Di Ludovica Maura Santarelli

“Accento toscano, nome e cuore palestinese” così si descrive Karem Rohana, nato ad Haifa e cittadino di Firenze. Oltre a lavorare come logopedista in un ospedale, è attivista con un forte seguito sui social e racconta la causa palestinese attraverso il suo account Instagram karem_from_haifa.

La sua attività di divulgazione è stata più volte ostacolata e censurata.

Ho avuto il piacere di intervistarlo lo scorso gennaio in merito al mio lavoro di tesi e di discutere assieme di Palestina, degli errori dell’Occidente e del ruolo dei mass media nel conflitto.

 

– Il tuo attivismo è una lotta che hai acquisito e sviluppato con il tempo o ti appartiene da sempre per le tue radici palestinesi?

C’è il legame con quella terra, la voglia di esserci legato in modo ancestrale. La parola attivismo viene da attivarsi: negli anni in cui la questione palestinese non era contemplata, per noi palestinesi della diaspora era veramente difficile cercare delle strade da percorrere per sentirci utili. L’attivismo vero e proprio, quello che si intende oggi, l’ho fatto principalmente attraverso i social e a livello locale, ma si è attivato un paio di anni fa quando ho visto che non c’era nessuno che ci rappresentava. Cercavo di creare uno spazio mio, e gli spazi che si possono occupare senza che ci siano troppe censure sono i social network, quindi perché non usarli. Questa attivazione è anche un po’ egoistica: lo faccio per sentirmi parte di questa cosa e per sentirmi utile, e di conseguenza per stare meno male e ricevere meno l’impatto emotivo di ciò che sta succedendo a Gaza, nonostante l’abbia ricevuto lo stesso.

 

– Vivere con un passaporto israeliano: è una contraddizione morale?

No, assolutamente. Non è percepita così all’interno della comunità palestinese; se si ha la possibilità di avere il passaporto israeliano, lo si deve prendere. Intanto ti accorgi di una cosa: la prima cosa che ti dicono gli israeliani, appena inizi ad avere idee dissonanti, è “perché non lasci il passaporto?”. Se un sionista ti spinge in quella direzione vuol dire che a lui fa comodo. Poi è un documento, se nasci sotto occupazione i documenti te li fanno i colonizzatori. A livello pratico è uno strumento: sei sempre sotto occupazione ma hai più libertà di movimento nella tua terra, che non sarà mai quanto quella di un israeliano ebreo, ma sei un palestinese che può vivere nella Palestina storica usando la cittadinanza israeliana. C’è una distruzione dell’identità che punta tanto su questo elemento: ad un certo punto ti senti un cittadino dello stato israeliano ed accetti che hai meno diritti per quel tipo di condizione. Soprattutto se sei in diaspora come me, che vivo all’estero ed ho la cittadinanza italiana, è uno strumento che serve: se ci rinunciassi non potrei più tornare in Palestina. A loro non fa guadagnare niente; a livello morale ed etico non sussiste il problema perché non mi riconosco minimamente in quel passaporto, è un pezzo di carta che mi serve per entrare e per avere un minimo di tutele, poiché probabilmente altrimenti non sarei potuto andare tutte le volte che ci sono stato: se fai un po’ di attivismo, ti rimandano indietro all’aeroporto. È una contraddizione loro questa, che lo stato ebraico al suo interno abbia persone che considerano nemici. Quando ci pensi le prime volte ti viene l’istinto di dire, “lo brucio, mi fa schifo” o “non mi ci riconosco”, ma poi capisci che non è che ti ci devi riconoscere, è uno strumento che puoi utilizzare sia per vantaggi personali ma anche per la causa. È uno strumento contro l’occupante. Forse questa percezione è più sentita nelle generazioni dei più vecchi. Penso ad esempio a mia nonna, al mio babbo che non l’ha mai rinnovato e non torna in Palestina da 20 anni, o ad un suo amico che quando ha preso la cittadinanza italiana l’ha effettivamente bruciato. La loro generazione è quella che ha vissuto più il cambiamento; è vero che prima c’era l’occupazione, ma non era una cosa così distopica e draconiana, in certi contesti potevi far finta di ignorarla. Loro che non riescono più a farlo si tolgono anche la possibilità di tornarci ma perché ci stanno male, non perché si sentono traditori. A un certo punto smettono di vederne l’utilità. I giovani invece vogliono il passaporto perché vogliono avere lo strumento di potere di poter entrare ed uscire con più tutele, nonostante i controlli ci siano sempre, ma sono meno violenti di quelli che subiscono i palestinesi con la carta verde palestinese.

