connotazione sessuale diventa secondaria, e forse non solo nell’infante, ma anche nell’adulto. Il momento primario resta quello erotico dell’ «unione» in una totalità perduta in séguito all’Entzweiung. Il complesso edipico non è un «complesso» ma piuttosto un «mito»: è il racconto della cacciata dall’Eden e insieme il paradigma di ogni regressione.

2. L’adolescenza come neotenia sociale – Un tempo. una generazione si saldava immediatamente all’altra. Questo accade tuttora nelle classi sociali inferiori. Pervenuto a maturità sessuale, il figlio si sostituisce al padre o se ne distacca per assumere un ruolo affine. Ma nelle classi sociali superiori, il cui modello di vita oggi si estende a quelle medie e anche medio-inferiori, si dà un periodo di latenza sociale, fra la maturità sessuale e l’assunzione definitiva del ruolo di padre, che ormai assume i caratteri di un’età a sé: lo stato adolescenziale. Questo comprende vari ruoli sociali, ma tutti non-paterni: che vanno dallo studente al play-boy, dall’inadattato al delinquente giovanile, dal ribelle «eroico» al teppista, &c. Il fenomeno presenta insieme caratteri positivi e negativi; ma qui non ci interessa il giudizio moralistico. L’importante è rendersi conto che lo stato adolescenziale, data l’enorme dilatazione che ha assunto nel tempo (oltre dieci anni) e nello spazio sociale (ormai comprende anche le classi inferiori), sta configurandosi come un vero e proprio «salto qualitativo» dell’organizzazione sociale. Esso non serve più, come un tempo, a mediare fra la vecchia e la nuova generazione; anzi diventa un ostacolo per la «maturazione» sociale. (Dove con maturazione si deve intendere lo sviluppo della fase finale, quella in cui l’adolescente rinuncia alla giovinezza per assumere il ruolo di padre secondo gli schemi ereditati).
Non è perciò azzardato pensare, allo stato adolescenziale in termini di neotenia sociale. Esso si può caratterizzare attraverso il rifiuto del ruolo di padre. (Ciò vale anche per le donne, beninteso; anche se qui la questione è più complessa: può andare dal puro e semplice rifiuto, in blocco, della maternità, a quello più complesso del rifiuto della Fursorge, il ruolo paterno della maternità). Quanti sono, anche fra noi adulti, gli «immaturi» in questo senso? Cioè coloro che, potendo, hanno organizzato la loro esistenza in funzione di un’eternizzazione dello stadio adolescenziale. Quel che per gli altri è stato o è solo uno stadio, qui diventa uno stato sociale. Ed è vissuto con un sentimento di colpa nuovo rispetto a quelli già intrinseci alla normale condizione umana. Ma forse che questo autorizza a un giudizio negativo? L’immaturità sociale rispetto a un certo tipo di società può esser la condizione per un nuovo tipo di società, con altri canoni di maturità «neotenica» Al senso tragico del «disagio nella civiltà» corrisponde quello, altrettanto tragico e simmetrico, del «disagio nell’irresponsabilità» n. L’uno vale l’altro, da un punto di vista morale. Solo i risultati di questo nuovo «ritardo evolutivo» potranno dirci, alla fine, chi aveva ragione.

