di Giacomo Molucchi

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Resto fermo il più possibile, ascoltando con attenzione qualsiasi suono possa portarmi il freddo vento di novembre. Niente. Allora esco allo scoperto, alzandomi dalla protezione di quel mucchio di macerie dove mi ero nascosto.
Aspetto.
Se c’è un cecchino appostato, non importa da che parte stia, morirò tra pochi secondi. Ma se non mangio, morirò lo stesso.
Non succede niente.
Stringendo il fucile mi metto a correre fino ad un’altro mucchio di macerie, e mi accuccio dietro di esso. So come muovermi perché vedo i soldati muoversi così da quando ero bambino. Scatto fino ad un’altro mucchio di macerie, poi un’altro ed un’altro ancora. Solo i miei passi e il mio respiro rompono il silenzio di morte che si stende su questa città devastata dai bombardamenti.

Una città fantasma, in un punto isolato della campagna veneta, lontano dalle grandi vie di traffico usate dagli americani ma comunque priva di qualsiasi importanza strategica anche per i garibaldini.
Ma oggi, questo luogo per me è sacro. Qui, mezz’ora fa, un camion di rifornimenti americano è saltato su una mina anticarro. Io l’ ho visto da sopra una delle ultime palazzine ancora in piedi.
Regola numero sette: se esci dal tuo territorio, guadagna una posizione elevata per controllare meglio ciò che ti succede attorno. E’ stato papà a fissare le regole ed a insegnarmi come metterle in pratica. Ed è grazie alle regole se, nonostante tutto quello che è successo, nonostante la carestia, le malattie e la guerra, io continuo a vivere.
Mezz’ora fa ho visto passare il camion e poi ho sentito il botto. Il mezzo è saltato in aria in fiamme e si è ribaltato su un fianco. Ho sentito per un po’ i lamenti di chi, tra i passeggeri, era ancora vivo. Non sono duranti a lungo, e dopo pochi minuti non c’è stato niente a parte il fumo. Ho aspettato per essere sicuro che non ci fosse nessuno, poi ho iniziato ad avvicinarmi.
So che devo essere veloce: prendere tutto quello che può servirmi e scappare prima che qualche altro sciacallo venga a banchettare sulla carcassa del camion. Mi metto il fucile in spalla e scosto un cadavere che sta sopra l’apertura dello sportello.
Buon Dio, è così giovane.
Apro il portello. E’ pieno di quelle scatole di metallo americane a prova di esplosione. Riconosco immediatamente quelle dei viveri. Ne apro una febbrilmente e inizio a divorare le gallette che contiene. Non mangiavo da ieri mattina.
Appena mi sento meglio, ispeziono il carico del camion. Munizioni, cibo e pornografia. Trovo anche un po’ di pallottole per il mio fucile. Non tante quante speravo, ma meglio che niente. Ci sono anche altri fucili e pistole, ma non li prendo. Io sparo solo con il fucile di papà. So sparare solo con questo perché non ho mai preso in mano altre armi. Un piccolo kit di medicinali è la sorpresa più grande. Metto nella borsa tutto ciò che posso portare senza appesantirmi troppo.
La mia razzia è durata pochi minuti.
Poi faccio per uscire.
“Fermo!” urla qualcuno.
Mi giro e vedo un vecchio calvo, con la barba bianca. Indossa abiti laceri e consumati, come me. Ma ha un fucile. Non è americano, e non porta al collo il fazzoletto rosso dei garibaldini. Un altro derelitto, esattamente come me. E come me, sa benissimo che tra noi rifiuti umani non è possibile nessun tipo di accordo. La terza regola: se trovi del cibo, qualcuno tenterà di ucciderti e di portartelo via: in tal caso dovrai sparare per primo. Le regole non sbagliano mai. E’ solo grazie a esse se io sono ancora vivo. Mi sta puntando contro il fucile, ma io non ho nessuna esitazione.
