di Beppe Sebaste (da L’Unità del 7 febbraio 2005)

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Pochi, credo, hanno visto il film che fece scandalo a Locarno nel 2000, Baise-moi!, cioè Scopami!, tratto dall’omonimo romanzo. Diretto da Virginie Despentes e Coralie Trinh Thi, il film era interpretato da due donne con esperienze di film porno, Raffaela Anderson e Karen Bach. Lo scandalo, tra sesso e violenza estremi, era ampliato dal fatto che fosse un film fatto da donne, rovesciando (un po’ come quelle carte geografiche che mettono il Nord in basso, e ribaltano le prospettive eurocentriche) sguardo e ruoli maschili.

“Perché le donne si prendono delle mani sul culo e gli uomini no?”, rivendicava polemicamente l’attrice Karen Bach all’epoca della presentazione del film. “Tutto quello che si chiede loro è comprensione, uguaglianza. Il porno è fatto di maschi che vengono in faccia alle ragazze, la donna che lo prende fino a imbottirsi… Baise-moi, è il contrario”.
Le cronache raccontarono una conferenza stampa così provocatoria da risultare inerme. Tenerezza di quella bottiglia di Four Roses con poco ghiaccio di fianco alle Ceres rosse, le Lucky Strike accese e spente di continuo, l’aria persa delle quattro coautrici. L’accusa di perversione era rilanciata sul pubblico, troppo autorevolmente scandalizzato (per ragioni non solo morali, finalmente anche estetiche), con ripetute folgorazioni contro la “normalità” dei critici. Era un film volutamente punk e anarchico, dove gli uomini sono al tempo stesso colpevoli e bersagli. Anche fuori del film. Ma Karen Bach, che la carriera di pornostar l’aveva conclusa prima di girare quel film, ha anche testimoniato le gelida, laconica normalità di un set pornografico, in un quasi diario su Libération: “Doppia penetrazione da parte di…, seguita da un’eiaculazione. Coperta di sperma, fradicia, morta di freddo, nessuno mi ha passato un asciugamano. Una volta che hai girato la scena, non vali più niente…”
Viene in mente quel film con Alessandro Haber nel ruolo di produttore-regista-sceneggiatore di film-porno, mentre nel camerino scandisce con voce straniata la sequenza di dialoghi porno. Qui però non si tratta di finzione, ma di svelamento: “pasto nudo”. Karen Bach, lo avrete letto, si è tolta la vita in sordina una settimana fa, ingerendo medicinali. Aveva 31 anni, non recitava da tempo, viveva appartata. I giornali hanno riportato alcuni titoli della sua carriera di pornostar, ma nessuna foto, neanche su Internet, tranne quel fotogramma da Scopami! in bikini con la rivoltella, capelli e occhi neri.
Così, mentre si preparava il congresso dei Ds, festa delle parole efficaci e non inermi, mentre le pagine culturali arrancavano un po’ ovunque riportando fantasmi di dibattiti, riflettevo alla domanda posta dallo scrittore Mauro Covacich: se sia ancora possibile scrivere oggi un “romanzo scandaloso”, ovvero una storia che non venga risucchiata dalla normalità dell’orrore che racconta, che sia capace di costituirsi in un “fuori”. E’ una bella domanda. Prima ho pensato che il “fuori” non è altro che lo “spazio letterario”, quello spazio affermato da sempre, a costo dell’esilio, da Ovidio o Dante in poi, fosse anche esilio dai mass media. E che più il linguaggio suona inerme, più ci si distanzia dall’orrore, meno si rischia di esserne assimilati. Poi mi ha colpito la storia di Karen Bach, della sua disperata capacità o incapacità di preservarsi, di essere “fuori”, e per questo inerme.