di Fiorenzo Angoscini

libretto 3 [Oggi si sente spesso ripetere che l’attuale Unione Europea avrebbe tradito, con le sue misure economiche draconiane, lo spirito fondatore della stessa. Eppure, esattamente sessant’anni fa, la tragedia mineraria di Marcinelle aveva già rivelato il patto di sangue che fondava la CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio).
Il trattato costitutivo della stessa fu firmato a Parigi il 18 aprile 1951 ed entrò in vigore il 24 luglio 1952. Il “mercato comune” previsto dal trattato venne inaugurato il 10 febbraio 1953 per il carbone e il ferro e il 1º maggio seguente per l’acciaio. Il trattato aveva una durata di 50 anni e la CECA successivamente divenne parte dell’Unione europea. I paesi firmatari erano: Belgio, Francia, Repubblica Federale Tedesca, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi. S.M.]

Marcinelle, sobborgo operaio di Charleroi, lembo di terra vallona dove si è combattuto un frammento di guerra di classe, si trova nel cuore del bacino minerario dello stato artificiale belga.
Polvere nera di mina assassina. Umili abitazioni, piccoli esercizi commerciali di poco svago e relativo divertimento, al cui interno, come in tutto il borgo, si respirano miseria, povertà e silicosi.
Nel resto della nazione, quella con spirito fiammingo, sulle porte e vetrine dei pubblici locali, campeggia un cartello perentorio: “vietato l’ingresso ai cani e agli italiani”.

marcinelle interdit A Le Bois du Cazier (nome della miniera vigliacca) torri di estrazione, un’infinità di pozzi innaturali, scavati, violentandola, nelle viscere della terra, ingoiano tutti i giorni, tramite montacarichi criminali, uomini (unici e veri infoibati) e vagoncini da riempire di carbone (coke) da barattare, poi, con le loro vite. Alti camini di ciminiere sputano in continuazione fumo e fuliggine insieme a sudore e sangue di immigrati. Una coltre di polvere grigiastra sporca case, giardini, parchi e monumenti.

Nell’anno 1956, l’ottavo giorno di agosto, lo spregiudicato protocollo d’intesa (siglato il 23 giugno 1946 e che prevedeva, a fronte dell’invio di 50.000 lavoratori italiani, la fornitura annuale, a prezzo preferenziale, di un quantitativo di carbone compreso tra le due e le tre milioni di tonnellate) tra due governi infami, ha provocato la morte di 262 uomini (‘solo’ 136 erano italiani…soprattutto abruzzesi e pugliesi).

Con quanti chili di carbone è stata ri-compensata la loro vita?
Con una vagoncino ogni bara da morto?
La “fruttuosa collaborazione” tra il governo belga e quello tricolore ha permesso di rispedire alle madri, padri, mogli e figli, i cadaveri di ex contadini, pastori, muratori e giovani mariti, adagiati dentro le valigie di cartone con cui erano partiti.

Dicembre 1997. Verso la fine del pomeriggio (non è ancora buio, ma non c’è più la luce naturale anche se di un sole invernale) approdo a Charleroi. In piazza troneggia il monumento ai minatori, mentre piove polvere grigia.
Cerco, con il mio ‘molto poco’ comprensibile francese (fortunatamente, anche se è una delle due lingue ufficiali, nessuno parla fiammingo) notizie sulla dislocazione della miniera, e il modo per raggiungerla. Nessuno (sembra) sapere o ricordare dove sia.

Entro in una farmacia e l’anziano dottore delle medicine, che appare l’unico ancora dotato di memoria, alla mia confusa domanda, risponde: “oui, oui, la mina”. E penso ad una bomba.
Mi riprendo e realizzo (come potrò appurare e capire in seguito) che mina è il nomignolo che tutti (anche i minatori, indigeni o immigrati) utilizzano per indicare la miniera. Seguendo il consiglio del farmacista mi reco in municipio per ottenere maggiori e più dettagliate informazioni.

Qui, con grande sorpresa ed altrettanto stupore, constato che molti (portinai, impiegati e lavoratori in genere) parlano italiano, arrotato e, per me, curiosamente accentato ma che capisco benissimo.
Il mio interlocutore mi spiega che il sito minerario è chiuso, non è abitualmente un luogo aperto alle visite, però si può tentare di telefonare a Mario O. (saprò dopo, da lui stesso, che è originario, e proviene da Mirandola modenese) una specie di custode volontario, ex minatore che, se ha voglia e tempo, mi può far visitare l’area dove sorgeva la miniera, “ma solo l’esterno”, si premura di specificare il mio informatore municipale. Così si degna di fornirmi il numero di telefono a cui contattare il custode “improprio” della mina.

