di Valerio Evangelisti

Rut.jpg
La casa editrice Piemme ha pubblicato nel 2002 un libro singolare, a cura di Francesco Antonioli, intitolato La Bibbia dei non credenti (pp. 226, € 14,90), in cui cinquanta personalità della cultura, della politica, della scienza e dello spettacolo (da Fausto Bertinotti a Erri de Luca, da Renzo Arbore a Folco Quilici, da Goffredo Fofi a Beppe Grillo) lontane dalla fede religiosa erano chiamate a commentare un passo biblico. Questo è il commento di Valerio Evangelisti al Libro di Rut.

Il Libro di Rut si discosta di parecchio dal resto del Vecchio Testamento. Quasi sorprende, direi, collocato com’è tra i Giudici e il primo libro di Samuele, che narrano di grandi eventi storici. Il Libro di Rut è diverso, e si distacca da gran parte della Bibbia. Racconta in tono piano, senza simbolismi palesi, un comune atto di bontà; anzi, tutta una serie. Non vi figurano né eroi né santi, ma gente di campagna. La presenza di Dio è forte, però nelle menti dei protagonisti. Il Creatore non appare in prima persona, la sua presenza è amichevole e discreta.

Riassumere la vicenda è molto facile. Noemi ha abbandonato Betlemme e si è stabilita con il marito a Moab, dove i suoi figli hanno sposato donne del posto. Marito e figli però le muoiono, e Noemi torna in patria in compagnia di Rut, una delle sue nuore. Questa è una straniera, una moabita; tuttavia la sua gentilezza d’animo le conquista rispetto. Per aiutare Noemi va a spigolare: cosa che la legge consente, ma che irrita i mietitori. Finisce sulle terre di Booz, un possidente imparentato a Noemi. Questi nota la fatica di Rut e ordina ai mietitori di lasciare cadere apposta delle spighe, perché la donna possa raccoglierle.
E’ l’inizio di un rapporto tenero, però ostacolato dalla legge. Booz è sì parente di Noemi e dunque di Rut, ma le norme del levirato impongono che non sia lui, ma chi gode di un più stretto grado di parentela a sposare la giovane vedova. Ciò perché la terra di Noemi andrebbe allo sposo, e così la trasmissione dei beni rispetterebbe gli usi. Inoltre, Booz è già anziano.
Malgrado ciò, le cortesie di Booz verso Rut continuano, finché questa, riconoscente, non gli si infila di notte sotto la coperta, in corrispondenza dei piedi. Booz è definitivamente conquistato, e promette a Rut che farà il possibile per sposarla. Intercetta infatti, all’ingresso di Betlemme, l’avente diritto al matrimonio e un gruppo di anziani. Espone loro il caso. Il suo parente rinuncia di buon grado alle nozze e al campo di Noemi, gli anziani convalidano la decisione. Booz è autorizzato a sposare Rut.
Tutto qua. La storia, intessuta di molteplici atti di generosità (Rut verso Noemi, Noemi verso Rut, Booz verso Rut, il parente verso Booz, gli anziani verso entrambi gli uomini; oltre alla comunità piuttosto chiusa di Betlemme nei riguardi di una straniera), non comprende altri elementi. Al punto che un successivo autore biblico, accortosi del suo minimalismo, ha creduto bene di aggiungervi, all’ultimo paragrafo, una genealogia contraddittoria e fasulla, che farebbe di Rut un’antenata di Davide. Quasi che si dovesse a tutti i costi giustificare la presenza modesta di Rut in una raccolta di testi di ben altro tenore.
Invece è proprio la semplicità dell’episodio che gli conferisce fascino. A ben vedere, la piccola vicenda potrebbe essere trasportata in un qualsiasi secolo, in contesto rurale. Cambierebbe ovviamente il quadro giuridico, molti dettagli andrebbero ritoccati, tuttavia i valori di fondo — generosità, tolleranza, cortesia, buon cuore — resterebbero intatti. Inclusa una presenza divina così discreta da avere abbandonato scenari cosmici e grandiosi per mimetizzarsi negli atti, secondo un processo che definirei “evangelico”.
Ora, si prenda un testo della latinità, o anche ellenistico, o ancora del basso medioevo. E’ frequente la sensazione di avere a che fare con sistemi di valori, modi di ragionare, costruzioni del dialogo totalmente alieni. Consideriamo, per fare un esempio, le conversazioni che avvengono alla tavola di Trimalcione nel Satyricon. Spesso la logica sfugge anche al più partecipe dei lettori, sembra seguire ritmi propri andati perduti nel tempo. Il suo grado di alienità è talora sconcertante. Ma ciò vale anche per tutta una letteratura coeva e successiva, per non parlare di quella antecedente. Vi ci si accosta con una curiosità vagamente “archeologica”, e ci si espone a un senso di smarrimento tenue eppure sensibile.
Ciò è vero anche per molti libri importanti della Bibbia. Non è vero né per il Nuovo Testamento, né per il libro di Rut. Ecco allora che questo piccolo testo ci fornisce una chiave preziosa per intuire la persistenza nel tempo e nella storia del messaggio biblico nella sua essenza. Aderisce a costanti del pensiero umano che possono anche essere pervertite o cancellate per periodi lunghissimi, ma che finiscono sempre per affiorare di nuovo, resistenti come sono all’usura del tempo. E poiché consistono di amore, serenità, gentilezza e armonia, lasciano ben sperare in un futuro esente da patologie individuali e collettive. Non a caso, fanno parte di ciò che, sotto ogni latitudine, viene comunemente chiamato “bene”.
Sospetto che sia questo archetipo che si nasconde sotto la piccola storia di Rut. La quale, dunque, tanto piccola non è.