di Adriano Petta

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[Questo racconto di Adriano Petta – autore di Eresia pura, di Roghi fatui, di Ipazia e di altri noti romanzi – fa riferimento alle ricerche attualmente condotte da Carlo Rubbia, presso l’acceleratore di particelle di Ginevra, sul bosone di Higgs, “la particella di Dio”. Ricerche che potrebbero condurre, sebbene le probabilità siano infinitesimali, alla completa distruzione non solo della terra, ma del sistema solare e dell’intera galassia. Si tratta di un esperimento analogo a quello avviato nel 1999 nel laboratorio di Brookhaven, Long Island, Usa, già noto a chi abbia letto il mio romanzo Magus. Valerio Evangelisti]

Roma, libreria Feltrinelli di largo Argentina, bar al primo piano, luci deboli, soffuse, la colonna sonora del mitico «Bladerunner» si diffonde in sottofondo, oltre a noi due… nessuno. Un anno di e-mail, comunione di anime, di menti… e finalmente un pomeriggio tutto per noi.


Tu vivi a Ginevra, felicemente sposata, con una bambina di due anni, lavoriamo nella stessa azienda, allo stesso progetto, io nella sezione di Roma. Mi stai guardando con quegli occhi verde-azzurri in cui ci si può perdere… bella come il sole, occhi di fuoco, voce limpida, senza ombre, come il tuo carattere.
“E allora? Avevo diciotto anni quando hai creato Silvia nel tuo racconto! E mi chiamo Silvia anch’io, ed ho gli stessi occhi verde-azzurri e gli stessi capelli ricci e neri, e suono il pianoforte… non divinamente bene come lei, naturalmente! Ma non sono la Silvia che hai sempre cercato! Mere coincidenze” e scuote la testa ricciuta sorridendo con quegli occhi bellissimi. “Non sono né misteriosa, né passionale… e né morbosa come lei: ho il perfetto controllo della mia vita. Amo mio marito… ebbene sì, amo un marito svizzero! Sono felice con lui, e amo il mio lavoro, e la mia bambina! Ho tutto e non cerco altro.”
“Il cinema è la vita a cui sono stati tolti i momenti noiosi…” ma vedendo i suoi lineamenti alterarsi un po’ “niente, niente: stavo leggendo ad alta voce la scritta sul muro dietro di te, sopra la vetrata. Ieri ho riletto tutte le nostre e-mail…” e stavolta non distolgo i miei occhi dai suoi.
“Mauro, mi sono aperta a te… perché… e non te la prendere adesso per quello che sto per dirti, non fraintendermi… mi sono aperta a te perché le tue parole mi procuravano un effetto balsamico… ecco…” e beve tutto d’un fiato metà bicchiere di vino. “Mi sono confidata con te… perché sei il primo uomo che non mi ha fatto la corte. Ed è bellissimo questo nostro rapporto… alla faccia di chi dice che l’amicizia tra uomo e donna non può esistere.”
Scorro le scritte sul muro… Leggete per vivere di Gustave Flaubert… poi l’altra, sopra la vetrata più grande, proprio alle spalle di Silvia… Senza musica la vita sarebbe un errore… di Nietzsche… si intravede largo Argentina, anche un lembo dell’Area Sacra con i pini… alonato dal chiarore rossiccio del tramonto che avvolge le colonne dei templi.
“Non è vero che hai tutto e che non cerchi altro. Silvia… lo dici perché vuoi crederci anche tu. Perché vuoi — fortissimamente vuoi — tener chiuse, con la forza della tua ragione, tutte le altre…”
“… stanze del mio cuore! Quante ne avrei…? Mille in tutto… vero? Ed io ne starei utilizzando solamente una…! Ma fammi il favore, Mauro: queste sono fesserie da romanzo!” e fissa la coppa mezza vuota, e la gira e la rigira stancamente fra le dita da pianista, delicatissime, affusolate.
Senza la musica la vita sarebbe un errore… ma come gli è venuto in mente un pensiero simile all’autore di Zarathustra? E mentre sto riflettendo su questo, la musica ombrosa e struggente di Vangelis mi entra dentro… mi fa male… la vita sarebbe un errore… “Silvia… la nostra amicizia è giunta a un bivio, lo sai…”
“Perché?” e mi punta addosso uno sguardo limpido, sorpreso.