La mia vita è composta di una serie di situazioni-tipo, e io so esattamente come reagire a ognuna di esse, grazie alle regole.
I due spari risuonano nell’aria in rapida successione. Sento la pallottola fischiarmi poco lontano dall’orecchio. Il vecchio grida, e crolla in ginocchio lasciando andare il fucile. Sparo di nuovo, centrandogli la testa.
Mi butto a terra, come mi ha insegnato papà, ed aspetto che accada qualcosa.
Conto fino a venti, e poi mi rialzo in piedi. Mi incammino verso l’uomo che ho ucciso. Il primo colpo l’ ha raggiunto alla spalla, il secondo gli ha sfondato la fronte. La sua morte non mi provoca nulla, solo fastidio. Non l’avrei ucciso, se avesse aspettato il suo turno per frugare nel camion. Invece mi ha parlato, si è fatto vedere, mi ha minacciato.
La quarta regola: non perdere tempo a pensare se un altro uomo metterà in pratica la sua minaccia: agisci sempre per primo.
“Stupido” gli dico.
Poi cerco nelle sue tasche. Una fiaschetta con all’interno un qualche tipo di liquore, che lascio dov’è. Un pezzo di formaggio ammuffito. Un vecchio coltello semi arrugginito. Quest’ultimo potrebbe servirmi, così lo prendo. Controllo il suo fucile, e capisco perché mi ha mancato: la canna è incrinata.
Mi assicuro la borsa al fianco, e inizio a incamminarmi verso casa.

Non ho mai provato piacere ad uccidere un uomo. Anzi. Nella mia tana, c’è un graffio sul muro per ogni uomo che ho ucciso. I miei graffi si mischiano a quelli fatti da papà. Diceva che il pericolo più grande, per un soldato, è dimenticare i dettagli. Tutti i soldati ricordano di avere ucciso, ma pochi sanno ricordare il numero esatto. Papà, dopo aver disertato dall’ U.S.Army, iniziò a segnare sul muro del suo rifugio quanti uomini aveva ucciso. Io continuo a fare come lui, ma non è la stessa cosa. Il muro è rovinato dalle crepe, dall’umidità e dal nostro graffiare, così è quasi impossibile leggerlo. Ogni volta che lo guardo non riesco a credere che abbiamo ucciso così tanto.

Mentre torno a casa, il coltello del vecchio che ho ammazzato è più pesante delle provviste che ho rubato.
La guerra, qui in veneto, è giunta ormai ad una situazione di stasi.
Gli Americani tentano di imporre l’ordine uccidendo tutti coloro che si trovano fuori dai campi di assistenza. Il più vicino è il Lincoln, a Padova. Una volta ho parlato con uno che era riuscito a scappare da lì. Mi ha raccontato che nei campi si fa la fame, si ubbidisce alle regole fissate dai marines. Una di queste ordina che, quando arrivano le provviste, siano prima i militari a mangiare. Per questo tanti si arruolano: e le reclute vengono impiegate fin dal primo giorno come carne da cannone nella guerriglia contro le Tribù o contro i Garibaldini. Quelli che tornano vivi, in effetti, mangiano di più e meglio che restando nelle grandi baraccopoli che gli americani chiamano“campi di assistenza”.
Fuori dai campi, dove si è rifugiata la maggior parte della popolazione civile dopo i Grandi Attentati, ci sono tre tipi di aggregazioni.
I Garibaldini sono i gruppi di resistenza nati dopo l’invasione americana. Comunisti, patrioti e ribelli. Il loro obiettivo è liberare l’Italia. Se vedessi in loro qualcosa di più di bande di balordi che si aggirano come cani rabbiosi tra le macerie, potrei anche ammirare i loro ideali. Ma ho visto abbastanza gente messa al muro “per precauzione” da questi partigiani, per non arrivare a credere che sono bestie tanto quanto quello che combattono.
