di Giuseppe Genna
3massimalisti.gifSarebbe necessario rivedere le categorie critiche, oggi – almeno sarebbe necessario farlo in Italia. La letteratura è slittata rispetto ai letti fluviali di un tempo. Prendiamo tre esempi a caso: Mater Terribilis di Valerio Evangelisti , il poema Il profitto domestico di Antonio Riccardi e Un amore dell’altro mondo di Tommaso Pincio. (i tre autori della foto) Di fronte a questi tre libri, l’incertezza della critica è altissima; ben che vada, se ne parla sui giornali (che non sono propriamente una sede critica), altrimenti non se ne parla proprio. Questi tre libri evidenziano: uno stravolgimento della retorica consolidata (per esempio, l’uso di un nuovo tipo di allegoria); un utilizzo rivoluzionario dei generi ben al di là della “contaminazione” (la fantascienza per Pincio ed Evangelisti, l’epica per Riccardi); l’incontro con porzioni ampie di realtà (successo editoriale a parte, ricorre la convocazione di una nuova forma di critico). Tento qui una mappatura, del tutto idiosincratica, di questa galassia che è la letteratura contemporanea italiana.

benjamin.jpgEvito di parlare precisamente dei tre titoli esemplificativi, perché il ragionamento, mi sembra, potrebbe adattarsi anche ad altri scrittori (Wu Ming, Moresco, Scarpa, l’ultimo Mari, Mario Benedetti, Voltolini, etc.). Utilizzo il termine “massimalista” per pura convenzione linguistica, non soltanto in opposizione al minimalismo – forse “scrittori allegorici” sarebbe più adatto – poiché la guida, in questa analisi, è essenzialmente il trattato sul Dramma Barocco di Walter Benjamin (nella foto sopra).

Sul massimalismo nella letteratura italiana contemporanea

Scrittori solitari e solitamente schivi possono osservare un medesimo orizzonte. A differenza di quanto accaduto negli ultimi vent’anni di letteratura italiana, essi condividono un medesimo orizzonte a partire da una consapevolezza e una coerenza di ordine estetico che è più potente di ogni eventuale classificazione. Ciò che qui si tenta è un’estemporanea ricognizione delle tematiche e dei tratti di poetica che sembrano emergere, come un profilo coerente, dalle opere di alcuni poeti e narratori italiani contemporanei. Non c’è volontà nell’asserire l’esistenza di un medesimo cosmo di riferimento per questi scrittori. Uno dei tratti distintivi del loro lavoro, apparentemente, è che l’oggetto estetico, in ogni valenza, è indifferente rispetto al soggetto che lo elabora : il fuoco è sull’oggetto, non sulla biografia dello scrittore. Non si tratta di una strategia : è che il rapporto del soggetto scrivente con i saperi e la considerazione del mondo in cui vive e lavora, per questi romanzieri e poeti, è talmente complesso e strutturato che, circa questo punto, è assolutamente superfluo elaborare tattiche a priori che condizionino la produzione estetica.

Il mondo letteralizza. Questa pare essere, al momento, la difficoltà che questi scrittori affrontano con maggiore intensità. Si vive, attualmente e qui, Italia 2003, la condizione di individui esposti a una miriade di segni e di significati che il mondo, la sfera di civilizzazione del mondo, esprime autonomamente come se avesse mutuato dalla letteratura strategie interne e modalità creative, avendo avuto cura di eliminare l’uomo che le pensa, le sente e le realizza. Si ha la sensazione che la letteratura, oggi, sia soltanto una fra le molte stanze di un museo, la cui teoria di opere catalogate viene rinfoltita con sempre minore cura e i cui rapporti col mondo esterno appaiono labili e confusi, e il mondo esterno stesso manifesti una vivacità estetica inquietante, come se un oggetto avesse appreso i segreti del mestiere e li applicasse con molta più inventiva e molta più malizia (una malizia che nasconde un disegno) degli scrittori contemporanei.

E’, anzitutto, un problema di ambizione. Che cosa ci si attende dall’opera letteraria, oggi ? L’incredibile depauperamento della capacità di impatto cognitivo e ontologico dell’opera letteraria si spiega con l’indebolimento dell’attrazione tra due poli : è venuta meno, da parte dei lettori, l’attesa dell’incisività (ontologica, appunto, poi etica, infine perfino estetica) dell’opera letteraria ; allo stesso tempo si constata un affievolimento del credito che lo stesso letterato concede all’idea di opera letteraria. Un’atmosfera lassista, accompagnata dalla carenza di studio (non di nozioni e nemmeno di capacità autocritica) pervade ciò che un tempo si definiva “ambiente letterario” ; tanto che, e non ci si vergogna a dirlo, non esiste più alcun ambiente letterario.