“Perché la tua ferrea ragione non può assolutamente accettare che la mia penna descriva quello che ti accadrà… il tuo futuro…”
“Tu e le tue coincidenze! Mi sembri uno degli oroscopi… E certo… certo che indovinano, prevedono cose banalissime, comuni a tutti i mortali, che succedono ogni giorno: per forza che ci azzeccano!” e ride di cuore, bella come il sole.
“Non è così, e lo sai: non si tratta di banalità. Io t’incontro in sogno. E tu incontri me. Quando mi sveglio, non faccio altro che prendere una penna in mano e raccontare il mio viaggio mentale. Poi lo digito sul computer. E te lo mando.”
Non ha il coraggio di guardarmi negli occhi. La sua voce limpida trema leggermente: “Ed io mi evito di scrivere il mio sogno… perché è identico al tuo…” e si morde le labbra, mentre la sua splendida figura si staglia sul chiarore rossiccio del tramonto che sembra abbia inghiottito largo Argentina. “Ma è normale, Mauro! Siamo amici, pensiamo l’una all’altro, ogni tanto ci accade di sognare che lavoriamo assieme, che passeggiamo… non facciamo niente di straordinario, mi pare… A tutto c’è una spiegazione: nella vita esistono soltanto fenomeni che ancora non siamo riusciti a spiegarci… tutto qui.”
“No che non è normale. Come puoi continuare a non capire? Silvia… noi c’incontriamo in un altro mondo… in un altro piano dimensionale…”
“Ancora con il bosone di Higgs! Ancora con la faccenda dell’antimateria… Il fatto è che tu non dovevi lavorare nella ricerca: tu dovevi fare il romanziere di professione…” Silvia mi guarda, cerca di sorridere… ma non ci riesce, afferra il bicchiere con entrambe le mani, lo avvicina alle labbra, solleva lo sguardo, un avido sorso: “Il sogno finiva qui… a questo punto… poi ha squillato il telefono: tu mi hai chiamato per ricordarmi di comprarti quell’orribile tabacco al freeshop dell’aereoporto…” e sorseggia ancora. “Mauro, oggi ci siamo incontrati in questo posto, in questa libreria, perché lo abbiamo deciso, liberamente, perché ci andava bene a tutti e due… e non perché lo abbiamo sognato questa mattina.”
“Mille chilometri di distanza… eppure lo stesso sogno, qui, proprio qui, nello stesso angolo e tu che avevi in mano quello stesso libro che hai davanti a te: Il viaggiatore notturno di Maurizio Maggiani, premio Strega 2005… il premio che hanno assegnato questa notte, e né tu né io potevamo saperlo… ma nel sogno tu hai comprato proprio questo libro, con la fascetta rossa! Premio Strega 2005…! Silvia, siamo due fisici… cristo, non due cacalibri…” e mi decido a bere anch’io un sorso di vino.
“Come te lo spieghi… allora?” La sua voce è incredibilmente dolce, ora, ha sentito il bisogno di sfiorarmi la mano libera poggiata sul tavolo, la musica imita il vento che attenua un po’ il caldo che ci si appiccica addosso, l’aria condizionata non funziona, giro il palmo della mano, trattengo le sue dita fra le mie.
“Tutto è cominciato dalla prima e unica volta che ci siamo incontrati un anno fa… esattamente un anno fa…”
“… a Ginevra…” e beve un altro sorso.
“Esattamente. Sotto al lago di Ginevra. E abbiamo partecipato al primo tentativo di snidare e acchiappare la primula rossa delle particelle…”
“… il diciottesimo elemento…” ma non sembra seguire il nostro discorso, le sue dita si ammorbidiscono, si girano, si fanno baciare dalle mie dita innamorate…
“… la particella di Dio…” e cerco di avviluppare tutta la sua mano, di trasmetterle tutto quello che provo per lei… ma lei si libera, con la scusa di portare alle labbra la coppa con entrambe le mani, bevendo avidamente, distogliendo gli occhi dai miei.
