foucault1.jpgdi Sandro Chignola

Pubblichiamo l’introduzione di Sandro Chignola al volume Governare la vita. Un seminario sui Corsi di Michel Foucault al Collège de France (1977-1979) (g.d.m.)

qui la scheda del libro
ascolta qui la presentazione di Sandro Chignola al Seminario degli IWW (Invisible workers of the world) del 3 giugno 2006 a Verona

«Non sono né un filosofo, né uno scrittore. Non compongo un’opera: faccio ricerche che sono ad un tempo ricerche storiche e ricerche politiche». Nel corso di un’intervista del 1977, pubblicata originariamente con il titolo El Poder, una bestia magnifica in «Quadernos para el dialogo», Michel Foucault esplicita ancora una volta la premessa che orienta complessivamente il suo lavoro. Il «passo del granchio» – il suo muoversi di lato, decentrando continuamente la propria riflessione e sorprendendo il lettore con radicali innovazioni concettuali e metodologiche, il frequente abbandono di piste di ricerca promettenti sulle quali si era avviato e sulle quali ci si sarebbe aspettati quindi di poterlo reincontrare – è l’unica modalità che gli rende possibile inseguire una problematizzazione della realtà che si trasmette, irrisolvibile, di libro in libro («vengo trascinato spesso da problemi che ho incontrato in un libro, che in esso non ho potuto risolvere e che cerco pertanto di trattare in un libro successivo», scrive Foucault) o che gli si presenta come imposta dall’urgenza politica.