Da questo punto di vista, la narrativa italiana sembra stare molto peggio della poesia. Non soltanto manca il collante intellettuale tra chi scrive in prosa ; mancano, soprattutto, strategie estetiche che portino alla scrittura di romanzi che innovino una tradizione, quella del romanzo italiano, che già di per sé si può considerare debole. Le storie che si avvicendano, copertinate e lucide negli scaffali delle librerie (generalmente Feltrinelli) o che si ammassano sui tavoli delle giurie dei premi letterari (un’istituzione decadente, che sembra riflettere lo stato di crisi dell’ambiente letterario in genere), sono vicende private o semi-tali, prive di un’elaborazione della complessa grammatica della narrativa, sensibilmente impoverite del retroterra di studio e di considerazione del mondo (qualunque considerazione che affronti la totalità del mondo) a cui lo scrittore è sempre stato chiamato. L’imperante dominio del privato (nelle vicende esistenziali di personaggi stinti e flebili che raccontano una vita stentorea, infittita di accadimenti minimali) e l’onnipervasivo gioco linguistico (di matrice neoavanguardista, nel migliore dei casi ; spesso, invece, figliatura di un non meglio chiarito impulso a “trasgredire”, a risolvere a livello linguistico l’intera portata conoscitiva dell’opera letteraria) sono le due categorie con cui è possibile classificare la narrativa contemporanea italiana. Sono categorie che, nella maggioranza dei casi, nascono in forza di una sensibilità diffusa, di una tendenza all’elaborazione immediata della scrittura : di una inindagata “voglia” di scrivere che nasconde un’inquietante assenza di fiducia nella letteratura.

La poesia italiana contemporanea è l’erede di un’arte che ha fatto la grande letteratura italiana di questo secolo. Condizioni ambientali e linguistiche hanno permesso ai poeti di lavorare senza merito e, quindi, in un anonimato ben più fecondo dell’esposizione ai riflettori di cui hanno goduto i romanzieri. Anche oggi, oggi che si percepisce uno stato generalizzato di decadenza della letteratura poetica italiana, ci si attende da un poeta un pensiero dell’opera, un atto di metabolismo di poetiche e stili che è del tutto estraneo alla gran parte dei narratori. Tuttavia da cosa deriva la sensazione di stasi, di disastro, di morte imminente che si percepisce parlando con poeti e critici contemporanei ? Generalmente, la risposta addotta tende a scaricare le responsabilità sulla “società”, sulle modalità di vita dei lettori contemporanei, sugli apparati mediatici che, con le loro produzioni, sembrano avere eroso la capacità veritativa della parola poetica. A uno sguardo più attento, però, non sfuggono alcuni dati di fatto relativi alla produzione poetica contemporanea : la mancanza sostanziale di un impiego delle strategie retoriche ; l’assoluta assenza di connessioni significative tra il piano retorico e la struttura dell’opera (il libro di poesia, in questo senso, è sempre meno un libro e sempre più una raccolta di poesie) ; l’imbarazzante assenza (tranne che in alcuni casi notevoli) di elaborazione stilistica, effettuata tenendo conto delle variabili della tradizione e delle strategie interne all’opera.

Alcuni autori fanno eccezione a questo stato dell’arte. I motivi che accomunano le loro opere (motivi che non nascono da una programmazione comune e che vengono rilevati con un distinguo puramente fenomenologico) inducono a elaborare una classificazione di comodo: quella di scrittori massimalisti.

L’elemento fondamentale che accomuna le opere di questi scrittori è la ricerca e l’innovazione di un rapporto con la tradizione. Questi scrittori spendono tempo e piacere nello studio della propria tradizione e nell’osservazione attenta degli sviluppi delle tradizioni straniere.