“Se ti prendono vivo” mi disse una volta papà “tenteranno di arruolarti. Se ti rifiuterai, ti uccideranno. Per questo, non lasciare mai che ti prendano vivo. Giurami che morirai, piuttosto che ubbidire agli ordini di un esercito come ho fatto io”
Le Tribù, come le chiamava papà, sono divise per etnie, ognuna con delle sue leggi e costumi. I loro componenti sono immigrati e discendenti degli immigrati del periodo precedente ai Grandi Attentati, provenienti dall’Est Europa, dall’Africa, dalla Cina, dai Balcani. Sono gruppi familiari che rispettano l’autorità di un capo. Le Tribù si scannano tra di loro per i motivi più futili ed incomprensibili. Tribù di Rumeni massacrano tribù di Cinesi per poi essere massacrate da tribù di Nigeriani e così via.
Ma questa guerra, così devastante e terribile, ha portato anche qualcosa di peggio. Durante i Grandi Attentati, quando esplodevano bombe in tutte le città europee, prima della grande e fatale frattura tra l’Europa e l’America che sarebbe degenerata nella guerra senza quartiere che sto vivendo, molte persone persero la ragione.
“L’animo umano” diceva papà “può sopportare solo una data dose di orrore. Oltre c’è solo la follia”
Papà li chiamava Bestie. Si aggirano nei boschi a nord di qui, da soli o talvolta in piccoli branchi.
Certe volte si spingono anche qui tra le macerie delle città, ma sono casi molto rari. Papà una volta mi aveva portato sul limitare di una foresta. Lì li ho visti. “Una volta erano uomini e donne” disse papà, indicando quei mostri. Nudi o coperti al massimo di qualche straccio, coperti di fango e armati di sassi e bastoni. Avevano catturato un uomo e, dopo averlo ucciso a bastonate, lo stavano mangiando. “La regola numero cinque è: non allontanarti mai dalle città: i boschi sono il territorio delle Bestie

Papà in realtà non era mio padre. I miei genitori naturali sono morti quando io ero troppo piccolo per ricordarmi di loro. Lui era un americano che aveva disertato, e viveva in un rifugio di fortuna in un sotterraneo. Mi prese con lui tanti anni fa, quando c’erano ancora dei bambini che giravano per le strade, a mendicare o a frugare tra i rifiuti.
Ora non ce ne sono più.
Loro non avevano le regole.
Il mio rifugio è lo scantinato di un palazzo che anni fa fu colpito da una bomba. Lì vivo da solo, da quando papà è morto. Da quando è morto, vivo da eremita. La mia paura più grande è che qualcuno scopra dove vivo. In tal caso, papà ha detto di mettere in atto la nona regola.
Il mio rifugio ha l’ingresso nascosto dalle macerie. Ogni volta che torno a casa, devo scostare i rifiuti e scavare fino ad una grata circolare. Poi scivolo dentro un grande tubo di cemento, fino ad una stanza sotterranea che un tempo era il pianerottolo di un vano scale. Poi c’è una porta che, per qualche miracoloso motivo, è sopravvissuta al crollo del palazzo. Da lì, una decina di gradini conduce al mio rifugio: tre stanze di quattro metri per tre. In una c’è il mio letto, un materasso a terra con un paio di vecchie coperte. Nella seconda tengo le munizioni e le provviste, un tavolo e due sedie. Nella terza stanza c’è il tesoro che mio padre mi ha lasciato in eredità.
Tre scatoloni di giornali. Dal più vecchio del 2 marzo 2043 al più recente del 5 settembre 2055. Ormai sono più di dieci anni che non si stampa più niente in veneto. Non so di preciso in che anno siamo oggi, ma penso che dovremmo essere all’incirca nel 2063, se ho contato correttamente. Quei giornali sono quanto papà è riuscito a salvare di una biblioteca bruciata perché vi si erano rifugiati dei garibaldini.
