di Daniela Bandini

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Giuseppe D’Agata, I ragazzi del coprifuoco, Dario Flaccovio Editore, 2005, pp. 254, € 14,00.

Quest’ opera di Giuseppe D’Agata è particolare, per due motivi: pur essendo un libro di memorie nel quale si intrecciano un presente disperato e un passato in costruzione non vuole essere un’apologia del rimpianto né un inveire contro un destino cieco e baro. Non rimane in bocca quello stucchevole sapore di rammarico, tanto caro e sofferto sentimento nel quale spesso involontariamente si crogiolano gli anziani. C’è una parola, breve e potente che riassume il tutto: prima. Prima del 25 aprile 1945, prima della maturità, prima che il mondo fosse quello che è oggi.

Prima, quando il lavoro era sudore della fronte, prima, quando la solidarietà tra gli uomini era il frutto di una condivisione essenziale come la pagnotta di pane nero ripartita tra poveri, prima che l’inganno e la menzogna divenissero i parametri sui quali misurare la sopravvivenza e la carriera. Prima che la fine della guerra fosse anche la fine dei nostri sogni più importanti. Dopo è meglio defilarsi, non lasciarsi tentare da parate o sfilate a titolo risarcitorio che hanno il sapore di un contentino, nei confronti di una storia tradita.
Stiamo parlando della Resistenza, di quel grande, forse unico grande capitolo della storia d’Italia, dove sono nati la consapevolezza e la dignità di classe, l’emancipazione femminile e il riscatto dei più poveri. Dove gli intellettuali poterono finalmente cimentarsi a educare un intero popolo immiserito e avvilito dallo strapotere asfissiante di un clero ignorante e retrogrado. Dove la vittoria, sì la vittoria, era lì, ce l’avevano fatta, una parola che sembrava preludere ad infinite altre vittorie e che invece non si è più ripetuta. Anzi, a furia di ampollose estasi su quegli eventi, accompagnate dalla cieca profusione ingessata dei vertici del partito comunista sui Valori della Resistenza, hanno finito per calpestarla. Proprio coloro che l’avevano combattuta l’hanno vista sbriciolarsi, umiliata da altri valori, dalle regole di un capitalismo che ben poco aveva a che fare con un’economia fondata sostanzialmente sul baratto, tipico dell’Italia di allora.
Piccole cose, che sembravano preludere a un benessere collettivo e generalizzato hanno prodotto l’imborghesimento degli anni ’70-’80 e l’impoverimento degli anni successivi, grazie alla concertazione. I ragazzi di oggi, coloro che entrano adesso nel mondo del lavoro, contratti a termine, precarietà, corsi di aggiornamento interminabile, rapporti di subalternità gerarchica opprimente e inappellabile, sarebbero questi il futuro luminoso, sarebbero questi i figli della Resistenza italiana e dei suoi valori? La battaglia è stata davvero persa, compagni.
Questo libro non tratta di questo, o meglio non è un’analisi sui massimi sistemi dell’economia globalizzata, ma parte da un letto d’ospedale. Due vecchi amici si incontrano nuovamente, qui a Bologna, alle Nuove Patologie del Sant’Orsola, dove per pura coincidenza venne ricoverato anche mio padre e dove vi morì, dello stesso male, con un tumore allo stomaco. Si incontrano, e le gerarchie vengono immediatamente ristabilite, l’uno è il comandante, il comandante Mistico, l’altro, allora un ragazzino, un suo sottoposto. Il Comandante Mistico non era un visionario, un capo romantico alla Che Guevara, il suo nome gli venne affibbiato durante un incontro di biliardo, nel quale era un campione assoluto. Dopo l’ennesima vittoria, un adolescente che assisteva all’evento dell’incontro, nel caffè Adua di Bologna nel ’44, gli gridò: “Sei grande… sei Mistico!” Probabilmente avrebbe voluto dirgli “Mitico”, ma mistico piacque, e mistico rimase.
Queste due persone si incontrano nuovamente, e come spesso accade ai volti che amiamo, subito ne riconosciamo i tratti lontani di allora, la stessa volontà e lo stesso carattere. I lineamenti, quelli che attualmente vogliamo spianare a furia di iniezioni di botex che letteralemnete paralizzano le contrazioni muscolari rendendo i volti rigidi e inespressivi sono quelli, e le rughe che solcano la pelle sono la dimostrazione che quel passato è esistito veramente. C’è un grande pudore nell’affrontare il passato, ancora più che nell’affrontare la prova della morte. Se ne parla a tratti, i ricordi vengono miscelati con cura, lo spettro di una nazione che è andata alla malora malgrado la Resistenza, è forse l’antidoto più potente al rimpianto.
Quell’incontro è un silenzioso e leggero riandare con la mente ai luoghi della propria fanciullezza, dell’adolescenza piena di passioni, del jazz, del mito dell’America con le sue sigarette Chesterfield che al solo aspirarle senti il profumo del lusso, della libertà, delle ragazze. Il profumo della Liberazione, della giovinezza. E’ un bellissimo libro, e per i bolognesi è un addentrarsi in strade, vicoli, luoghi conosciuti, con le macerie, i conflitti, la paura, l’arroganza stupida dei fascisti, la clandestinità, l’umidità degli androni, di allora. Per i non bolognesi, un libro da leggere perché la storia è storia di tutti, e perché ancora nel centro storico di Bologna, qualora lo visitassero o lo avessero già fatto, possono ripercorrere strade, vicoli e androni che conservano ancora l’odore di quegli anni.