 

– Da italo-palestinese, come reputi l’atteggiamento del nostro governo, apertamente filosionista, nei confronti della questione palestinese e della condotta israeliana?

È filosionista come tutti i governi, l’atteggiamento non cambierebbe con una maggioranza diversa. Non mi concentrerei sul governo, ma più che altro sulla classe politica di questa generazione, che è completamente asservita all’imperialismo americano e di conseguenza ad Israele. La destra al governo poi lo fa anche per ripulirsi la coscienza, sta dicendo “ora i nazisti non siamo più noi, ora difendiamo gli ebrei” ma in realtà lo fa solo in chiave antislamica. Per questo chiamano Israele l’avamposto dell’Occidente in Oriente. Hanno tradito delle garanzie e delle responsabilità che avevano verso i cittadini nostri che esulano anche dall’idea di sionismo, perché hanno semplicemente violato le leggi del diritto internazionale. L’Italia, nonostante l’invito della Corte di Giustizia internazionale agli stati Onu a sanzionare Israele o ad applicare l’embargo alle armi in Usa per il “plausibile” genocidio a Gaza, non solo non introduce sanzioni, ma non smette nemmeno di inviare armi, non smette di dare appoggio politico, di incontrare i rappresentanti israeliani in territorio italiano, e afferma che non applicherà i mandati della Corte Penale internazionale; tutto questo senza minime conseguenze, neanche nell’opinione pubblica. Non ci si rende contro che, nella lontana eventualità che Israele venisse condannato per genocidio, l’Italia sarebbe complice, a livello giuridico. Tajani continua ad inviare armi, Crosetto continua a fare accordi, le nostre università non partecipano ai boicottaggi, nemmeno di accordi che portano allo sviluppo di tecnologia bellica: tutto questo non rispetta la nostra Costituzione, perché stiamo partecipando ad un progetto coloniale aggressivo e genocida che non ha niente di difensivo, anche a livello di diritto internazionale. Magari tra dieci anni pagheremo come stato, come abbiamo già fatto con il fascismo; lo stiamo rifacendo alleandoci con chi commette un genocidio. Stiamo diventando noi una colonia israeliana. La Meloni, che tanto parlava di sovranità italiana, sta asservendo un regime estero, facendo un danno agli italiani, solo per rientrare nelle grazie di Trump e Netanyahu.

 

– Per il tuo lavoro di attivismo hai subito una serie di ritorsioni, sfociate anche in un’aggressione fisica, avvenuta al tuo ritorno a Roma da Gerusalemme. Credi che la repressione violenta delle idee antisioniste e pro palestinesi possa essere considerata sporadica o sistematica? Perché, a tuo avviso, è comune vedere questo genere di rappresaglie da parte dei sostenitori di Israele?