L’urgenza («phénoméne de conjoncture», lo chiama Foucault) che obbliga al drastico mutamento di interessi registrato dai Corsi tenuti al Collège de France a partire da quello stesso anno è cristallizzata in un fotogramma preciso: di fonte al carcere della Santé una manifestazione viene dispersa da una secca carica di polizia. Michel Foucault a quella manifestazione, convocata in solidarietà di Klaus Croissant, avvocato della «banda» Baader — Meinhof, interdetto dalla professione in Germania e rifugiato politico in Francia, stava partecipando. Ed è prendendo la parola in relazione al caso aperto dal processo di espulsione intentato contro Croissant — una presa di parola che gli costerà, tra l’altro, la rottura con Deleuze – che, forse per la prima volta, Foucault lascia trasparire la posta in gioco della ricerca che egli avrebbe di lì a poco intrapreso.
Foucault2.jpgIl processo a Croissant è, per Foucault, una «battaglia reale». In essa si affrontano due dispositivi del diritto del tutto eterogenei l’uno rispetto all’altro. Ciò che è in questione nel caso Croissant non sono — come molti, anche tra i più vicini a Foucault, come appunto Gilles Deleuze o Felix Guattari, autore, quest’ultimo, di un appello che Foucault rifiuterà di firmare, sembrano credere – i «diritti dell’uomo» e il «fascismo» dello Stato tedesco che di Croissant pretendeva allora l’estradizione, ma il diritto dei «governati» («droit des gouvernés»): un diritto che eccede la definizione strettamente giuridica, sfugge alle maglie della sovranità, revoca la «survalorisation» dello Stato che si esprime (anche) nel pensiero radicale che nello Stato identifica l’oggetto d’odio da abbattere, e del quale, soprattutto, non è ancora stata formulata una teoria.
In Croissant — figura della diaspora e dell’esilio come lo sono, per altro verso, i dissidenti del blocco sovietico o le soggettività della nuova composizione sociale del lavoro liberate come protagoniste dai movimenti radicali degli anni ’60 e ’70 — Foucault identifica l’icona di uno slittamento irrecuperabile: non, come avrebbero voluto alcuni tra i suoi interlocutori, la parte della negazione all’interno di una dialettica tra poteri costituiti e contropotere rivoluzionario, ma l’elemento che eccede qualsiasi forma quel rapporto, giudicato comunque interno al perimetro sovranista del diritto, potesse assumere.
Croissant non è il militante di un possibile rovesciamento rivoluzionario del potere, il «futur gouvernant» destinato ad occupare il posto strappato al nemico, ma il «perpétuel dissident» che rifiuta radicalmente il sistema di regole in cui vive; colui la cui esistenza stessa disattende la centratura giuridica, diserta l’imperativo del potere e si muove piuttosto in rapporto ad una pretesa di libertà, un «droit à vivre, à être libre», la cui grammatica non può essere pensata che in termini di sottrazione e di esodo. Attestata sulla disobbedienza, sulla resistenza.
In Klaus Croissant Foucault difende questo diritto nuovo e l’apertura oltre la storia della sovranità che in esso si esprime. Da un lato un diritto di fuga; dall’altro un dispositivo di potere che si ricentra attorno ad una nozione di pericolosità sociale che non incontra solo nel «terrorista», o nel suo favoreggiatore, il proprio caso d’eccezione, ma che ha nella nozione di «rischio», piuttosto, il proprio codice generale di normalizzazione.
La «teoria» che è da fare è la teoria di questo dispositivo extragiuridico di potere la cui fenomenologia retroagisce sulla stessa analisi dei processi disciplinari. Foucault attacca l’inerzia di chi evoca a questo proposito la rassicurante figura dello Stato totalitario. Il «pacte de sécurité» che viene invocato — e con un effetto di extraterritorialità immediato, nel caso di Croissant, si badi bene — per adire la corte di giustizia incaricata di decidere della sua estradizione, rappresenta il fulcro di una produzione normativa la cui geneanologia nulla ha a che vedere con l’autoritarismo del recente passato, con il nesso sovranità/territorio, e che affonda piuttosto le proprie radici in una tradizione liberale presto destinata ad inverare i propri presupposti come forma di governo del futuro.
Le «sociétés de sécurité» del presente — quelle che si sentono ora sotto minaccia — non sono società fasciste, come qualcuno pretende, e per paradossale ansia di rassicurazione, con troppa facilità, ma società permanentemente mobilitate al controllo di ciò che, di volta in volta, esse percepiscono come «rischioso».
Sono società tolleranti, vocazionalmente aperte, proprio perché sono società liberali; accettano comportamenti devianti, accolgono identità collettive anche contrapposte le une alle altre, accettano tassi ineliminabili di illegalità, e tuttavia, anzi, proprio per questo, si dimostrano essere ininterrottamente percorse da meccanismi sempre più sottili, elastici e pervasivi di sorveglianza volti a «governare» i rischi che quella stessa libertà comporta.
Croissant è, appunto, l’icona di una libertà individuale inaccettabile. La figura della diserzione radicale. Quella che sfida i dispositivi di controllo della nuova governamentalità liberale. Ed è di quest’ultima — di una tecnologia di governo che assume forme economiche e gestionali, che tratta la libertà nella forma del «costo» e del «rischio», che marca il passaggio dalle consegne territoriali della sovranità alla deterritorializzazione specifica della razionalità di mercato – che i Corsi del 1977-78 e del 1978-79 intendono abbozzare la teoria. L’urgenza di Foucault è l’attualità. Il modo di affrontarla, sempre di nuovo, il tracciare la diagonale genealogica tra il presente e la sua storia.
Che cosa caratterizza il governo liberale? Cosa lo differenzia dai dispositivi di sovranità e dalle forme della statualità assoluta? In che modo esso può gestire l’ingestibile, controllare ciò che non può essere posto sotto controllo, e cioè la libertà di liberi agenti dai quali dipende la riproduzione dello scambio sociale complessivo? In quale dispositivo si ricompongono l’imperativo liberale «vivi pericolosamente!» – e cioè: investi sulla tua capacità di autovalorizzazione, rischia il tuo capitale, sfrutta fino in fondo la libertà d’azione che ti è assegnata, afferra le chances che ti dischiudono le relazioni in cui sei inserito, sii opportunista e cinico in un contesto di rarità che non gratifica tutti delle stesse possibilità, agisci da uomo libero, insomma – e i meccanismi multilaterali di sicurezza necessari ad esorcizzare i «rischi» che quello stesso imperativo comporta?
I Corsi di Michel Foucault al Collège de France della seconda metà degli anni ’70, così come molti interventi di quegli stessi anni, lavorano attorno a questi interrogativi. Rifiutano la facile equazione tra governamentalità neoliberale e totalitarismo per analizzare quanto di nuovo si annuncia nell’estroflessione normativa del mercato e nell’economizzazione complessiva del sociale. La società liberale consuma libertà, e, proprio per questo, chiede che libertà gli sia costantemente restituita, interfacciandosi a dimensioni istituzionali volte a funzioni di stretta garanzia. Dalla sovranità alla logica di gestione; dalla neutralizzazione del conflitto alla logica assicurativa dispiegata contro i rischi che esso comporta: un autentico salto oltre le moderne categorie del Politico, si potrebbe forse dire. Foucault3.gif
Foucault affronta nei Corsi dedicati a Sicurezza, territorio e popolazione e a Nascita della biopolitica un vasto panorama storico e teorico: dalla letteratura della Ragion di Stato, alle Polizeywissenschaften, alla cameralistica tedesca, dal paradigma classico dell’economia politica all’ordoliberalismo tedesco, al liberismo della Scuola di Chicago. La genealogia qui in questione è quella del fatto di governo; il fatto, cioè, che tanto più il soggetto viene prodotto come libero, e cioè valorizzato come indisponibile titolare di un diritto ad agire come vuole, tanto più la sua libertà chiede di essere armonizzata, resa compatibile, «governata», quindi, e pertanto assunta come corrispettivo di schemi di regolazione ai quali si chiede, al fondo, solo di essere lasciati liberi. Sono l’origine di questa particolare amministrativizzazione del comando ed il suo riferirsi ad uno specifico «oggetto» sociale, ciò che Foucault si dispone ad indagare.
Questi Corsi di Foucault — lezioni, varrebbe la pena di ricordare, frammenti di un percorso cui non è possibile conferire quelle caratteristiche di compiutezza che Foucault avrebbe probabilmente rifiutato agli stessi lavori da lui dati personalmente alle stampe — sono stati oggetto di un seminario attivato presso la Scuola di Dottorato di Ricerca in Filosofia (Indirizzo di Filosofia politica e storia del pensiero politico) dell’Università di Padova. Alcune delle relazioni presentate in quell’occasione sono diventate i testi ora raccolti in questo volume.

[su questo libro vedi anche l’intervento di Girolamo De Michele su Liberazione del 9 giogno 2006 (sezione Cultura)]