Incidentalmente, il loro rapporto con la tradizione italiana e con quelle straniere assume come centrale la vocazione nazionale della letteratura italiana. Con ciò si intende che, tra i nodi che automaticamente si creano tra l’opera letteraria e l’impegno morale, uno in particolare tocca le poetiche e le strategie di questi scrittori ed è composto di due fili: l’idea di una comunità italiana e la lingua letteraria impiegata da tale comunità. E’ in particolare nella narrativa massimalista che si trova riscontro concreto (cioè figurale) di questa preoccupazione, al tempo stesso estetica ed etica : nei romanzi massimalisti appaiono figure della storia recente dell’Italia, oppure invenzioni di cronistorie finte ma simili al vero, in cui l’indistinzione tra storia e fiction, anche quando elaborata su modelli che appaiono esotici o comunque lontani da ogni riferimento all’Italia, è all’Italia contemporanea che guarda. Viene formulato un implicito invito al lettore a considerare chi è e cosa desidera in relazione alla comunità a cui appartiene e nella cui lingua si esprime.
Sotto questo riguardo, la poesia compie un’opera più profonda e più sotterranea e, come sempre, più incisiva. La poesia cerca di recuperare un sapere (formale, lessicale, figurativo) che si iscrive nella tradizione a cui la poesia stessa sente di appartenere ; essa recupera e innova tale sapere riuscendo a tradurlo in termini la cui evocazione è carica dell’aspettativa di verità che, per tradizione, si è sempre concessa alla poesia. Che la tradizione sia nazionale costituisce la seconda premessa del sillogismo.

Di fronte al mondo che letteralizza, la risposta della letteratura massimalista appare univoca. Da un lato essa elabora (con differenze irriducibili, beninteso) una lingua che ricerca un grado zero dello stile, pur mantenendosi differente dalla lingua comune. E’ una lingua letteraria, evidentemente, ma non è una lingua che chiama, come fondamento per la comprensione del portato dell’opera letteraria, allo studio dell’impiego della lingua stessa. Questo atto è sì fondamentale, poiché ci si richiama a una tradizione che è essenzialmente linguistica, ma non è l’unico atto su cui gli autori massimalisti impegnano la capacità cognitiva della propria letteratura.

Raggiunto un grado zero della lingua (per esempio, in narrativa, una lingua che pare una lingua di servizio, tipico di una traduzione: ma è soltanto un esempio tra tanti possibili), ci si rende conto che una tra le strategie degli autori massimalisti è un accurato lavoro a livello di struttura dell’opera letteraria. I romanzieri massimalisti tentano di elaborare soprattutto intrecci che, a prescindere dall’effetto “interessante”, permettano loro di compiere, con la composizione dell’opera, un discorso più grande di quanto intendessero e di realizzare una coerenza più ampia di quella che immaginavano. Queste strutture, complesse e spesso giocate più sugli equilibri interni che sull’impatto all’esterno, sembrano conferire un’aura di verità all’opera letteraria massimalista. In poesia, tale strategia porta alla composizione di forme poematiche complesse, e l’impegno strutturale è talmente elevato che, insieme alla vocazione epica tradizionalmente associata alla forma-poema, viene mantenuta una declinazione lirica a cui la poesia italiana ha spesso guardato come la caratura genetica della propria tradizione.

Che genere di allegoria viene impegnata da questa letteratura ? E a che livello ? E’ possibile azzardare che l’allegoria agisca, soprattutto, determinando una forma decisamente composita e complessa (anche se, talvolta, del tutto lineare), agendo su scarti e connessioni interni che danno vita a una struttura la quale, già nell’intuizione del suo disegno, esprime significati. Al contrario della poetica simbolista (per quanto concerne la poesia) e minimalista in senso stretto (quanto alla narrativa), il momentaneo non viene legato al totale senza ricorrere a legami precisi, su cui lo scrittore lavora. Le parole di Creuzer esemplificano in parte quanto accade : “L’allegoria, ma non il simbolo, comprende il mito sotto di sé, (…) la cui essenza è espressa nel modo più perfetto dall’epos progrediente”. E’ anche per questo motivo, a causa di questa “progressione”, che gli scrittori a cui accenniamo lavorano – quasi tutti – a poemi sequenziali, a trilogie narrative o ad altre serie di opere esplicitamente in connessione tra loro. Altre parole, questa volta di Benjamin, sembrano descrivere il corso dell’opera di questi scrittori : “Mentre nel simbolo, con la trasfigurazione della caducità fuggevolmente si rivela il volto trasfigurato della natura nella luce della redenzione, nell’allegoria si propone agli occhi dell’osservatore la facies hippocratica della storia come un pietrificato paesaggio primevo”. Nel ragionamento che questa scrittura attua sopra la morte (una morte universale, che inghiotte il passato, erode il presente, anticipa il futuro), questa letteratura giunge a due conclusioni sommarie : “Se la natura è da sempre in balia della morte, essa è anche da sempre allegorica”.

