di Franco Pezzini

KavafisLa foto è del 1865, data aggiunta a mano nella porzione superiore. Un bambino con una tunichetta sta in piedi su una seggiola. Ha due anni, un faccino serio serio e in casa lo chiamano Kostìs, diminutivo di Konstantinos – un nome troppo ingombrante per quel cosino. Ai lati stanno due dei fratelli, entrambi maggiori, con abitini a quadri e anche loro serissimi: l’ancor piccolo Pavlos sulla destra, e il più grande Ioannis-Konstantinos alla sinistra – la fronte del quale è però velata da un’abrasione della foto. Un segno del tempo che graffia, a partire proprio dallo spazio dei nostri affetti; e che consegna ai fantasmi persino le immagini che consideriamo fissate con chissà quali indelebili inchiostri. La poesia che, divenuto adulto, Kostìs coltiverà, e che anzi lo consacrerà all’Olimpo dei massimi poeti greci moderni, si soffermerà con dolorosa frequenza su quel trascolorare in ombre.

L’uscita per BUR (Milano 2013, seconda edizione già 2014, pagg. 231, euro 11,50) di una nuova traduzione del corpus poetico di Konstantinos Kavafis, Che siano tanti i mattini d’estate. Il Canone: poesie 1897-1933, curata con amore da Massimo Scorsone, regala anche al lettore non specialista un incontro di straordinaria intensità. La fortuna di sentir leggere una scelta di queste liriche nel limpidissimo greco originale – dal curatore, durante una serata di presentazione del volume a Torino per il ciclo Poesia in Progress – permette di coglierne in aggiunta anche la musicalità: ma già la traduzione sobria, molto bella di Scorsone aiuta a comprendere come questo cantore del desiderio e dell’omosessualità, della nostalgia e di un’eredità antica tanto radicata in un presente interiore non ci resti affatto lontano.

Kavafis 2Greco ma, è bene sottolineare, non nato in Grecia bensì nello straniero Egitto, in un’Alessandria prosaica di commerci (“L’Alessandria d’oggi difficilmente potrebbe dirsi una città dell’anima”, scriverà nel 1923 E.M. Forster): cotone, cipolle, uova. E di cotone, ma anche granaglie e manifatture, si occupa la import-export Kavafis & figli del padre del Nostro, un oriundo costantinopolitano di illustre casato, cittadino anglo-greco e tra i fondatori della nuova comunità ellenica in città. Greco insomma di un orizzonte ellenistico, il piccolo Kostìs: e non a caso la sua futura produzione lirica brulicherà di bozzetti di sovrani micrasiatici e principesse grecosire, di sofisti e testimoni di una grecità irradiata tra i porti del Mediterraneo e dell’Oriente. Bozzetti – potremmo dire – dei sogni di Alessandro: dove il gusto findisecolo per i fasti antichi e l’esotismo (si pensi alla pittura tardottocentesca, che con l’antico va a nozze) gioca con notizie rare e colte su quel passato un po’ meticcio e l’orgoglio di un’eredità peculiarmente alessandrina.

Kostìs ha sei anni all’inaugurazione del canale di Suez, sette alla morte improvvisa del padre, nove quando la madre Charíklia (una graziosa brunetta, restituita dalle foto nell’abito un po’ impegnativo delle grandi occasioni) conduce la prole tra le fuliggini dell’Inghilterra vittoriana, dove il cognato sta reggendo ormai da solo le sorti della ditta – che chiuderà cinque anni dopo. La famiglia torna ad Alessandria. Poi gli studi a un liceo commerciale, le amicizie, nel 1882 il ricovero dei Kavafis a Istanbul dal nonno materno durante i tumulti antieuropei seguiti dalla dura repressione britannica – che devasta il centro della vita commerciale e la casa paterna, lasciando sulla città un’abrasione come quella sulla foto d’infanzia. Kostìs è diciannovenne, rimane sul Bosforo per tre anni: a quel periodo risalgono le prime prove letterarie sopravvissute e la scoperta del sesso con coetanei – un tema che tanta parte avrà nella sua poesia.

