libro_endrigo.jpg[Un’anticipazione dal n.7 di Nandropausa, l’e-zine di consigli letterari di Wu Ming, on line su wumingfoundation.com il 18 dicembre. In questo numero commenteremo i seguenti libri (l’elencazione è casuale): Valerio Evangelisti, Noi saremo tutto; Sergio Endrigo, Quanto mi dai se mi sparo?; Serge Quadruppani, La notte di Babbo Natale; Enzo Fileno Carabba, Pessimi segnali; Y.B., Allah Superstar; Marco Philopat I viaggi di Mel; Giancarlo De Cataldo, Il padre e lo straniero; Andrew Masterson, Il secondo avvento; Kem Nunn, Pomona Queen. Ringraziando Carmilla per l’ospitalità, auguriamo buona lettura. WM]

Sergio Endrigo, Quanto mi dai se mi sparo?, Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, pagg. 174, € 10,00

In una sera dell’estate 2003, entro in un cortile dell’ex-Macello comunale, via Azzogardino, Bologna. L’area dell’ex-Macello, ristrutturata e assegnata all’università e alla Cineteca comunale, si accinge a ospitare le due nuove sale del cinema Lumière, aule, laboratori etc. Mi trovo lì per vedere un concerto, anzi, una lunga improvvisazione a capella di Maggie Nichols, vocalista scozzese, esponente del jazz d’avanguardia nel Regno Unito, già nel Feminist Improvising Group e in vari altri progetti e collettivi.