Da lì, e da quello che mi raccontava papà, ho potuto ricostruire quanto avvenne dal momento in cui crollarono le certezze dell’Occidente, nei primi anni del secolo.
L’ostacolo più grande a questa mia ricostruzione è che non ho giornali del periodo che mi interessa davvero, ossia dal 2000 al 2030: l’unica mia chance è interpretare correttamente i riferimenti, le allusioni e talvolta i riepiloghi che leggo in articoli successivi al 2043.
E’ molto difficile. Per esempio, quando ho trovato scritto “…è un attentato terribile, che trova un precedente solo nella strage di Bari del 2028…” ho potuto solo segnare nei miei appunti “2028—Strage di Bari”, ma non ho la più pallida idea di cosa sia successo.
Tornando alla mia ricostruzione, oggi so all’inizio del secolo ci furono attentati a New York, Madrid e Londra da parte di gruppi terroristici islamici. Gli americani reagirono conquistando il Medio Oriente, grazie all’aiuto degli alleati europei. Per alcuni anni, l’America tentò di favorire la nascita di uno stato democratico in Iraq. Non riuscendovi, un referendum in America (contro tutti i pronostici) ufficializzò l’occupazione militare dello stato, rendendolo colonia americana. L’Europa se ne chiamò fuori, e seguirono molte manifestazioni (di cui una grandissima davanti a Washington D.C.) contro quello che era stato definito il più grande broglio elettorale della Storia, ma nessun governo occidentale si oppose.
Un’alleanza di paesi arabi tentò di contrastare l’occupazione. Fallì, e il Medio Oriente venne bombardato ed occupato.
L’Europa condannò la conquista, senza tuttavia intervenire contro la potenza statunitense.
La paura della Terza Mondiale fermò tutti.
Nel frattempo, la mancata integrazione degli immigrati (che intorno al 2020 avevano raggiunto un numero colossale in tutta l’Europa del Sud) degenerarò in Italia in una serie di scontri urbani a Milano, Roma, Padova, Genova, Bologna e molte altre.
Non so bene come se la cavarono nelle altre regioni, perché quasi tutto quello che papà ha trovato sono pubblicazioni locali.
Qui in Veneto (dopo che una legge ad hoc del 2021 ebbe dato carta bianca alle regioni su come affrontare i problemi di ordine pubblico) si scelse la linea dura. Dopo avere tentato invano di respingere le sommosse con il classico metodo di lacrimogeni e manganellate, si passò ad un altro tipo di intervento: la gambizzazione. I poliziotti si inginocchiavano e sparavano una raffica ad altezza gambe contro i rivoltosi.
Questo, per alcuni mesi, fermò i disordini.
Poi vi furono due eventi, in contemporanea, che sancirono la fine dell’Italia. Le Brigate Rosse, approfittando della fase di caos che stava attraversando, riuscirono ad assassinare il presidente del consiglio. Dopo pochi giorni, il primo kamikaze italiano si fece esplodere nell’atrio di Palazzo Chigi.
Si chiamava Mohammed Kamir, figlio di immigrati, cittadino italiano.
Venne proclamato lo stato d’emergenza quando altri kamikaze iniziarono a farsi esplodere nelle piazze, nei parcheggi, durante i mercati, nei locali, da soli, in gruppi di due, con le autobombe. Sprofondammo nella guerra civile. L’esercito italiano iniziò la repressione contro gli immigrati islamici, mentre il Presidente della Repubblica si pose alla guida del governo temporaneo, che sarebbe durato finché non sarebbe stato possibile condizioni di sicurezza per gli elettori che si recassero alle urne.
Poi vennero i Grandi Attentati. Non so dire di preciso quali città europee furono colpite per prime, ma penso che ogni nazione abbia versato molto sangue e altrettanto ne abbia fatto versare per rappresaglia.