“Silvia, ti farà male bere così in fretta…”
Scuote un po’ la testa, alza gli occhi, mi fissa quasi implorando la mia comprensione: “Mauro… questa faccenda dei sogni mi sta incasinando l’esistenza… sta incrinando tutta la mia vita ordinata…” e fa per bere, ma si blocca col bicchiere in aria “tu pensi che sia potuto accadere qualcosa mentre assistevamo al primo esperimento… è questo che pensi tu…”
“Il calorimetro adronico era perfetto… ma quello elettromagnetico una volta… una volta soltanto, aveva mostrato un istante d’instabilità. Io lo avevo rilevato, fatto presente… lo ricordi benissimo. Ma c’era la voglia di finire… di provare ad acchiappare questa fantomatica primula rossa delle particelle…” e bevo un bel sorso di Brunello, mi stordisce un po’ “… e la stessa sera abbiamo fatto il primo sogno… il primo viaggio insieme…” e mi mordo le labbra.
Annuisce lievemente: “È un anno che viaggiamo assieme… un anno… e in genere sogniamo in anticipo… quello che ci accadrà poi durante il giorno. Ma tu hai una grande capacità, quella di ricordare tutto, fin nei minimi dettagli…” e poggia il bicchiere sul tavolo, protende il braccio, cerca un’altra volta la mia mano, torno a stringerla con dolcezza “Mauro, ma io con la tua Silvia immaginaria… con la tua creatura nata nel migliore dei mondi impossibili… nata nel tuo racconto quando io avevo diciotto anni…”
“Ed anche lei aveva diciotto anni… e parlava, e pensava, e suonava, e camminava come te…”
“Sì… e profumava come me…!” e scuote con indulgenza il capo ricciuto, ma stavolta non abbandona la mia mano.
“Profumava come te… ma non perché era simile a te… ma perché sei tu! Tu lo hai letto il racconto: sei tu. Ed io, quando l’ho scritto, non ti conoscevo.”
“I bosoni miei e tuoi… che si sono incrociati in un’altra dimensione…” e abbandona la mia mano, guarda l’orologio, spalanca gli occhi terrorizzata. “Dio mio, di una cosa hai perfettamente ragione: se l’orologio dice il vero, noi due stiamo proprio bene assieme! Tre ore! Sono tre ore che siamo stati qui a chiacchierare… Dio! Mi aspettano! Devo correre!”
Il tramonto alle sue spalle sembra essersi fermato, dalla grande vetrata filtra la stessa opaca luminosità. Ci alziamo, ci avviamo, prendiamo a scendere per la scala a chiocciola… ma con il cuore in gola la blocco per una spalla: si gira, mi fissa incuriosita.
“Non andare, Silvia… non andare… torniamo indietro, torniamo di sopra, al nostro angolo del bar… al nostro tavolino…”
“Ma stanno per chiudere! È già sera! Mi aspettano i miei… Mauro, sono in ritardo, maledizione! Corri, prendiamo un taxi…” e si libera della mia mano, ed è lei a strattonarmi, a scendere precipitosamente… ma così facendo, urta una pila di libri sistemata proprio ai piedi della scala, i primi volumi cadono, lei li raccoglie, cerca di rimetterli al loro posto… l’ultimo… dall’ultimo è uscita una scheda, la raccolgo, gliela porgo, lei cerca d’infilarla nel mezzo, schiude il libro, io mi accuccio su un gradino della scala a chiocciola, e mentre lei si mette a leggere in silenzio… io prendo a declamare ad alta voce…
“È che poi si finisce con il credere a quello in cui si vuole — disperatamente — credere…”
Sul suo viso si legge lo sgomento, poi testardamente sfila la scheda, vola con le dita verso la fine del libro, lo apre di nuovo, sta per ficcarla dentro corrucciando le labbra… poi apre completamente il volume… ed io declamo ad alta voce ciò che lei sta leggendo…
“Entra tra le righe dei miei pensieri… non ti spaventare… ti condurrò nel mio sogno…”
“… per non morire…” Solleva gli occhi, deglutisce emozionata. “Finiva così il sogno… vero?”
“Finiva così. Per questo ti ho chiamata al telefono.”
“Per svegliarmi? E perché? È bellissimo… potevi anche farmelo finire: ci risparmiavamo queste tre ore di masturbazioni mentali…”
Non so che faccia devo fare, la vista mi si sta annebbiando, mi sento un groppo in gola: “Così brutte… sono state… queste tre ore… Silvia…?”