3. Il disagio nella civiltà – In Eros e civiltà e anche altrove Marcuse tenta il recupero in chiave marxistica della «meta-psicologia» di Freud. Un tentativo generoso ma che, a un certo punto, deve dichiarare i suoi limiti; in altre parole, il fallimento. Sulle linee indicate da Marcuse non si può più andare avanti. La sua critica al «revisionismo neo-freudiano» (Jung, Adler, Sullivan, Horney, Fromm) finisce a un certo punto nella «fallacia di S. Bruno», per dirla con Marx. Nella prospettiva tragica, senza uscite dell’Uomo unidimensionale anche la critica «assoluta» di Marcuse può essere assimilata al revisionismo neo-freudiano. Le uniche critiche valevoli sono quelle che producono un atteggiamento diverso.
La critica a Freud è giusta. Freud ontologizza indebitamente lo stadio attuale della condizione umana. Non è capace di vedere il condizionamento storico del dato biologico. Ma forse che Marcuse è in grado di spiegarlo? Egli si limita a postulare dialetticamente l’interazione fra bios e polis. Con questo sistema di ragionamento la tesi, anche se giusta, resta puramente qualitativa e per di più inarticolata. Non stupisce pertanto rilevare come le conclusioni ultime siano tragiche, cioè senza uscita e quindi alla fine conservatrici. L’ironia tragica di Freud fa giustizia anche dei suoi più inflessibili revisori.
Qui la teoria di Bolk ha molto più da dire che non la critica di Marcuse. L’ «animale uomo» è sociale «per natura» fin dall’attimo del suo concepimento. Alle radici del complesso edipico si ritrovano i veicoli che rendono comprensibili in maniera scientifica o per lo meno molto più articolata che in una qualsiasi dialettica d’interazione i fattori dell’antropogenesi. E giova osservare come in questo contesto diventino ben più significativi gli spunti antropologici di un Géza Róheim. Le conoscenze biologiche di cui dispone Freud non gli consentono di tenere obiettivamente altro discorso. L’uomo è condannato a esser civile; ma la civiltà lo rende infelice. Nei confronti della fisiologia di un Bernard, di un Müller o di un Fechner (per quanto riguarda la fisio-psicologia), l’unico passo avanti è quello di Bolk. Che cosa avrebbe saputo trarre l’autore di Al di là del principio del piacere (che è un tentativo di confutare quella fisiologia o, meglio, la filosofia in essa implicita) da una teoria del genere? Ecco una fantasticheria su cui non è forse inutile lasciarsi andare.

4. L’adattamento – La critica più urgente è quella della nozione di «adattamento». Essa è collegata alla critica strutturalistica del funzionalismo. Riflessologia e comportamentismo confluiscono oggi nella teoria neo-comportamentistica dell’«apprendimento»: la learning theory. Questa ci spiega che il comportamento più intelligente è quello meglio adattato all’ambiente, sia esso naturale o sociale. La teoria ha il difetto di spiegare solo una metà della questione, e precisamente quella più banale: l’adattamento dell’uomo all’ambiente; ma non la reciproca, l’iniziativa umana per cui l’ambiente viene adattato alle nostre esigenze. La teoria dell’apprendimento rende ragione dell’intelligenza mediocre, o conformistica; non dell’intelligenza creatica, quella che inventa un nuovo sistema di rapporti. La teoria dell’apprendimento, quindi, non è una «teoria» ma piuttosto un’ «ideologia»: essa tende a promuovere una specie di atteggiamento e di comportamento, quello dell’integrazione, a spese di un altro, potenzialmente eversivo rispetto al primo.
Ma la critica alla nozione di adattamento, quando si rifà a concetti come gli «stimoli-segnali supernormali» o i «meccanismi attivatori innati», va indubbiamente oltre lo scopo. Non si può controbattere il cattivo empirismo dell’adattamento funzionale con le risorse dell’apriorismo innatistico. Questo è ben peggiore. Una critica del genere può esser mossa a tutte le tendenze strutturalistiche, che sostituiscono l’apriori dell’innatismo con quello del codice prefissato. In ultima analisi, la si può fare anche a certe affermazioni di Bolk: per es. là, dove insiste unilateralmente sulla «legge biologica» di Naegeli. Ma evidentemente egli voleva soltanto metter fuori uso le spiegazioni funzionalistiche correnti a suo tempo. In ogni caso, qui ci interessa sottolineare l’incongruenza che si stabilirebbe fra la sua critica all’evoluzionismo, se presa in assoluto, e la sua teoria generale del ritardo evolutivo. Solo quest’ultima può render ragione del fenomeno dell’«iper-adattamento» (dell’adattamento a sé dell’ambiente, e non solo di sé all’ambiente). Questo fa tutt’uno con l’evoluzione per regressione neotenica. O, ciò che fa lo stesso, della ristrutturazione attraverso una preliminare destrutturazione. Anche in Bolk non si dimentichi che la destrutturazione si spiega funzionalmente. La sua teoria è strutturale, ma solo nel senso che cerca di render ragione con argomenti non funzionali del modo in cui i fattori esterni dell’evoluzione possono infine agire come fattori interni.
La neotenia è il veicolo di ogni rivoluzione.