Perché sono abituati alla violenza e all’impunità. Quando, come nel mio caso, arrivano ad usare anche la violenza fisica, rappresentano a pieno ciò che vogliono difendere. Vogliono mantenere l’impunità e la possibilità di punire chi non la pensa come loro senza argomentare o passare dagli strumenti democratici, il dialogo o il dissenso. Siccome difendono un’ideologia violenta, genocidaria, di occupazione e di pulizia etnica, non la possono difendere con argomenti che siano accettabili in qualsiasi contesto fuori dal loro circolo, quindi cercano di limitare la discussione in questi modi. A livello fisico, in Italia, verso gli attivisti, hanno smesso perché hanno capito che era controproducente, perché attirava troppo l’attenzione. Hanno però iniziato ad utilizzare altri tipi di armi, tra cui una grossa rete di lobbying, non grande come quella americana che controlla il Congresso, ma abbastanza ferrata da poter esercitare repressione, anche ad esempio sullo speech online: è facile ricevere una denuncia per un commento non gradito e ritrovarsi la Digos in casa che sequestra telefono e computer. Sono repressioni eterodirette da qualcuno. È una cosa che stiamo ereditando da Israele: controllo e repressione basati anche sui social, il riconoscimento, la punizione del dissenso.

 

– Non solo censura mediatica, ma anche social: il tuo profilo, come quello di molti attivisti palestinesi, è stato più volte oscurato da Meta. Perché i luoghi virtuali, che dovrebbero essere liberi ed esenti dalle dinamiche politiche dei vari governi, limitano anch’essi, in maniera arbitraria, la libertà di parola degli utenti?

I social sono un prodotto del sistema capitalistico e non si discostano mai dai centri di potere. In questo momento storico sono molto vicini ad Israele e i social seguono queste direttive. Bilanciano la loro censura con il fatto che devono mantenere un minimo di utenza: all’inizio la censura online era più spinta, ma in seguito ad una serie di cause legali e all’allontanamento di molte persone dai loro profili, hanno dovuto mediare. La censura è diventata soft. Alcune cose sono comunque vietate: ad esempio non si può far vedere Hamas, nemmeno per parlarne male, perché non si deve umanizzare, perché se uno ascolta il discorso di Sinwar può farsi un’opinione sua. Infatti quando ti levano le storie di dicono che hai mostrato le immagini di un’organizzazione che ritengono pericolosa. È come se avessero una verità storica in mano. Ma viviamo in un momento storico in cui la verità non ce l’ha nessuno e non sappiamo come verrà ricordata quest’epoca; i social si propongono come le nuove piazze pubbliche, ma il fatto che ti impongano una nuova verità assoluta, derivante dalle indicazioni del governo americano, da dove vengono tutte le aziende tech, spegne il dibattito. È pericoloso, ma ce ne siamo resi conto tardi, perché abbiamo sempre creduto fossero le piattaforme del libero pensiero. Li usiamo perché sono strumenti immediati ma non sono la soluzione per il futuro.

 

– L’occidente, forse per un debito morale nei confronti della comunità ebraica, tende, in linea generale, ad assumere posizioni filosioniste e a sostenere il regime israeliano, a discapito del popolo palestinese. Quanto credi sia determinante in ciò la mancanza di conoscenze del mondo arabo, o l’errata credenza secondo cui intere popolazioni si identifichino nelle cellule islamiste che operano sul territorio?

L’appoggio a Israele è dato quasi, più che in chiave di protezione del popolo ebraico, per difesa dall’Islam. Spesso e volentieri la narrativa e la propaganda sia occidentale che israeliana si forma intorno al credere che “se non li ferma Israele, arrivano da noi”, ma ad Hamas questo non interessa. Il pulirsi la coscienza dai crimini nazifascisti dell’Europa e spostarli su Israele fa anche parte della narrativa. Questo succede anche a chi è proPal, che dice “Israele è cattiva”. Ma Israele siamo noi, è l’Occidente, il colonialismo occidentale che sterminava i popoli e che si è poi riversato sugli stessi europei, ed ora subisce un colonialismo di ritorno. La studiosa ebrea americana Naomi Klein ne parla in modo più approfondito, ed in merito è molto interessante anche il lavoro di molte comunità giovani di ebrei che studiano come la strumentalizzazione della memoria della Shoah sia servita a concedere a Israele un’eccezione del consenso internazionale e decoloniale, riformulando tramite il sionismo il colonialismo come ripartizione per il genocidio nazista.  Di fronte ad un trauma che non è stato elaborato, si utilizza la ritraumatizzazione della comunità europea e degli ebrei in diaspora per spingere l’appoggio a Israele ed al suo progetto coloniale. Israele rappresenta anche il modello per le destre mondiali, perché è uno stato con un’unica etnia, un’unica religione, con delle leggi di difesa dei confini violentissime. Quando Salvini e Meloni dicono “Israele è un modello di democrazia” è perché per loro è davvero un modello, che condivide l’idea di ristabilire il nazionalismo che arriva fino al contemplare una razza pura per ogni stato.