“Il fatto è che non ce la faccio più, Mauro, credimi. Ho trent’anni… e ultimamente mi vengono dietro parecchi cinquantenni-sessantenni… ed io non faccio nulla, te lo giuro, per incoraggiarli… nulla…”
Ma è come se all’improvviso qualcosa attraesse la sua attenzione… forse la musica in sottofondo… i «main titles» di Bladerunner. “Ma non è che ci chiudono dentro?” e si gira attorno, e la vedo sbirciare preoccupata verso il corridoio intasato di pile di libri. “Mauro, credo che siamo rimasti solo noi…” e protende una mano verso di me, per tirarmi su, e aggrotta le sopracciglia, la fronte, e spalanca gli occhi supplici… e vedendo che io non mi decido a muovermi, comincia a scuotere la testa.
“Hai cinquant’anni, potresti essere mio padre… ma sei un ragazzino!” e mentre scrolla il capo, arriccia le labbra “sono tre ore che ripetono sempre la stessa musica: è veramente bella… ma potrebbero mettere qualche pezzo un po’ meno… meno psicologico…”
La voce della cantante sta facendo dei vocalizzi dolcissimi, struggenti, l’eco di questa melodia mi fa male dentro, protendo una mano, afferro la sua tesa verso di me: “Silvia, resta qui, un altro poco, ti prego… ti condurrò nel mio sogno…”
“… per non morire…” e scuote il bel capo, e fa per prendermi in giro… proprio mentre il tema d’amore di Bladerunner comincia ad effondersi in ogni angolo della libreria. “Oh Mauro, non ho conosciuto mai un uomo più romantico di te… quali voli non riescono a trovare i tuoi cieli…”
L’attiro verso di me, il suo bellissimo volto ora è di fronte al mio, la mia bocca è all’altezza della sua fronte: “Silvia… fatti baciare gli occhi… solo gli occhi…” mentre la tromba di Vangelis, in sordina, rende tutto così bello che lei sembra cedere, e chiude gli occhi, e li porge alle mie labbra…
Poi li spalanca di colpo separandosi da me: “Mi stavi per fregare un’altra volta! Mentitore! Non sono gli occhi che cerchi… ma la mia bocca…” e mi dà uno strattone felice come una ragazzina, costringendomi a mettermi in piedi, a seguirla.
Ci dirigiamo verso l’uscita, in mezzo alle pile dei bestsellers, i più venduti della settimana.
“Anche il guardiano se l’è già svignata, Mauro! Pure gl’impiegati! Non c’è anima viva… meno male che l’uscita è aperta… mamma mia quant’è tardi…”
Lei fa per mollare la mia mano, ma non glielo permetto… anche se il «Tema d’amore» di Bladerunner è finito, ora gli altoparlanti diffondono note che sembrano sospese… sprazzi tremolanti senz’aria…
Siamo a due passi dall’uscita, un chiarore rossastro filtra dalla piazza, afferro Silvia a un fianco, la stringo a me, lei scherza, fa finta di divincolarsi… ma il suo “Eh dai…! lasciami stare…” le si spegne in gola.

Abbiamo varcato la soglia, messo piede in largo Argentina. Silvia guarda in cielo, poi comincia a girarsi attorno, poi torna a fissare il cielo: “Oh dio… dio mio… che cos’è… questo…?” e di scatto volge il capo verso il mio volto ficcando i suoi occhi spaventati nei miei. “Ma tu… tu… perché non tremi come me? Perché guardi me… invece… invece di… di tutto questo…?”
E torna a scrutare l’inferno, bocca spalancata, occhi terrorizzati.
È un cielo livido, rosso come il sangue, senza nuvole, senza luce, senza stelle, un colore mai visto, una densità mai vista… è una sola unica tonalità, uno spaventoso rosso cupo, come se fosse stato dipinto per una ripresa cinematografica… un orrore di sangue…
Poi Silvia torna a guardarsi attorno… e il terrore le fa tremare le labbra, gli occhi… “Non c’è una luce accesa… non c’è un’anima in giro… i semafori spenti… i pini! i pini che circondavano l’Area Sacra…! perché li hanno tagliati? oh dio mio… Mauro… c’è stato un incendio… vero? sono rimaste solo le pietre… le colonne dei templi… questo cielo… un incendio… vero…? vero…??” Cerca i miei occhi. “C’è un blackout… non è così? Ma la gente…? dov’è la gente…?” e si guarda attorno disperata. “E tu…? Tu perché non ti stupisci…?” e alza gli occhi al cielo di sangue respirando affannosamente “Tu sai! Tu… sai…!!! Che cosa… che… cosa… sai…? Che succede…? C’è stata una guerra?” e mi ficca il suo sguardo sbarrato nel mio. “Parla…! Dimmi, dimmi… maledizione! Katia… Katia…! la mia bambina… fammi telefonare…” e si mette a frugare nella borsetta convulsamente, riesce a tirar fuori il cellulare, lo apre, cerca di accenderlo, inutilmente. “Era carico! era carico, poco fa! Non può essere…” e mi pianta gli occhi addosso, accusatori.
