HANGMAN’S CURSE

di Danilo Arona

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Sera di primavera alla periferia di Bassavilla. Il Texas notturno di Paravidino, le stelle, la campagna immota e deserta. Campi, prati e poche cascine, quasi tutte all’apparenza abbandonate, perché non s’intravedono luci.
Una giovane coppia di fidanzati sta viaggiando in auto per recarsi a un appuntamento con amici in quel di Belforte, poco dopo Ovada. Una quarantina di chilometri in un paesaggio da dopobomba. I due ragazzi sono parecchio affiatati e non a caso stanno assieme da più di un anno. Questa sera si recano a trovare un’altra coppia con cui hanno trascorso una settimana in montagna: giorni divertenti e riposanti, eccezion fatta per la sfortunata caduta di lei proprio durante la discesa dell’ultimo giorno. Ed eccola qui, la pupa, con la gamba ingessata e la testa appoggiata alla spalla di lui che sta guidando.

Prendono la strada vecchia per Ovada. Poi lui dice di ricordarsi una scorciatoia attraverso le colline. Si dovrebbe tagliare attraverso una frazione che si chiama San Lorenzo. S’inerpicano ma, quando giungono in prossimità di un bivio, la macchina inizia a rallentare per poi fermarsi senza più vita sul bordo della strada sotto i rami di un grosso albero. Il ragazzo scrolla la testa, scende e svita il tappo della benzina. L’intuizione è giusta: il serbatoio è a secco e senza dubbio si dev’essere guastato l’ago del rilevatore.
Che si fa? Ci sono i cellulari coi quali si può chiedere aiuto a qualche amico, magari proprio a quelli di Belforte. Ma non c’è traccia di campo e il tutto comincia a sembrare a un film thriller di serie B.
“Senti, qualche minuto fa abbiano oltrepassato una cascina con le luci accese”, dice lui, “non saranno più di due chilometri. Vado a chiedere aiuto, anzi, mi porto dietro una tanichetta. Tu chiuditi dentro. In mezz’ora si dovrebbe sistemare tutto. E, comunque, continuerò a provare con il cellulare. Magari bastano pochi metri per riavere il campo.”
“Tu sei matto!”, sbotta lei. “Io non ho voglia di starmene qui da sola…”
“Hai ragione, ma come si fa?”
Le chiude la bocca con un bacio. Poi il ragazzo si avvia. Lei lo guarda, torcendo il collo, finché lui non scompare inghiottito dall’oscurità.
La ragazza non ha voglia di accendere la radio e ascoltare musica. Si sta innervosendo ogni secondo di più, inutile far finta di no: la situazione non è piacevole. Conosce più o meno bene questa zona poco abitata: di notte è sempre così, un silenzio irreale, rotto di tanto in tanto dai richiami dei cani e dagli uccelli notturni, e non una macchina in vista. Ma forse, forse, è meglio così: con tutti i malintenzionati che circolano di notte, una ragazza sola e con una gamba rotta, anche se chiusa dentro un’auto, non può dirsi al sicuro.
Lentissimamente trascorre una mezz’ora. Il buio appare sempre più impenetrabile e il silenzio opprimente.
Passano ancora venti minuti e la ragazza inizia a preoccuparsi, sul serio.
Tutto questo tempo trascorso non ha giustificazione. Impossibile che non ci sia campo in un raggio di due chilometri, siamo in Piemonte e non in Transilvania. Un lungo brivido le percuote la schiena. Che sia successo qualcosa?
Mentre il sudore le imperla la fronte, un insolito rumore sul lunotto posteriore la fa trasalire.
Tac…
tac…
tac…

Un piccolo rumore, come un grosso tarlo nel legno, insistente e a cadenza regolare.
Il terrore ora le dilaga per il corpo. Il suo ragazzo non ritorna e là fuori c’è qualcuno che si sta prendendo gioco di lei.
Passa ancora una febbrile e orripilante mezz’ora. Lei non riesce più a controllare il tremore. Spalanca la portiera e prende a urlare verso il buio, mentre il rumore
tac…
tac…
tac…

alle sue spalle prosegue implacabile.
Dopo un minuto di disperate invocazioni d’aiuto, una luce si accende in mezzo alla campagna dall’altra parte della strada. La ragazza smette di gridare, trattenendo il respiro: la luce si muove, non c’è dubbio, e sta venendo nella sua direzione. Forse, forse, è la salvezza.
Altri minuti: dal buio spunta quello che sembra un contadino vestito di una tuta stracciata con una pila in mano. La ragazza, che ha posato con enorme fatica le gambe sulla strada, gli fa cenni con le mani per farlo avvicinare. Ma l’uomo punta la pila verso l’alto là dove si trovano i rami dell’albero sotto cui l’auto si è fermata e spalanca la bocca per la sorpresa. Quindi, dopo avere fatti sfoggio della più genuina espressione di terrore che si riesca a immaginare, spegne la pila e se ne fugge di corsa.
La ragazza inizia a piangere. La paura adesso lascia il posto a un altro sentimento indefinito in cui coabitano rassegnazione e purissimo sgomento. Quel rumore è sempre più ravvicinato. Il suo ragazzo non torna. E a questo punto lei non riesce nemmeno più a calcolare quanto tempo realmente è trascorso.
Un nuovo intervallo d’interminabili minuti. Quindi una sirena squarcia il silenzio. All’orizzonte compare un lampeggiante. E’ l’ambulanza. O, magari i carabinieri chiamati dal contadino di prima.
Finalmente l’auto con la sirena la raggiunge. E’ una macchina della polizia stradale di Belforte con a bordo quattro agenti vestiti di giubbotto antiproiettile che fuoriescono con pile e armi spianate. Guardano la ragazza senza parlare e puntano — anche loro! – gli occhi verso l’alto, nella direzione dei rami dell’albero, sopra il tettuccio della macchina, illuminando la scena con la luce delle torce.
Allora alza la testa anche lei.
L’orrendo spettacolo che vede non abbandonerà mai più la sua memoria: al ramo più grosso, sospeso a testa in giù con un laccio attorno ai piedi, penzola il corpo privo di vita del fidanzato, che oscilla lentamente sotto la spinta di un uomo dallo sguardo stralunato che se ne sta appollaiato come una scimmia sopra lo stesso ramo. Prima di svenire, sopraffatta dall’insopportabile scena, comprende la natura dell’inusitato rumore che l’ha terrorizzata per due ore: era la testa del suo ragazzo che, a causa dell’effetto altalenante inpresso al corpo dal pazzo assassino, sbatteva contro il lunotto della macchina a intervalli regolari.
Quando la ragazza si sveglierà, qualcuno le racconterà che il folle — uno dei tanti che vivono rinchiusi nelle cascine attorno a Bassavilla, in teoria guardati a vista da parenti trasformatisi loro malgrado in guardiani senza preparazione dopo la legge 180 – , prima di aggredire il fidanzato e inscenare quel macabro scherzo, aveva ucciso a colpi d’ascia tutti i membri della famiglia dalla quale il giovane si stava dirigendo per chiedere un po’ di benzina.
Non ne avete mai letto sui giornali e pensate che sia solo una leggenda metropolitana? Forse, ma fate sempre il pieno prima di uscire la notte per le campagne di Bassavilla.