di Giorgio Bona

Quando il mio amico Marino Magliani mi invitò a scrivere qualcosa che avesse come tema centrale l’Appennino, mi apparve subito davanti agli occhi l’immagine della mia terra, i luoghi dove vivo, in questa zona del Piemonte che scivola sorniona verso la Liguria.

La valle Bormida. Terra di confine, pendolarismo, cucina dove c’è una commistione di odori e di sapori che fanno felici, luoghi bellissimi e di un turismo garbato con paesaggi che lasciano senza fiato, paesi che guardano la Langa Astigiana e sembrano fondersi in una bellezza che sa di antico.

E se il paesaggio naturale ha dovuto i suoi cambiamenti alla mano dell’uomo, a politiche poco attente e furtive che hanno contribuito allo scempio becero e terribile, senza riguardo per l’ambiente e, soprattutto per chi l’ambiente lo ha abitato e curato, ecco io non posso tirarmi indietro mentre mi trovo a pensare alla storia di questa valle che ha visto negli anni uno degli scempi più grandi della bella Italia, qui in Valle Bormida, dove l’Appennino parte dalle Alpi marittime e arriva fino al Piemonte portando il suo fascino.

Il 23 luglio del 1988, alle otto del mattino, si alzò una grande nube tossica dallo stabilimento ACNA di Cengio, in provincia di Savona, raggiungendo numerosi comuni tra la Liguria e il Piemonte, con la fuoriuscita di pericolosi gas tossici.

Era soltanto l’ultimo di una serie di incidenti causati da questa azienda nella valle, che si estende tra la provincia di Savona fino al basso Piemonte, lungo il corso del fiume Bormida.

Gli abitanti dei comuni limitrofi cominciarono ad avvertire bruciore agli occhi, nausea, vomito e difficoltà respiratorie. I gas tossici di oleum, acido solforico e anidride solforosa furono trasportati dal vento. Era l’ennesimo problema

L’ACNA, Azienda Coloranti Nazionali e Affini, aveva una lunga tradizione storica, iniziata nel 1882 con l’insediamento di una fabbrica per la produzione di dinamite, in questo piccolo paese ligure in provincia di Savona, Cengio, a meno di un chilometro di confine dal Piemonte.

L’area era ottimale per la vicinanza con il fiume e per essere poco distante dal porto di Savona. Questa industria si sviluppò fortemente agli inizi del ‘900 in seguito alla crescente domanda di esplosivi nelle guerre. I benefici per l’occupazione ebbero un terribile impatto dal punto di vista ambientale per le lavorazioni dell’acido solforico e del tritolo. L’acqua del Fiume Bormida era inquinata per tutto il suo percorso fino alla confluenza con il fiume Tanaro in Alessandria.

Dal libro “Veleni di stato” di Gianluca De Feo emerge una verità agghiacciante: la fabbrica era una fabbrica di armi chimiche proibite dalle convenzioni internazionali, in quanto disumane. Sembra che il motivo del salvataggio dello stabilimento fosse opera di Mussolini, dell’alleanza con IG Farben, finanziatrice di Hitler, nonché produttrice del gas per lo sterminio nei campi di concentramento.

Negli anni 20 l’impianto fu convertito nella produzione di sostanze coloranti e dava lavoro a centinaia di persone, per cui rappresentava una fonte per l’occupazione della zona.

In base ad alcune testimonianze sembra addirittura che alcuni dipendenti, alla fine del turno, prima dell’uscita, fossero obbligati a fare una doccia con acqua fredda senza saperne il motivo. Era un’imposizione dell’azienda. Se per caso venivano sorpresi a utilizzare acqua calda avrebbero subito tre giorni di sospensione dello stipendio. Nessuno aveva spiegato loro che l’acqua calda apre i pori assorbendo i veleni dopo tante ore di contatto durante le lavorazioni. Veleni che avevano sulla pelle e che si sciacquavano soltanto con acqua fredda.

Un’attenzione all’ambiente e al mondo del lavoro era già sentito in un certa letteratura del secolo scorso senza quella risonanza che avrebbe meritato una maggior visibilità. Uno scrittore come Augusto Monti, nato in terra di Langa e precisamente a Monastero Bormida, strenuo oppositore del fascismo fin dai suoi albori, incarcerato dal regime, si trovò a parlare della fabbrica nella sua opera di maggior rilievo I Sansossì.

E giù dal Cengio il dinamificio ti fotte in Bormida di quattro sette in tutta questa peste, e le acque vengono giù livide come ranno, una schiuma verde, pesci morti a pancia in su, le bestie la rifiutano: un malefizio ti dico… e per far cosa? Esplosivo. Dinamite, balistite, per ammazzar della gente.

E poi ancora Beppe Fenoglio nei suoi racconti autobiografici Un giorno di fuoco, a metà degli anni ‘60.

Hai mai visto la Bormida? Ha l’acqua color sangue raggrumato, perché porta via i rifiuti della fabbrica di Cengio e sulle sue rive non cresce più un filo d’erba. Un’acqua più porca e avvelenata che ti mette freddo nel midollo, specie a vederla di notte, sotto la luna.

Autori che ne hanno parlato in tempi diversi.

Sono state almeno quattro generazioni che hanno convissuto con quella fabbrica.

Morti sospette di cancro alla vescica.

Dalla cronaca di quel periodo si rileva che una signora, titolare di un mulino cui l’acqua aveva corroso le pale, conservò nel suo frigo bottiglie con quella sostanza color coca cola da mostrare alle autorità competenti.

Nel 1969 venne chiuso l’acquedotto di Strevi, un paese a due passi da dove io vivo e che si trova a circa 90 km da Cengio. Le acque della Bormida si tingevano di un colore diverso ogni giorno. L’anno successivo il sindaco di Acqui Terme sporse denuncia contro ignoti per avvelenamento di acque destinate al consumo umano.

Questi sono tra i tanti piccoli fatti che hanno provocato disastri per oltre un secolo, quando la fabbrica ha chiuso definitivamente ed è cominciata una lunga e lenta bonifica in tutta la valle.

Certo che nella gente l’amore per la propria terra era stato sostituito dalla rabbia perché la polvere da sparo, il veleno erano rimasti sotto pelle e si consumavano in quella rabbia che non lasciava spazio alla ragione..

La letteratura di Monti e di Fenoglio, più che raccontare la bellezza del territorio, esprimeva il sentimento di quella rabbia, perché questo rappresenta uno dei tanti souvenirs d’Italie, dove basta nent dì che quand che al cü l’è früst onca i pater noster i venu giüst.