La tengo per un fianco, immobilizzata, non la mollo, sento che trema tutta.
“Mauro… stiamo vivendo uno dei nostri maledetti sogni… è così? È così… vero?” e cerca di divincolarsi da me, e mi tocca le orecchie, gli occhi, mi sfiora la testa con dita tremanti… “Questo non è un sogno… non è un sogno…! Oh dio… dio mio… Dimmi… dimmi ch’è successo, Mauro… ti prego… ti scongiuro…” e mi strattona con disperata speranza. “Se era per te… saremmo rimasti nella libreria a chiacchierare… vero? E io non avrei visto questo… questo mondo pietrificato: è così? È così, Mauro? Per questo volevi baciarmi… per questo hai fatto di tutto per fermarmi…”
I lineamenti sconvolti di Silvia è come se fossero di cera… l’aria è rarefatta, l’atmosfera ingrigita, i palazzi, la facciata del teatro… è come se assorbissero l’opaca tonalità rosso-sangue del cielo… tutto sembra immerso in un’atmosfera antica, senza tempo…
“Era per questo…” La mia voce è piena di dolore.
Si morde le labbra secche, screpolate, non cerca più di divincolarsi, un pallore levigato sul viso terreo: “Mi dici… mi dici… che sta succedendo… Mauro? Tutto questo sembra… sembra… un cimitero…”
“Che darei per saperlo, Silvia… Non so da quando è cominciato… Il fatto è che io non dormo mai, mentre tu è come se cadessi in catalessi… sogni… dimentichi… e quando ti svegli, io non ho il coraggio di dirtelo subito… e allora ricorro al gioco dei sogni… Ma poi tu cerchi di tornare a casa, esci dalla libreria… e puntualmente ti rendi conto che le cose non stanno più come una volta…”
“Dimmi ch’è un incubo… solo un incubo…” e abbandona i miei occhi, e fa ruotare i suoi attorno, con guizzi disperati esplora la piazza, i templi dell’Area Sacra, il cielo apocalittico… questa specie di ombra infernale che piove dal cielo, che non riesce a produrre nemmeno uno scialbo riverbero nei vetri delle finestre…
“Mentre dormi, Silvia, io giro per tutta la città… e Roma è vuota, non c’è nessuno, non c’è una creatura viva, un animale… ricordi quanti gatti si aggiravano tra le rovine di questi templi? Ora non c’è un uccello, una zanzara, un topo, un pidocchio, un albero… non c’è un alito di vento… non c’è giorno né notte… non c’è il tempo…” e cerco di soffocare l’angoscia nella mia voce “c’è solo questa città senza luce, senza vita, senza nulla che si muove, senza nessuno…”
Si morde le labbra, l’affanno in gola, scuote la testa, incredula: “Vuoi dire che gli unici esseri viventi… siamo… siamo noi due…?” e mi sbatte in faccia la sua disperazione, il suo dolore.
“Noi due… Silvia…”
“Il Gianicolo non è lontano! Andiamoci, ti prego… devo vedere casa mia! devo…! devo…”
Mi vede scrollare il capo, deve accorgersi della mia faccia sconsolata.
“Ci sei già stato… è così?”
“Ci siamo stati… ogni giorno, quando ti svegli: è la prima cosa che vuoi fare…”
“E andiamoci un’altra volta… ti prego!” e mi scongiura, e m’afferra le braccia, e mi prende per mano, e comincia a strattonarmi, a trascinarmi verso il teatro Argentina, verso via Arenula… e si guarda attorno, e fissa il cielo imbevuto di luce morta… e continua a scongiurarmi di dirle tutto quello che so.