Quando due anni dopo il Presidente si suicidò, l’Italia era ormai arrivata all’anarchia. Gli attacchi da parte dei kamikaze iniziavano a diradarsi, e fu quella l’occasione con cui le Brigate Rosse presero il potere. Non fecero in tempo però a realizzare il tanto sognato Stato Comunista Italiano, perché l’America, che non aveva mosso un dito per tutto il periodo dei Grandi Attentati, decise di intervenire per “liberare il popolo italiano da una dittatura senz’anima e senza cuore” (questa frase l’ ho trovata citata più volte, e mi torna in mente ogni volta che sento di qualcuno ammazzato dagli americani). L’America conosce un solo modo per liberare i popoli: prima si bombarda, poi si conquista e poi si danno ordini.
Poi non ho idea di cosa successe, se non che la cosiddetta “liberazione” dell’Italia va avanti senza sviluppi degni di nota. So solo che oggi la gente deve vivere nei campi di assistenza, dove si muore di fame. Che i garibaldini, fondati dalle Brigate Rosse, resistono e sparano agli americani e a chiunque non sia dei loro. Che gli americani sparano a tutto quello che si muove. Che le Tribù si fanno guerra tra loro per assicurarsi un pezzo di terra, un pozzo o una cassa di cibo. So che molte persone sono impazzite e sono regredite allo stato brado, hanno perso la parola e sono cannibali. Sono diventati Bestie e a loro volta mettono al mondo Bestie di una nuova generazione. So che papà mi ha detto che, se non voglio morire, devo osservare le regole, tenere il fucile pulito e preoccuparmi che nessuno scopra mai il mio rifugio.
Pensando a tutto questo, sono arrivato a casa.
E capisco subito che c’è qualcosa che non va.
La lamiera che copre l’ingresso non è nella posizione in cui l’avevo lasciata.
Lascio a terra la borsa, e mi acquatto dietro la carcassa di un’automobile.
Aspetto, con il colpo in canna.
Passano dieci minuti. Non mi muovo di un millimetro e mi limito a respirare appena.
Poi lo vedo uscire dalla mia tana, attraverso un piccolo squarcio nella lamiera.
E’ giovane: avrà al massimo sedici anni. I capelli lunghi sono raccolti in una coda di cavallo. Ha la faccia tipica di uno che è disposto ad ammazzare per un pezzo di pane. Un sacco sulla spalla pieno di roba che, suppongo, deve aver rubato dalla mia dispensa. Al collo porta un fazzoletto rosso. E’ un garibaldino. Quindi, racconterà ai suoi cosa ha trovato e tornerà qui.
Non mi muovo.
Lui vede la borsa che ho lasciato a terra, giusto davanti all’ingresso.
Subito estrae una pistola e si guarda attorno.
Io resto fermo. Non vola una mosca per circa un minuto. Bene, lasciandolo vivere per questi sessanta secondi si è convinto che non ci sono cecchini americani, altrimenti sarebbe già per terra.
Con molta circospezione, si avvicina alla borsa. E’ curioso. Ed è affamato.
Lo vedo tendere una mano verso il borsone…
“Fermo!” grido, alzandomi in piedi.
Non si muove. Lentamente, mi avvicino a lui tenendolo sotto tiro.
“Getta la pistola! Mani sopra la testa!”
Ubbidisce, lasciando cadere l’arma e il sacco con le mie cose.
Buon Dio, ora che è vicino lo vedo bene: non ha neanche vent’anni.
“Tre passi indietro!”
Ubbidisce di nuovo.
Arrivo alla sua pistola e la scosto con un calcio. Ora, tra lui e la sua arma ci siamo io e il mio fucile.
“Nome e grado! Avanti!”
“Giovanni Togni, soldato semplice dell’esercito garibaldino” risponde.
Ha paura. Gli occhi, dietro lo sporco quei tre ciuffi di barba che ha sul mento, esprimono paura.
“Che ci fai qui?” continuo, tenendolo sotto tiro.