Ancora le foto. I fratelli, ormai cresciuti: giovani bruni, sottili, in abiti vittoriani come tanti che avremmo potuto incontrare negli uffici e nei caffè d’epoca. Ioannis-Konstantinos, per esempio, nel viso serio e malinconico dai grandi occhi reca ora un paio di baffoni: egli pure coltiverà la poesia, ma in lingua inglese. Pavlos, invece, barba e baffi un po’ alla moda dello zar Nicola, condividerà con Kostìs il tipo di eros – con un certo clamore di voci. Poi c’è Aristidis, altro fratello più vecchio, lunghi baffi e barba quadrata, anche lui grandi occhi un po’ tristi con cui fissa il fotografo. E infine Kostìs, in una foto più o meno del ’90: viso ovale come i suoi fratelli, baffi, aria seria. È la sua immagine diurna.

bombedalexQuando nel 1885 è tornato ad Alessandria, Kostìs l’ha trovata diversa, deformata da brutte ricostruzioni dopo la repressione: rinunciando allora sdegnato alla doppia cittadinanza ereditata dal padre, ha mantenuto il solo passaporto greco, e iniziato a collaborare a un locale quotidiano di lingua ellenica. L’anno dopo sono apparse su riviste il suo primo elzeviro e la prima poesia: è il pubblico avvio della sua avventura letteraria, snodata tra continui lutti (che imprimeranno sull’opera un segno doloroso) e gioie dell’eros, fatiche di una vita lavorativa opaca (impiegato avventizio, per un periodo arrotonda come broker e giocatore d’azzardo) e condivisioni colte con interlocutori ammirati – anche se non mancano polemiche coi detrattori. Del resto la sua cifra stilistica, che simpatizza con la “lingua popolare”, demotica, pur ibridata e intarsiata coltamente in modo personalissimo, resta al fuori da lignaggi o vincoli con scuole o gruppi organizzati: Kostìs rimane un geniale autodidatta, che di pubblicazione in pubblicazione acquista fama internazionale. Quel viso si fa segnato, il giovane di un tempo invecchia e medita sul proprio invecchiare. Muore nel ’33, per un tumore alla laringe che gli ha portato via la voce – ma gliene resta un’altra, che abbiamo ancora con noi.

Oggi Kavafis è un autore studiatissimo e molti sono gli aspetti affascinanti della sua produzione. Mi limito – da non specialista di lirica greca – a coglierne uno che mi ha colpito in questa lettura, lasciando a chi abbia desiderio di regalarsi qualcosa di bello la scoperta di altre suggestioni attraverso un accostamento diretto.

E parto dalla vecchia foto di Kostìs bambino, da quell’ombra più chiara sull’immagine del fratello che pare una deriva tra le ombre: perché un filo rosso in questa raccolta è appunto il tema – per così dire – dei fantasmi. Non tanto fantasmi di morti, anche se un ampio corpo di liriche richiama come in una Spoon River greca bozzetti di trapassati (la serie dei Tumuli, per esempio – di Lisia grammatico, di Eurione, di Lanio eccetera – e altre memorie di defunti antichi dove il passato offre forma ai sentimenti dell’oggi); ma soprattutto fantasmi di istanti e situazioni irreversibilmente trascorsi, di emozioni e possibilità della vita censurate o abortite, di categorie esistenziali che parlano la voce dell’ombra. Fantasmi interiori, a volte malinconici o invece dolorosi, altrove – più raramente – raggelanti: e con le debite differenze non pare troppo azzardato accostarvi certe pagine di un contemporaneo inglese di Kavafis, a sua volta poeta e visionario prosatore, Walter de la Mare, le cui inquietudini tutte interiori possono richiamare questi dolori del ritorno.

Se scorriamo le liriche del Canone kavafisiano, troviamo così anzitutto i fantasmi del tempo che incalza: di giorni trascorsi (“Non voglio più guardarli: mi turba il loro aspetto”: Candele) e di quelli sprecati (La città), talora con riferimento al teatro d’antichità che per l’autore si svela lemmario interiore (Oroferne). Ma sembrano presentare parecchio del fantasma anche i giorni insapori di un presente consumati via via (Monotonia); e persino quelli del “futuro / […] già imminente” che talora fa trasalire i saggi (I savî, quel ch’è prossimo), o dell’ineluttabile che ci sovrasta quando invece ci affanniamo a temere qualcos’altro (Infine). Fino al paradosso spettrale di un tempo che ignoriamo sia già stato strappato, nella preghiera di una madre davanti all’icona per il figlio marinaio ch’ella ignora essere morto in mare (Supplica).

RamlehstreetMa dal tempo in qualche modo misurabile, Kavafis ci conduce a quello anche più personale dei nostri sogni e fallimenti – e anche lì muovono i fantasmi. Quelli della malinconia (Il sole, al pomeriggio) e del rimpianto (Discernimento), di potenzialità spente per miopia (Interruzione) o di progetti travolti insieme a noi stessi (Il dio abbandonava Antonio; I passi); o persino più struggenti, senza spazio per una risposta stoica, i fantasmi di ciò cui davvero aspireremmo, mentre finiamo ingolfati da rimpianti e sostituti farlocchi (La satrapia). E se è fantasma illusorio l’idea di una realtà scevra di sofferenze (I cavalli di Achille), lo è in certo modo, alla fine, l’idea stessa di una meta: non perché a essa non si giunga, ma perché suo dono è già stato il viaggio che abbiamo vissuto e ora “non ha più nulla da donarti” (il notissimo Itaca).