“Silvia, l’ultima volta che tu e io siamo stati assieme ad altri esseri umani… è stato a Ginevra…”
Si blocca, mi fissa cupamente: “Il giorno… il giorno dell’esperimento…?”
“Proprio quel maledetto giorno…”
“Ma che dici! Quello è il giorno in cui ci siamo conosciuti! Un anno fa! Scherzi? Da allora è passato oltre un anno… un anno in cui ci siamo scambiati molte e-mail… in cui ci siamo aperti le nostre anime… un anno in cui abbiamo preso a sognare…” e abbassa gli occhi, ma torna a stringermi la mano, a trascinarmi disperatamente con sé per via Arenula, verso ponte Garibaldi… anche piazza Cairoli è nuda, vuota, senza la vegetazione rigogliosa e gli alberi che la rendevano una piccola isola verde “… un anno in cui, non so come diavolo poteva accadere, sognavamo le stesse stupide cose… stando però assieme nel sogno…!”
“No, Silvia… questa faccenda delle e-mail e dei sogni te l’ho raccontata io per non farti pensare… Tu non riesci ad accettare questa realtà, stavi per impazzire, ogni volta riesci ad ammettere solo qualche pezzettino in più di verità…” e le stringo con forza la mano “Perdonami, Silvia, io non sono psicologo né psichiatra… avrei bisogno anch’io di qualcuno che m’aiutasse, ma non c’è nessuno in questo immenso orrore… e non so se riesco a combinare qualcosa di buono con te, ma ci provo, chissà che una volta tu non riesca a rivivere quel momento…”
Mi fissa con ferocia, quasi… strattonandomi, senza però fermarsi, avanzando sempre più spedita, quasi con frenesia: “Quale momento? Ti metti a scimmiottare Freud… adesso? L’ultimo giorno! L’ultimo giorno con degli esseri umani…” e si morde le labbra “… è questo che vuoi… vuoi che io ricordi…?”
“Proprio questo… Silvia…”
“E tu insisti nel dire ch’è stato il primo giorno che ci siamo conosciuti…? A Ginevra… il giorno dell’esperimento…” e mordendosi le labbra cade in un improvviso silenzio. Fa per liberarsi dalla mia mano, ma non glielo permetto. Accelera il passo, mi chiede l’ora, le dico che gli orologi sono sempre fermi, che non camminano. Aumenta ancora di più l’andatura.
Raggiungiamo ponte Garibaldi… e man mano che lo attraversiamo, guardiamo giù, lei rallenta il passo nella parte centrale, nello spiazzo semicircolare, ci blocchiamo di fronte all’isola Tiberina.
“Non c’è una goccia d’acqua… dio… dio mio… e gli alberi… i platani… non c’è ombra di verde… da nessuna parte…” e guarda terrorizzata le due rive del Tevere, i due Lungotevere, soltanto pietra, case e ponti, nemmeno l’ombra dei pini sull’isola Tiberina… lontano il campanile di S. Maria in Cosmedin si staglia nel cielo di sangue… tutto quello che vediamo sembra pietrificato… “È un mondo senza vita…” e si stringe a me “… è un mondo senza vita, Mauro…” e mi ficca dita disperate nelle mie braccia.
Poi prende coraggio, si tormenta le labbra con i denti, i lineamenti prendono a distendersi nel dolore: “Quel giorno a Ginevra c’è stata un’esplosione… e noi due siamo morti… vero…?” e gli occhi verde-azzurri le si riempiono di lacrime.
“Magari fossero andate così le cose…” e sono commosso anch’io per quello che sto dicendo “ho paura, Silvia… che sia successo il contrario… esattamente il contrario…” e la stringo fra le braccia, e le sussurro in un orecchio, mentre lei trema tutta: “Sai che ci vorrebbe, adesso? Una bella musica in sottofondo… dai, sceglila tu, Silvia… sceglila tu…”
“Ma chi vuoi che la giri questa scena?” e solleva il capo, e mi guarda singhiozzando “Ci starebbe bene ‘Who wants to live forever’? Quella cantata da Freddie Mercury…?” Occhi pieni di lacrime.