 

– I media e gli opinionisti occidentali si trovano divisi nel considerare ciò che sta subendo ed ha subito il popolo palestinese come un genocidio. Dove, secondo te, stanno sbagliando, e cosa non tengono in conto?

Questa divisione era più marcata all’inizio, ora è abbastanza condivisa; il dibattito continua più che altro in Italia, ma un punto è stato messo dai report delle organizzazioni umanitarie che confermano le accuse di genocidio. Ora, chi non vuole usare la parola genocidio, può solo giustificarsi dicendo che non si trova a suo agio, ma non riesce più a contestarla. Per noi palestinesi era chiaro sin da subito, perché sappiamo qual è la mentalità israeliana e che per Israele si è da sempre trattato di una guerra di annientamento, che doveva mandare un messaggio, ovvero far capire cosa succede a toccare lo stato ebraico. È un genocidio di vendetta. Loro non vogliono ammetterlo, ma di questa violenza ne hanno bisogno: il sionismo ed il colonialismo sono l’oppressione dell’altro. Ma capisco il contesto nel quale c’è stata un po’ di reticenza dall’ammettere il genocidio. Quelli che lo negavano con forza l’hanno fatto o in malafede, o in completa ignoranza, o perché appoggiavano le azioni genocidarie israeliane, come nel caso dei media mainstream. Quando si parlava inizialmente di genocidio diventava tutto un titolo, come nel caso di Ghali a Sanremo che ha fatto impazzire tutti, ora invece fa notizia chi lo nega, in un contesto un po’ più progressista. Ma i giornali mainstream non si sono mai adeguati, sono sempre stati la scorta mediatica di Israele.

 

– Il sostegno al popolo palestinese è stato più volte espresso nel corso degli ultimi 15 mesi attraverso proteste, presidi e manifestazioni. La repressione da parte delle forze dell’ordine è stata spesso spietata; il governo, utilizzando come pretesto i presunti atti violenti compiuti dai manifestanti, ha approvato il Ddl sicurezza. È un tentativo di silenziare le voci pro-Palestina? Quali potrebbero essere le conseguenze?

È un tentativo di ristabilire un’ideologia fascista, di repressione totale e del pensiero unico. È chiaro che non vogliano il dissenso dell’opinione pubblica su questioni palestinesi, ambientali e su altri temi, ma davvero c’era bisogno di un Ddl sicurezza e di una nuova legge che permette, oltre a vietare le manifestazioni, anche di entrare ed avere informazioni di cosa si dice dentro le università, su studenti, professori, religione e pensiero politico, in un periodo storico dove la maggior parte delle manifestazioni sono non violente? Mi verrebbe quasi da dire “peccato”: ci stanno reprimendo anche se stiamo manifestando con tutti i crismi del caso, in piazza non succede nulla, non ci sono stati tentativi di violenza strutturata e nessuno ha infastidito politici; si stanno comportando come se ci fossero le Brigate Rosse al quadrato. E non serve nemmeno a niente: le manifestazioni, ad oggi, sono utili per fare gruppo, è un ritrovo di persone che decidono di lavorare per obiettivi, ma ci si ferma lì. Siamo una generazione di depoliticizzati, me compreso, e ci si muove tutti a livello individuale perché non si è più in grado di farlo collettivamente. E riescono a reprimere anche questo? Poi usano le scuse dei pro-Palestina, i no-tav e altri attivisti per dire che sono violenti quando in realtà è davvero difficile trovarle queste situazioni violente; anche se ci fossero, sarebbero l’espressione di un disagio che viene dal basso. Mi sembra molto preventivo questo silenziamento del dissenso, forse hanno in mente di introdurlo ora per utilizzarlo quando le politiche del governo diventeranno più aggressive ed il dissenso si inasprirà di conseguenza.