Sul palco, Maggie (ex-ballerina, tra l’altro) esegue un tip-tap patafisico e comincia a offrire strilli, gargarismi, borbottii, lunghi sospiri raschiati. Sulla sinistra di chi assiste, il cortile è sovrastato da un palazzo. In quello che è probabilmente un appartamento di studenti fuori-sede, al terzo o quarto piano, è in corso una cena, o una festa. Sul balcone campeggia una bandiera della pace, e a dire il vero campeggiano pure alcuni stronzi, che iniziano a disturbare e prendere per i fondelli, fanno il verso a Maggie, ululano, gettano in basso pernacchie. La signora è una vera signora, non si cruccia, sorride, prosegue, addirittura li saluta con la manina. Proseguono anche loro. Il pubblico è incazzato nero, io rimpiango di non aver portato la fionda e le biglie d’acciaio, era proprio l’occasione di incrinare qualche costola.
A un certo punto Maggie fa una pausa e, incredibilmente, se ne esce con parole antiche, dalle profondità della storia: “Avaaaaan-ti popolooooooo, al-la riscooooosssaaa, bandie-rarossaaaaaa, bandie-rarossaaaaa“. Che uno sia o meno comunista, è un momento magico, tanto più che termina con sacrosante variazioni: “evviva il socialismo, il comunismo, l’anarchismo, il femminismo, e la li-bertàààààà”. Quelli sul balcone rimangono basiti e alfine si ricacciano la lingua in culo. Applauso, Maggie riprende coi vocalizzi, il bello deve ancora venire.
Tre quarti di performance: Maggie si rivolge a noi in un italiano stentato ma passabile. Ci dice che all’inizio degli anni Settanta, giovanissima, ha lavorato in Italia. Faceva la ballerina di fila nello show di Jee-naw Bra-mee-ayry, e se questa non è una sorpresa… Di quel periodo ricorda una canzone molto bella, le è passato di mente chi la cantasse, ma le parole non le ha mai scordate. A quel punto attacca Io che amo solo te di Sergio Endrigo: “C’è gente che ha avuto mille cose, / tutto il bene, tutto il male del mondo / Io ho avuto solo te / e non ti perderò, / non ti lascerò / per cercare nuove avventure…” E io mi commuovo, il cuore mi batte forte, dico sul serio, perché io adoro le canzoni di Endrigo. Maggie fa qualche errore di pronuncia ma l’interpretazione è accorata, scatta l’applauso, e io mi dico: “Per ringraziare questa donna, le restituirò un pezzo di vita e di memoria”.
L’esibizione sta per terminare, corro a casa, prendo una delle mie raccolte di successi di Endrigo, mi riprecipito al Lumière, vado in petto al palco, allungo il cd alla cantante dicendole: “A gift for you, Maggie. This is the guy who wrote the song“. Le dico il titolo e le indico la traccia. Lei rimane a bocca aperta, si commuove, mi ringrazia profusamente. “Ho fatto serata”, come suol dirsi.
Endrigo ha una reputazione di cantautore triste del tutto immeritata. Nell’album Pompa (1977), gli Squallor lo nominavano in una ballata d’amore per una piattola triste, insieme ad altri presunti tetri figuri del cantautorato (Guccini, Branduardi, De Andrè etc.) Probabilmente pesa l’incipit del pezzo con cui Endrigo vinse Sanremo nel 1968, Canzone per te: “La festa appena cominciata / è già finita / Il cielo non è più con noi / La solitudine che tu mi hai regalato / io la coltivo come un fior”.
In realtà Endrigo, anche non tenendo in considerazione le sue canzoni per bambini, non è soltanto struggimenti d’amore e malinconia, ha anche momenti distesi come La periferia, beffardi come Maddalena, sarcastici come Via Broletto.
Sono particolarmente legato a La periferia: “Io amo la periferia / da quando ho incontrato te / Mi piace aspettare la sera seguendo le strade / che portan lontano / dalla città / Le case in periferia / Risuonan di grida e di canzoni / E mille e mille panni colorati / Si muovono al vento, / bandiere di festa / solo per noi”. Endrigo descriveva una periferia che era ancora spazio di transizione (paesaggistica e culturale) fra città e campagna, non ancora storpiata da speculazioni edilizie giganteschi parallelepipedi di cemento centri commerciali uno in fila all’altro svincoli autostradali, assordata dal traffico e dalle strida degli spettri degli alberi abbattuti. Nella città in cui vivo l’edilizia è assurta allo status di malattia mentale di massa, con periferie che ti viene da urlare d’angoscia quando le attraversi, per il rumore, il tanfo catramoso, il calore contundente assorbito e rilasciato dall’asfalto. Ma siccome la deturpazione la fanno le cooperative “rosse”, è politicamente corretta, è indispensabile “sviluppo”, e tutti zitti e mosca.
Marx e Engels scrissero che andava superata la distinzione fra città e campagna, ma questo non significa per forza divorare quest’ultima e annichilire le forme di vita che la popolano. Si può superare la dicotomia lasciando nella città spazi “incompiuti”, squarci di campagna nel territorio urbano, come quei campi di Mais a Bologna (già condannati a morte, temo) tra via Scandellara, il Pilastro e l’Ipermercato Leclerc, o quei casolari con galline razzolanti e canti dei galli all’alba ai piedi delle Mura di Ferrara, praticamente in centro. Io ci sento tutto questo, nella canzone di Endrigo.
Caduto nel dimenticatoio per qualche tempo, tranne per noi che amiamo il vintage cool (“fresco di vendemmia”?!?!?), negli ultimi anni Endrigo sta godendo di una riscoperta lenta ma costante, iniziata con l’inclusione di due sue canzoni (Aria di neve e Te lo leggo negli occhi) nell’album Fleurs di Battiato (1999), proseguito con un omaggio in grande stile del Club Tenco e con la recente e ben promossa riedizione del suo unico romanzo, uscito qualche anno fa e passato inosservato (me ne avevano parlato i rivenditori Einaudi di Milano, Magda, Beppe, Aimo, durante la tournéè di Q). Si intitola Quanto mi dai se mi sparo?, l’ho letto d’un fiato, in un solo pomeriggio.
Il cantante Joe Birillo, “vecchia gloria” degli anni Sessanta e trasparente alter ego dell’autore, ci conduce e si conduce – Virgilio di se stesso – nella “città dolente” di indefiniti anni Ottanta (gli Eighties non sono un decennio, sono uno stato mentale, il peggiore). Attraversiamo con lui lo squallore di una provincia devastata, di una mezza età vissuta come pellegrinaggio al cimitero degli elefanti, di balere che sono sinagoghe del cattivo gusto, di una vita familiare atroce, sequela di fitte all’anima. Agenti, discografici, manager e giornalisti che sono personificazioni dello schifo. “Joe aveva resistito a lungo, era ora di lasciar libero il passaggio. Il mondo è vostro, accomodatevi. Mi raccomando, pulite tutto prima di andarvene. A Porta Portese aveva visto dei quarantacinque giri degli anni Sessanta ammucchiati alla rinfusa su una bancarella. Non aveva avuto il coraggio di chiedere il prezzo: quanto costa un Birillo d’annata, un Rita Pavone, un Morandi (rivalutato), un Michele? Mille lire, non sono mica dei Van Gogh, cazzo! Sic transit gloria mundi.” Birillo – proprio come Endrigo – continua a incidere dischi con nuove canzoni, ma nessuno glieli fa uscire. A un certo punto ha un’idea, e la fortuna di proporla alla persona giusta. Di più non vi racconterò.
In America i Dick Contino trovano i loro Ellroy, i Dean Martin trovano i loro Tosches. Qui da noi, chi prenderà Endrigo, chi si ispirerà a lui per scrivere pagine memorabili, chi ne sbalzerà la figura sulle lastre d’oro del mito? Lo farei io, se avessi il tempo. Ma non ce l’ho. Questo è un appello ai colleghi narratori che mi leggono: occupatevi di Sergio Endrigo. Il suo sito ufficiale è: http://www.sergioendrigo.it/ [WM1]