CA0335.jpgdi Francesco Scalone

Nell’Età dell’oro (Editrice Nord, € 16.50), John C. Wright immagina un futuro lontanissimo in cui migliaia di anni di continuo progresso economico, sociale e scientifico hanno resa perfetta la società. Immortalità per tutti, ma soprattutto pace e tranquillità in un mondo senza più crimini, guerre e schiavitù dal lavoro. Mentre l’umanità è libera di sperimentare e sognare, l’ennesima rilettura del cyberspace gibsoniano si ammanta di una più suggestiva dimensione onirica ed estetica, diventando lo spazio sogno in cui tutte le menti sono immerse.
La mutazione antropologica descritta da Wright, in realtà, è talmente radicale e profonda che la specie sapiens risulta nei fatti estinta: non si può parlare più di evoluzione, ma di una totale dissoluzione in una pluralità di soggetti e forme post-umane.

Sofisticate tecniche di neurochirurgia e genetica hanno permesso di creare uomini dai cervelli potenziati, ammassi di menti in simbiosi tra loro e nuove neurostrutture con coscienze multilivello. E questa varietà non riguarda solo le strutture profonde della mente: i post-umani dell’Età dell’oro dispongono anche di più copie artificiali di sé stessi, trascendendo la centralità del corpo e la sua stessa forma individuale. Ma oltre alle menti disincarnate e ai manichini organici animati dalla telepresenza, compaiono anche cloni coscienti in grado di sopravivere ai propri originali. I richiami, più o meno espliciti, a Baudrillard e Dick sono evidenti, soprattutto quando Wright mostra come doppi e simulacri possano alla fine rivelarsi più veri degli originali. Senza far riferimento a Jameson e al “soggetto postmoderno decentrato”, sta di fatto che la destrutturazione del soggetto (dell’io cosciente o in qualsiasi altro modo si voglia definirlo) implica necessariamente la ridefinizione del rapporto stesso che questi ha con la realtà. Del resto, non è casuale che l’invenzione concettualmente più potente dell’immaginario cyberpunk sia stata proprio la matrice, ovvero l’idea che la stessa percezione della realtà possa essere sostituita da un’allucinazione consensuale. Continuando su questo filone, Wright elabora una più ampia nozione di spazio sogno e spazio pensiero in cui Phaethon e gli altri protagonisti del libro non solo vivono, ma possono anche condividere esperienze, memorie ed emozioni. E quando poi i personaggi “riemergono” nella realtà, le loro percezioni vengono continuamente alterate dai filtri sensoriali che portano impiantati nella mente. Si tratta di una perenne sospensione in una dimensione priva di qualsiasi concretezza, una condizione di completo isolamento e spaesamento. Alla fine del romanzo, il Collegio degli Esortatoti espellerà Phaethon dall’Ecumene dorato, tagliandolo fuori dallo spazio sogno e dalla rete di comunicazione interplanetaria. Phaethon non solo perderà i contatti con le intelligenze artificiali della Scuola Grigio-Argento, ma non sarà più neanche in grado di scaricare i senso filtri e le altre routine cerebrali necessarie ad abitare la “realtà”.
Ad ogni modo, l’ostracismo patito da Phaethon equivale ad una vera e proprio condanna a morte. L’immortalità raggiunta nell’Età dell’oro si fonda infatti sulla riproducibilità della coscienza individuale: l’io, sganciato definitivamente dai limiti del corpo organico, viene custodito nelle banche dati dell’Ecumene per essere continuamente aggiornato dal raggio della Mentalità. Wright accenna alla scoperta di una matematica “noumenale” e alla conseguente possibilità di ricondurre la mente e la coscienza ad una sequenza di algoritmi e formule logico-matematiche. Questa idea, seppur approssimata, è resa comunque in modo assai suggestivo. Se l’organismo biologico e il cervello biochimico permangono come ingombranti residui, l’io individuale invece può essere continuamente riprodotto, copiato e condiviso. Tutto ciò innesca una proliferazione dell’identità individuale assai difficile da controllare: mentre Helion muore perché la copia di sé stesso custodita nella banca dati della Mentalità ha perso un’ora di aggiornamento, il “relitto” rimasto in vita è costretto a una strenua disputa legale per non perdere il proprio patrimonio. La differenza tra l’essere vivi o morti è dunque data da una specifica configurazione di informazioni e dati.
Figlio prediletto di Helion, fondatore della Scuola tradizionalista dei Grigio-Argento, Phaethon è un formidabile ingegnere planetario che in oltre mille anni di vita ha compiuto opere grandiose e spettacolari. Ma nonostante la gloria guadagnata, Phaethon scopre che il Collegio degli Esortatori, la massima autorità dell’Ecumene, ha ordinato che gli venissero cancellati dalla memoria duecentocinquanta anni di vita. Che cosa di tanto terribile e rischioso stava progettando? La colpa di Phaethon è stata quella di “aver sognato un sogno di cui gli altri hanno avuto paura”, quella di progettare un viaggio interstellare oltre i confini del sistema solare. In realtà, l’Ecumene dorato è una società che basa la propria apparente perfezione sull’immobilità e la conservazione dello stato di cose esistenti e, per questo, non prevede alcun rischioso cambiamento.
Qualcuno ha già voluto mettere a paragone la carica creativa e speculativa dell’Età dell’oro con quella di Neuromante, il capolavoro indiscusso della lettura cyberpunk. In realtà, la scrittura di William Gibson ebbe effetti tanto più dirompenti appunto perché in grado di rendere manifesti tutti quei fenomeni di ibridazione linguistica, sociale e tecnologica allora sul nascere. Oggi, nell’era in cui molti di quei presagi si vanno realizzando, John Wright ha scelto invece di nutrire la propria fantascienza di più intense suggestioni poetiche. I numerosi richiami letterari vanno infatti da Shakespeare al teatro del settecento, da riferimenti mitologici alla tragedia classica. Pur rimanendo nei rigidi stereotipi del romanzo di genere, più volte Phaethon guadagna lo spessore di un personaggio tragico. Particolarmente toccante è la scena in cui piange la moglie Daphne rinchiusa nel sarcofago del tempio warlock, così come di uguale impatto emotivo è lo scontro tra Phaethon e il padre Helion: nonostante l’acerrima divisione, traspare vivo il senso di pietà e reciproca compassione che anima entrambi. Phaethon rappresenta l’eroe diviso tra l’amore verso il padre e i suoi sogni di grandezza, tra l’ubbidienza dovuta al Collegio degli Esortatori e la necessità di compiere il proprio destino. La tensione etica, allora, non nasce dalla lotta del bene contro il male, dalla banalizzazione dei buoni contro i cattivi, ma dalla continua ricerca di un principio su cui basare le proprie azioni, per discernere ciò che è giusto e si deve perseguire da ciò che non lo è.