 

– I militanti di Hamas vengono spesso considerati come terroristi mostruosi e sanguinari. In molti casi si ritiene che, con l’attacco del 7 ottobre, abbiano commesso un grave errore, a discapito degli stessi palestinesi. È veramente così? Come sono visti dai palestinesi?  È giusto pensare che, nelle condizioni in cui il popolo palestinese è vissuto negli scorsi 76 anni, la resistenza armata possa essere una risposta plausibile e giustificata?

Non posso parlare a nome di tutti i palestinesi, ma posso condividere la mia idea. Hamas, come movimento politico, non mi fa personalmente impazzire, ma è stato scelto dai palestinesi, a cui erano state permesse libere elezioni, salvo poi dire che sono stati eletti dei terroristi. L’Occidente lo fa sempre, quando non gli piace chi viene votato allora questo diventa un terrorista. Su queste etichette poi ci costruiscono una narrazione. Intanto l’etichetta di terrorismo non ha una definizione ben specifica, quindi ognuno la usa a modo suo (ad esempio per me gli stati più terroristi al mondo sono gli Stati Uniti ed Israele), le azioni terroristiche sono un’altra cosa. Sono anche quelle che usava Nelson Mandela, che per liberarsi dall’apartheid sganciava le bombe; eppure è ricordato come uomo di pace perché la storia, andando avanti, ha poi mostrato come funzionano questi processi. Anche la resistenza palestinese è una resistenza armata in funzione prettamente decoloniale. Che muoiano dei civili durante gli atti di resistenza armata è sempre successo: a me dispiace, vorrei non morisse nessuno, o al massimo solo i militari, ma chi ha messo dei kibbutz sotto un campo di concentramento? Un rave sotto un campo di concentramento? Si responsabilizza sempre la vittima, che può ribellarsi ma con le nostre leggi ed i nostri metodi, che per primi non rispettiamo. Abbiamo attuato l’apartheid, l’occupazione, il colonialismo; Gaza era di fatto un ghetto nazista, come è stato detto da Maša Gessen ed altri studiosi, anche ebraici. Gabor Maté, uno psichiatra del trauma ebreo, che da sionista, analizzando la situazione e stando in Palestina, ha cambiato idea, è arrivato ad affermare che “oggi Gaza è Auschwitz su Tik Tok”. In una situazione di violenza del genere, e soprattutto come ci insegna la storia del colonialismo, che è una macchina di violenza senz’anima che crea sempre violenza, non si tratta di semplice giudizio morale. Se vuoi dire che la risposta armata non ti piace puoi farlo, ma non dire che è un atto terroristico o che stavano andando a caccia di ebrei, perché a loro non fregava niente: se fossimo stati lì, avrebbero preso anche noi. Ma questa cosa è difficile da far passare perché ci hanno lavorato tanto di propaganda, perché c’è un doppio standard razzista occidentale sulla questione.  Per quanto mi riguarda, i miliziani della resistenza di Hamas e di tutte le altre fazioni palestinesi verranno ricordati come partigiani: non per un fattore poetico o eroico, ma per quello che hanno fatto e per quello che hanno combattuto. Poi ognuno li valuta come vuole; ma se si apprezzano i partigiani italiani, non si possono non apprezzare i miliziani, o chi ha lottato contro l’apartheid in Sudafrica, per quanto l’apartheid sudafricano, seppur violentissimo, è stato meno violento dell’occupazione e del colonialismo che applica Israele. Ciò che fa Israele in modo così violento, sistematico e continuativo, si è visto poche volte nella storia. Soprattutto non rispondeva mai alla resistenza non violenta; per me quest’ultima è teatro, se nel momento in cui tu mostri la tua sofferenza ed i crimini dell’altra parte e la comunità internazionale non interviene, cosa puoi fare? Questa è la domanda che dovrebbero farsi tutti: tu, al posto loro, cosa avresti fatto? È facile dire “non usare la violenza”, ma durante le manifestazioni pacifiche del 2018 per la Grande marcia del ritorno, i palestinesi sono stati ammazzati. Anche la questione dell’islamismo di Hamas ha poco conto: non c’è niente di religioso nelle rivendicazioni degli obiettivi politici e militari, se non il poter andare a pregare a Al-Aqsa. Ma Hamas vuole liberare la Palestina perché ammazzano i loro fratelli e i loro figli, e lotta contro l’occupazione. La guerra di religione, semmai, è quella israeliana, per cui “questa è la nostra terra e ci è stata data da Dio”.  In più parlare di violenza antisemita vuol dire non prendere in considerazione i fatti e legarsi alla propaganda superficiale per descrivere i palestinesi come persone meno civilizzate e meno umane di noi.