L’utilizzo dell’allegoria non va confuso col riutilizzo dei materiali e con il lavoro di montaggio tipici della scrittura postmoderna. E’ fondamentale comprendere che accanto all’ “invenzione”, per gli scrittori massimalisti, esiste un lavoro di “scavo”, di “disseppellimento” e di variazione degli antichi significati. Questo lavoro è ciò che li assicura a una tradizione letteraria e iconologica. Essi badano alla lingua tanto quanto lavorano su una grammatica che non ha nulla a che vedere con quella linguistica : la grammatica delle immagini. Come ancora osserva Benjamin, nel momento in cui un’arte è eminentemente allegorica, accade uno spostamento : “Non dalla ‘grotta’ in senso letterale, bensì dal ‘nascosto’ – dallo ‘scavato’ – pare vada fatto derivare ciò che la caverna e la grotta esprimono”. Ciò stabilisce una differenza fondamentale tra ars inveniendi e fantasia, in un mondo che non è più disposto a riconoscere gerarchie tra facoltà spirituali. E ciò alimenta l’escavazione in un “segreto”, in un “mistero” che non ha nulla di metafisico se non il fatto di inerire a una totalità : quella della storia dei saperi, che la letteratura in questione mette in gioco.

Con le dovute differenze rispetto alla propria espressione storica (l’allegoria contemporanea non è l’allegoria del diciassettesimo secolo), l’allegoria mantiene intatto un potenziale che la modernità non ha sfruttato. Essa è espressione dell’autorità : “Segreta per la dignità della sua origine ed esplicita quanto all’àmbito della sua validità”. Essa mira alla rettifica non di una poetica o di una teoria dell’arte, ma a una rettifica dell’arte stessa. Viene interpretata come lo strumento più adatto a ricomporre, sotto un medesimo sguardo, il sogno impossibile di rappresentare una totalità diffranta, facendo leva su quanto ci costituisce : la tradizione nazionale. (E’ Benjamin ancora a osservare, incidentalmente, a proposito dell’allegoria e dell’emblematica che “da sempre l’Italia, la terra d’origine dell’emblematica, era stata il punto di riferimento fisso in queste cose”).

“Nelle aride rebus che ancora rimangono è depositata una conoscenza che resta accessibile a colui che, confuso, medita” : è, al tempo stesso, un’efficace descrizione del mondo attuale per come viene percepito dagli scrittori massimalisti e un perfetto profilo del lettore e dello scrittore di opere simili.

C’è un carattere specifico dell’allegoria massimalista. Essa nasce nel mondo delle mille fedi e di nessuna fede. L’impossibilità di un richiamo univoco a un disegno del sapere e del mondo chiarisce un aspetto che spesso non è stato còlto a proposito dell’arte allegorica : “La sintesi che nella scrittura allegorica deriva dalla lotta tra l’intenzione teologica e quella artistica, non tanto nel senso di una pace quanto di una tregua dèi tra le due prospezioni contrastanti”. E’ un continuum che, per inciso, continua a essere valido quando si voglia sostituire alla teologia la cronaca, come per esempio fa molta tradizione postmoderna : la forma saggio, per esempio, si presta massimamente alla costruzione di progressioni allegoriche.

“L’allegoria si pone al di là della bellezza. Le allegorie sono, nel regno del pensiero, quello che le rovine sono nel regno delle cose”. E’ significativo infatti che, in questo tipo di letteratura ma non solo, lo stesso futuro venga inventato con le caratteristiche della rovina. La bellezza non è intima a colui che non sa. E’ la bellezza che dura a diventare oggetto del sapere. Questo sapere e questa bellezza si interrano. Gli occhi di chi riesce a riconoscere questa bellezza e questo sapere sono i medesimi di chi li ha saputi riconoscere, e anche di chi li saprà riconoscere. In tal modo, la scrittura allegorica instaura una parentela tra i lettori, comunicando loro tramite il solo mezzo grazie a cui si costituisce come arte, cioè la tradizione.

Oggi, la natura viene sentita da questi scrittori come un’eterna caducità (non soltanto nell’istante della perdita, e non soltanto con gli occhi rivolti al passato) entro la quale soltanto lo sguardo saturnino di questa generazione sa riconoscere la storia: degli uomini e delle loro opere. L’eterna caducità è il contrario dell’Apocalisse. L’eterna caducità è il contrario del sentimento della decadenza. L’eterna caducità è pensata come parabola: un sasso lanciato viene scagliato con potenza, raggiunge l’acme dell’arco, cade giungendo o meno a bersaglio – tutto questo arco è l’eterna caducità.
[CONTINUA]