I fantasmi investono d’altronde la sfera dell’illusione, con quel tema della fiducia tradita che dalle relazioni interpersonali rimanda a un rapporto più generale con la vita (Perfidia). E che anzi traghetta all’altro motivo amaro dello sgualcire dei successi, attraverso l’aleggiare di uno degli spettri più terribili di questo corpus lirico: quella cioè che potremmo chiamare la categoria-Teodoto, dal nome del personaggio che recò a Cesare il capo mozzo di Pompeo, e che “incorporeo, invisibile” può ben funestare oggi altre dimore (Teodoto). È d’altronde “a bella posta” che il poeta lascia spegnere la lampada per accogliere un altro dei fantasmi dell’antica Alessandria, il diciassettenne ultimo sovrano tolemaico Cesarione nell’omonima lirica; come spettrali sono l’entità divina scesa per qualche “equivoco piacere” nel quartiere dei bagordi di Seleucia (Un loro dio) e l’Apollonio Tianeo di Se pure sia morto. Fino ai fantasmi della politica – qui troviamo il Kavafis più sferzante e ironico – che permettono di cambiare solo il nome del perdente nei proclami (In un distretto dell’Asia Minore) o di deplorare l’assenza di un nemico che giustifichi il nostro atteggiamento smarrito e inconcludente (In attesa dei barbari).

Certo, il richiamo al fantasma potrebbe apparire una forzatura, un artificio retorico nel tentativo di individuare un filone connettivo lungo anni di scritture. Ma se non bastassero i cenni offerti – e altri che scorreremo in prosieguo – una lirica collocata a metà del volume e indicativamente all’inizio del secondo terzo del Canone, nella fase 1916-1918, ci offre conferma ancora nel segno della visione. Recita Eran le nove:

 

Le dodici e mezza. Ne è passato, di tempo, e in fretta,

da quando – eran le nove – ho acceso il lume,

e mi son messo qui a sedere. Me ne stavo senza leggere

e senza parlare (con chi avrei potuto mai

parlare, qui da solo, in questa casa).

 

Il fantasma del mio giovane corpo,

da quando – eran le nove – ho acceso il lume,

è giunto, e mi ha sorpreso, e mi sono ricordato

di camere serrate, profumate,

e di trascorsi piaceri – di che arditi piaceri!

E così mi ha riportato dinanzi agli occhi

Vie che oggi non riconoscerei,

luoghi pieni di vita ormai scomparsi,

e poi teatri, e caffè come ve n’erano una volta.

 

Il fantasma del mio giovane corpo

è giunto, e mi ha recato ancora ricordi mesti:

dolori domestici, e dipartite,

sentimenti dei miei cari, sentimenti

dei morti, valutati così poco.

 

Le dodici e mezza. Com’è passato, il tempo.

Le dodici e mezza. Come son passati, gli anni.

 

Kavafis 4Dove “Il fantasma (είδωλον) del mio giovane corpo” che traghetta infine a quei pensieri tristi è però anche evocatore di antiche gioie dei sensi, “di trascorsi piaceri – di che arditi piaceri!”. In effetti la raccolta reca un intero panorama di fantasmi del desiderio, memorie d’occhi (Laggiù; Grigi) e labbra (Una notte) e corpi, echi di piacere da un passato più o meno lontano. E l’eidolon può emergere attraverso il ritrovamento di un biglietto (In serata), la scoperta di un acquerello scordato in un volume (In un vecchio libro –), o magari il passaggio sotto la dimora fuori mano di antichi amori (Sotto quella casa).

“Ed illudermi di guardare tutto questo / (che ho visto veramente, per un attimo, standomene immobile), / e non i miei miraggi pure qui, / le mie reminiscenze, le chimere del piacere” (Mare al mattino).

“Più volte torna ancora, e coglimi la notte, / quando le labbra ricordano, e la pelle…” (Torna).

“Si saranno offuscati – se tuttora è vivo – i suoi occhi grigi; / si sarà guastato quel suo viso incantevole. // Memoria, conservali tu, così com’erano. / E, memoria, quello che puoi di quell’amore mio, /quello che puoi riportami stasera” (Grigi)

“Ah, sì, ora che si è seduto al tavolo qui accanto / riconosco ogni sua mossa – e là, sotto i suoi panni, / ravviso nuovamente le membra amate, nude” (Il tavolo accanto).