“È proprio la musica che ci vuole… dal suo mondo Freddie Mercury sarebbe fiero che il suo capolavoro accompagnasse la scena clou di questa storia…” e le bacio i capelli, e la stringo con forza a me. “Cominci a capire… quello che può essere successo…?”
Lei si stringe a me, non vuole più guardare l’isola Tiberina, il cielo di sangue, si appoggia con la schiena al davanzale, sento che comincia a piangere disperatamente. E solleva il volto rigato di lacrime, e nel pianto riesce a balbettare: “Dovevo… dovevo essere l’unica… l’unica in quella cabina schermata… magneticamente… solo io dovevo esserci… solo io…”
“I nostri colleghi di Chicago lo sapevano ch’era pericoloso… ecco perché non hanno mai azzardato a fare gli esperimenti con quelle potenze, e non hanno mai pensato a costruire un acceleratore come quello di Ginevra… lo sapevamo anche noi…” e l’abbraccio “… eccome se lo sapevamo, Silvia…”
“La cabina… un’inutile precauzione nel caso… nel caso fosse accaduto l’irreparabile… la creazione… la creazione di un buco nero… che avrebbe… che avrebbe…” e piange “… o Katia… la mia bambina… un buco nero che avrebbe potuto inghiottire tutta la nostra galassia… oh dio… il contrario… e tu… e tu… perché sei voluto venire nella cabina? oh dio… adesso sarei sola… dio mio…” e piange, e si stringe disperatamente al mio petto, poi torna a fissarmi di nuovo, si asciuga il pianto con il dorso d’una mano “Quindi è successo… e solo noi due ci siamo salvati… il contrario… il contrario…” e si avvinghia a me, e io le bacio i capelli.
La sento sussurrare: “Perché…? Perché, Mauro, hai lasciato la tua postazione… e sei voluto venire nella cabina con me?”
“Per farti la corte…” Ma lei non mi crede, scuote il capo. “Un sogno, Silvia… un sogno che facevo da almeno dieci anni, magari passava un anno senza che tornasse, poi due-tre volte di seguito… e c’era questo mondo… questo mondo pietrificato… così come lo stiamo vivendo noi due adesso… Non avevo mai capito… ma a Ginevra, qualche attimo prima, intuii quello che stava per accadere, e non potevo fare nulla per impedirlo, mi avrebbero preso per pazzo…” Cerco i suoi occhi spauriti. “Ma l’intenzione di corteggiarti c’era… credimi…”
Alza lo sguardo, sforzandosi di sorridere, mi sfiora i capelli con dita che tremano ancora: “E perché dovresti mentire? Che bisogno abbiamo di mentire… nella nostra condizione…?” Fissa il cielo, alle mie spalle. “Mauro, forse non sono morti, forse stanno tutti in un altro piano dimensionale… forse un giorno riusciranno a trovarla quella benedetta particella di dio…”
“… e ci verranno a cercare… Perché no, amore mio?”
Mi pianta addosso due occhi imbevuti di luce disperata: “E magari adesso mi stai per chiedere di volermi baciare gli occhi… vero?”
“Sì… proprio i tuoi bellissimi occhi…”
“E così mi freghi come la sera che m’hai accompagnata a casa… approfittandoti dei due bicchieri di vino che avevo bevuto: solo un bacio sugli occhi, mi dicesti…”
“E approfittando del buio… sbagliai… e le mie labbra incontrarono la tua bocca…” e le sfioro le palpebre con un bacio “ma tutto questo non è mai avvenuto: te l’ho raccontato per non farti morire…”
È lei a sollevare il viso, a porgermi le labbra: “Adamo ed Eva… dio mio… dio mio… baciami… baciami… Mauro… Mauro… Mauro…”
Ci baciamo con una furia ch’è uragano, tempesta, disperazione, vento, il vento che non c’è in questo mondo, l’uragano che non esiste in questo piano dimensionale, e la stringo a me, e la tempesto di baci… e lei freme di disperazione… e prende a schiudere le gambe… e non me ne frega niente di questo maledetto cielo rosso-sangue… non mi fa paura! noi non sappiamo come funziona questo mondo…! ma solo questa ci è concessa come speranza… solo questo ci è rimasto da tentare…! solo questo possiamo fare noi due…! noi due… noi due… noi due…

(Questo racconto è compreso nella raccolta ancora inedita di Adriano Petta Casablanca e oltre.)