Raggiunta la cabina telefonica posta nel piazzale adiacente il palazzo del borgomastro, compongo il numero, ottengo la linea, mi risponde una voce femminile (la moglie) che parla un francese-italiano a me comprensibile ed io, persevero, anche con lei, ad utilizzare l’unico idioma che conosco e chiedo di Mario.

Sento che, in lingua italiana, la signora chiama il marito.
Al telefono, senza convenevoli o riti abituali, Mario accoglie positivamente la mia richiesta. Ponendo una sola condizione. Dovrò rimborsargli il costo del carburante che consumerà per raggiungere, da casa, Marcinelle. La spesa corrisponde, in Franchi belgi, a circa 5.000 lire italiane. Naturalmente, accetto.
Ormai, è quasi buio, l’appuntamento è davanti al cancello (chiuso) divenuto famoso dopo la strage perché immortalato in ogni istantanea ed immagine televisiva, con i parenti schiacciati contro, in attesa di notizie.

Nell’attesa che arrivi, passeggio avanti-indietro. Mario, una volta parcheggiata la sua Simca azzurrina, mi chiede se sono l’italiano che vuole visitare la mina; ci presentiamo in maniera molto informale ed iniziamo il percorso.
Mi precisa che non si può entrare in nessun luogo chiuso (magazzini, stanze, tanto meno porte d’accesso ai pozzi) si visita solo l’esterno, facendo attenzione a dove si mettono i piedi.

La struttura estrattivo-industriale è caratterizzata dai segni dell’abbandono ed è semi-diroccata, c’è ancora l’hangar-dormitorio, una specie di tunnel semi-curvo in lamiera arrugginita e un vagone ferroviario, anch’esso, per un certo periodo, utilizzato come dormitorio.
Andiamo fino all’imbocco del pozzo numero 1 (quello della tragedia), dove ci sovrastano le ciminiere e le colonne d’estrazione. Mi indica, da lontano, le poche strutture in muratura (uffici e ricoveri di motori e centraline elettriche). La visita è terminata.

marcinelle vittime Mentre torniamo verso l’uscita mi invita ad entrare nella guardiola posta a fianco della pesa a ponte (quella che veniva utilizzata per pesare la quantità di carbone estratto, quindi vendibile), apre l’unico cassetto di una vecchia e malandata scrivania pieno di un certo numero di libretti di lavoro, in doppia versione linguistica: fiamminga e francese ( Werkboekje, Livret d’ Ouvrier).
Prendine uno”, mi dice con fare e voce complice.

Con timidezza, e rispetto, allungo la mano e pesco quello di Pinto (che emozione mi rievoca questo cognome)1 Giovanni, charbonnage, nato a Mola di Bari, il 3 maggio 1918, assunto a Bois du Cazier il 15/12/1953, con tanto di timbro dell’azienda che lo certifica.
libretto 1 Gasato a Marcinelle il giorno 8 agosto 1956. Nonostante una moglie e quattro figli. Queste ultime due considerazioni, naturalmente, il libretto non le riporta….

Ho guardato gli occhi del custode-volontario-emiliano e non c’è stato bisogno di chiedergli il motivo di tale straordinaria concessione.
Dal nostro incontro, e per tutto il tragitto compiuto insieme a Bois du Cazier, avevo sulla testa il cappello che, solitamente, portavo in quel periodo.
Al centro c’era posizionato un distintivo: una stella rossa a cinque punte con, inserito nel mezzo, il simbolo di lotta e riscossa internazionale, una falce e martello incrociati.

marcinelle funerali Provenienza geografica degli ostaggi assassinati:
7 molisani, 60 abruzzesi, 4 calabresi, 2 campani, 5 emiliano-romagnoli, 7 friulani, 3 lombardi (un bresciano, due bergamaschi) 12 marchigiani, 22 pugliesi, 5 siciliani, 3 toscani, 1 trentino, 5 veneti. Il triste computo di 136 ostaggi, barattati con qualche quintale di carbone.

E nella democratica Europa neanche allora, come oggi per i morti della Thyssenkrupp o per la Eternit di Casale e di tanti altri casi ancora, i colpevoli pagarono per i loro crimini.


  1. Luigi Pinto, pugliese di Foggia, è uno degli otto antifascisti massacrati in Piazza della Loggia a Brescia il 28 maggio 1974