 

– Di recente sei tornato in Palestina. La situazione che hai trovato è quella che ti aspettavi? Quanto di ciò che accade nella quotidianità dei palestinesi non ci viene raccontato o viene addirittura nascosto?

La cosa più violenta che fa l’occupazione è rubarti il tempo. Lo fanno con i checkpoint; una volta, per andare da Ramallah a Betlemme (circa 27 km) ci ho messo 4 ore, e non c’era ancora la situazione disastrosa che c’è oggi. Ti fanno sentire l’oppressione. Anche in Cisgiordania, dove non c’è la resistenza armata, se non dentro le città per difendersi dalle impulsioni israeliane, non si è mai intervenuti internazionalmente; ci si aspetta che i palestinesi resistano da soli e perdano la testa, per poi stupirsi di ciò che accade. Secondo me bisogna capire che le azioni terroristiche non sono una cosa da non prendere mai in considerazione: nel momento in cui ti tolgono tutto e tu non hai gli strumenti per reagire secondo le regole del diritto internazionale, che tra l’altro nemmeno questa “etnocolonia” che ti sta opprimendo rispetta minimamente, ad un certo punto l’attentato terroristico inizia a far parte delle possibilità che prendi in considerazione, perché è uno strumento. In Cisgiordania la vita è un inferno; io quando sono andato sono stato bene, ma per merito dei palestinesi. Stai bene eppure soffri, infatti quando sono tornato sono stato molto male. È una contraddizione continua: stai in questa terra che ami, circondato da persone che sono felici di viverla nonostante le difficoltà, ma durante la giornata incontri cose come l’occupazione, notizie di violenza e di morte, il coprifuoco, i checkpoint chiusi… È così da sempre. È impossibile da capire fino in fondo se non ci si è stati.

 

– Può davvero avere senso la soluzione dei due stati?

No. Il bello è che Israele non l’ha mai presa in considerazione al suo interno, mai. L’ideologia sionista non opprime solo i palestinesi, ma anche gli israeliani. I palestinesi non vengono uccisi dagli israeliani perché nascono cattivi, per la loro religione o per la loro provenienza. Gli israeliani diventano macchine di morte e di assassinio di massa a causa dell’ideologia sionista. Anch’io, se fossi nato a Tel Aviv da una famiglia israeliana integrata nella narrazione sionista, oggi starei ammazzando bambini a Gaza, e non ci vedrei nessun problema. Non è per deresponsabilizzare chi ha commesso i crimini, ma vogliamo quantomeno salvare le nuove generazioni? Altrimenti Israele continuerà ad essere una fabbrica di assassini di massa. Finché si mantengono due popoli e due stati, e continua ad esistere uno stato fondato su un’ideologia coloniale, di occupazione e di apartheid, violenta ed espansionistica, non ci sarà mai pace con quello stato. Continuerà ad attaccare e a commettere crimini contro l’umanità. Andrebbe istituito uno stato unico e democratico per tutti.

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