di Paolo Lago

Fabio Strinati, Dal proprio nido alla vita, Associazione culturale Il Foglio, Piombino, 2016, pp. 60, € 8,00

Dal proprio nido alla vita, come scrive l’autore Fabio Strinati, è un «poemetto ispirato interamente e totalmente a Miracolo a Piombino di Gordiano Lupi». L’opera di Lupi – che nel titolo rimanda al celebre film di Zavattini e De Sica – è un romanzo di formazione che affronta il tema della crescita di un ragazzo e della scoperta del mondo da parte di un gabbiano, pervaso da un anelito alla libertà che fa rifiutare ogni vuota e cinica convenzione sociale.

Anche il poemetto di Strinati appare attraversato da una costante ansia di libertà, rappresentata in questo caso da una rondine: l’iterazione della frase «ho sempre desiderato essere una rondine» esprime l’aspirazione all’uscita dalla prigione della quotidianità irreggimentata in ripetitivi meccanismi. Il mondo dal quale l’io narrante intende fuggire, comunque, non è caratterizzato da un paesaggio urbano che schiaccia nella sua macina lavorativa le individualità, ma da una campagna rappresentata nella sua solitudine e nella ripetizione dei suoi rituali, legati alla lavorazione dei campi. È infatti il paesaggio della campagna, come sarà nella successiva raccolta poetica di Strinati, Periodo di transizione (2017), lo sfondo ideale sul quale si srotola la parola poetica. Quest’ultima, declinata alla prima persona e caratterizzata da un andamento narrativo che può ricordare il Pasolini dei poemetti raccolti nelle Ceneri di Gramsci (1957), si espande in modo sapientemente calibrato nel cammino poetico cadenzato da sempre nuove e suggestive immagini. La natura, il paesaggio della campagna, soprattutto in inverno, sono i compagni di viaggio di questo movimento narrativo e poetico, della voce del poeta che, come un viaggiatore solitario e incantato, attraversa la dimensione dello spazio e del tempo. Anche il poemetto di Strinati, come il romanzo di Lupi al quale si ispira, appare come un’opera di formazione, nel senso che l’io narrante ricorda un periodo passato nel quale «mi sentivo più un oggetto che un essere umano. / Non avevo forza, non avevo coraggio, / ero un essere stravagante e maleodorante! /Non avevo nulla, non sentivo nulla. / I sapori, gli odori, i suoni: niente di niente. / Una piattezza mortale! / Ero un misto tra il buffo e il buffone. / Una scarpa vecchia e di qualità infima».

Il ricordo del poeta abbraccia con lo sguardo un momento della vita in cui domina l’incertezza, un’età crudele venata dall’attesa per qualcuno o qualcosa, segnata da inverni crudeli e solitarie estati. A fare da contraltare alla parola poetica in viaggio è un paesaggio di campagna attraversato ora dai gelidi venti invernali, ora addolcito dal rigoglio primaverile. Il racconto, svolto in prima persona, è perciò arricchito efficacemente dallo sfondo paesaggistico, il quale pulsa e vive insieme allo stesso io narrante fino a divenire esso stesso suono e canto poetico. Su questo stesso paesaggio si libra il desiderio di fuggire, di volare lontano, di allontanarsi in un viaggio come quello compiuto dal canto poetico. L’immagine, quasi utopistica, di viaggio e di libertà è ancora una volta la rondine: «Vorrei essere una rondine. / Una di quelle rondini che sanno affrontare la vita, / una di quelle rondini che annusano il verde del prato, / che si posano sulla catasta ben riposta agli angoli / dei casolari per i campi arati, / che volteggiano come le api, che sono carine / quando si mescolano ai colori delle foglie, / e quando anche le montagne partoriscono i loro fiumi /avviliti che nascono asciutti nei mesi della secca!». La rondine diviene perciò quasi il simbolo del saper affrontare la vita, e verso la vita, verso una dimensione vitale probabilmente più autentica, è diretto anche il viaggio quasi iniziatico della parola poetica.

Nel suo viaggio, la poesia di Dal proprio nido alla vita, attraversa anche un paesaggio onirico e popolato di fantasmi, come il monte Corsegno, che nella parola poetica che si tramuta in magia, diviene «una montagna scura, / tenebrosa, fredda ed ostile, luoghi di fantasmi / e di leggende che cantano le loro messe / tra gli alberi sudati dalla pioggia e i funghi velenosi / cresciuti sulle rocce scorticate dai venti con le unghie. / Una montagna capace di catturare i tuoi sogni / per giocarci a palla, per vedere la tua anima / e carpirgli i suoi pensieri disadattati per questa vita, / o per questo mondo crudele, che volta le sue spalle / a quei pupazzi che sono destinati a morire giovani». Il canto, quindi, attraversando luoghi onirici e fantastici, si tramuta esso stesso quasi in formula magica, in iridescente parola generata da mondi fantastici come quello delle Mille e una notte, così che si può pensare di «cavalcare la montagna stessa come un cavallo volante, oppure, / come uno di quei tappeti da “Mille e una notte”».

Il viaggio iniziatico della poesia libera di Strinati avviene anche attraverso il tempo, dall’adolescenza alla giovinezza e all’età adulta fino a intravedere, da lontano anche la vecchiaia. Ed è forse questo il punto di arrivo dell’incedere quasi picaresco della parola poetica del poemetto: la coscienza di stare compiendo un viaggio, come un treno che corre nel vento, e ogni fermata di questo viaggio possiede in sé la ricchezza, in positivo o in negativo, dell’intera vita. Così infatti si conclude il poemetto, quasi preludendo ad una nuova apertura, ad un nuovo inizio, ad un nuovo viaggio, sotto la guida di una nuova «rondine madre», ancora, col suo volo, simbolo di libertà:

Il vento è un suono così sottile, così
invisibile, che sa essere custode
e padre al tempo stesso:
il vento è quel treno di ferro
che ti accoglie nel suo viaggio,
facendo scendere ad uno ad uno,
i fantasmi che ti porti dietro!
Nel vento possiamo volare,
leggiadri come piume,
sereni come il cielo
oltre quella linea longitudinale…
oltre un mare lontano,
saggia è la vecchiaia,
matura la tua rondine madre!