“Missione di ricognizione”
“E di sciacallaggio, a quanto pare”
“No, non era…”
“Zitto!”
Silenzio. Regola numero due: Se devi uccidere qualcuno, fallo il più rapidamente possibile. Se possibile, non guardarlo in faccia. Non parlarci. Non aspettare. Se trasgredisci a una di queste condizioni, uccidere sarà molto più difficile.
“Che novità hai?”
“Ieri abbiamo catturato una pattuglia americana. L’altro ieri…”
“No. Volevo sapere cosa sai del mondo. Notizie da Roma, da Washington, da qualche altro posto?”
Scuote la testa. Sento che ha paura dall’incrinatura della voce, che sembra tornata bambina.
“Forse i miei superiori sanno. Io non so niente”
No, ragazzo. Il problema è che nessuno sa niente. Per quello che i nostri amici a stelle e strisce sanno, la Casa Bianca potrebbe essere bruciata anni fa. Questo è quanto ho concluso parlando con un americano che ho trovato da solo, un anno fa, senza una gamba. Aveva pestato una mina, e ci ha messo un’ ora a morire, dopo che avevo improvvisato un laccio emostatico. In quell’ora sono stato con lui, e mi ha raccontato che sono cinque anni che arrivano gli stessi ordini: “Tenere la posizione” — “Mantenere l’ordine” — “Proteggere i civili” — “Rendere sicure le città” — “Reprimere le rivolte”. Cinque ordini che gli americani si vedono continuamente riconfermate. Nessuna notizia su cosa stia accadendo in America, se l’America esiste ancora.
E ora, che faccio? La prima regola dice: non lasciare che qualcuno scopra il tuo rifugio. Io ammazzo soldati, ma questo mi sembra troppo giovane per essere già uno di loro.
Abbasso il fucile.
“Ok, Compagno Togni. Ti lascio prendere un paio delle mie scatolette di carne, ma lascia qui le armi e le munizioni. Soprattutto, non dire a nessuno di me. Di che quelle scatolette sono tutto quello che hai trovato e basta. Vattene prima che cambi idea, e non voltarti indietro. Non ti guardo nemmeno, potrebbe venirmi voglia di spararti”
Gli do le spalle e mi siedo su un lampione abbattuto.
Ed ora vediamo se sei più un uomo o un soldato, Giovanni Togni.
So che i garibaldini hanno l’ordine tassativo di uccidere chiunque giri armato: è la vecchia regola o-con-me-o-contro-di-me. Appena lo vedo passarmi dietro, giro la testa e lo guardo.
Il giovane garibaldino si accuccia, fa per prendere la scatoletta di carne rotolata fuori dal sacco.
Poi la sua mano cambia direzione e va verso la pistola. La afferra e si gira verso di me. La pallottola lo raggiunge al petto prima che abbia il tempo di prendere la mira.
Scatto in piedi.
“Stupido!” gli urlo dietro “ti avrei lasciato andare! Perché l’ hai fatto? Perché cazzo l’ hai fatto?”
Sta tremando, cercando di biascicare qualche parola. I suoi occhi mi guardano fissi, spaventati, e mi rigirano le mie domande.
Poi si spengono e cadono all’indietro. Ora devo disfarmi del corpo.

Quella sera, faccio due nuovi graffi sul muro.
Non riesco a togliermi dalla mente l’immagine degli occhi del garibaldino che mi fissano.
Mio padre, prima di morire, non mi aveva preparato a questo.
Mi distendo sul materasso reprimendo le lacrime e, come ogni sera, ripeto a memoria tutte le regole.
Quando arrivo all’ultima, mi fermo. L’ultima regola è quella che mio padre mi ha sussurrato prima di morire. L’ultima regola è la più importante: Se riuscirai a vivere abbastanza, cerca di scoprire come cazzo abbiamo fatto ad arrivare a questo punto.