“Ormai che tutto questo si addice al passato, / pare quasi che a quelle stesse brame / tu ti sia consegnato – come ardevano, / negli occhi che, ricorda, ti ammiravano; / nella voce come palpitavano per te, ricorda, corpo” (Ricorda, corpo).

Ma i bellissimi giovani che in particolare nella produzione più matura il poeta richiama alla mente con ammirazione mista a tenerezza (Ritratto di un giovane ventitreenne dipinto da un amico suo coetaneo, artista amatoriale; Splendidi fiori bianchi, s’addicevano proprio; Lo specchio all’ingresso; Domandava di che stoffa –; e tutta la serie dei Giorni) sono essi pure fantasmi; lo sono le voci amate (Voci) come le antiche ebbrezze (Una notte) o le stesse “Ombre dell’Amore” oggetto ormai di pura immaginazione (Che vengano –). Certo, tanto più “le voglie che si estinsero / inappagate” (Voglie), gli “ardori da sé spenti” (Un vecchio), quando “Sì, l’ha perduto del tutto. E così seguita sempre / a cercare nelle labbra dei suoi nuovi amanti / le labbra che furono sue” (In angoscia). E certo, con la coscienza che tali piaceri – “che erano concreti per metà, / e per metà mi mulinavano in mente” (Me ne andai) – trovano in realtà completamento in altre regioni interiori.

Se poi è talora con orgoglio che Kostìs rivendica quei piaceri arditi che fremono contro ogni scomunica sociale (“E possenti vini bevvi, quali può / soltanto bere chi sa ardire nel piacere”: Me ne andai), è pur vero che altrove essi appaiano paludati – come in fondo la maggior parte degli spettri – di un tessuto di sensi di colpa. Di censure per un’omosessualità inseguita con entusiasmo quasi alla scuola degli antichi efebi ma mai realmente accettata; e i pensieri febbrilmente nostalgici – quegli incontri in caffè ormai scomparsi, quegli sguardi – sono insieme segnati da un’idea di losco e di sordido. Qualcosa da cui voler stornarsi a “una vita nuova”, ma che al calar della notte vede il ritorno “alla medesima / fatale gioia, perduto” (Giura). Dove il piacere “illecito” trova però una zona franca e un presente conciliato nello spazio della poesia: “Però quanto ne guadagna, la vita di un artista/ Domani, posdomani, o cogli anni scriverà / l’ardente canto che qui ebbe il suo preludio” (Il suo preludio); “carne che denuda svelta […] e adesso è giunta / per ristare in questa mia poesia” (Per ristare); “Sforzati, poeta, di serbarle in te, / quantunque siano in poche ad indugiare, le visioni del tuo mondo erotico. / Dissimulale, inducile nelle tue parole” (Quando si destano). Con la gioia che “Adolescenti, oggi, dicono i suoi versi. / Nei loro occhi vividi scorrono i suoi miraggi” (Assai di rado).

Ma mi pare ci sia almeno un’altra accezione del fantasma in riferimento all’opera di Kavafis. L’edizione BUR propone come detto il Canone, un insieme di 154 liriche riconosciute, più volte ristampate e oggetto nel ’63 della fondamentale edizione critica di Gheórghios P. Savvidis – che in seguito la rivedrà, 1991, e costituisce base anche per quella in esame. Ma proprio l’idea di Canone evoca per opposizione qualcosa che ne resti fuori: cioè in questo caso una ricca produzione di testi ripudiati, incompleti o “segreti”, vera e propria ombra dell’altra e in Italia in parte ancora inedita. Ci si può anzi augurare un secondo volume per ovviare a una simile mancanza.

MohammedAliSqHo chiesto al curatore Scorsone di fornirmi in traduzione una di queste Segrete: e con tale testo (di cui ovviamente lo ringrazio), mi riporto idealmente ai caffè di Alessandria, alle case della città dei commerci e degli incontri illeciti, fino a una stanza dove il lume è acceso in attesa degli spettri. Le vanità, le pretese del potere, le illusioni, i sogni della gioventù… E sul tavolo, accanto ai fogli vergati con bella grafia in caratteri greci, alcune vecchie foto: sulle quali l’abrasione del tempo avrà il sapore del ritorno – come la chiama il poeta – di una jeunesse blanche.

 

La jeunesse blanche

 

La nostra amata, bianca giovinezza,

ah la bianca giovinezza nostra, candida –

ch’è infinita ed è al contempo alquanto scarsa –

ali come d’arcangelo sopra noi dispiega! …

tutta si sciala, tutta arde d’amore:

e svanisce, e illanguidisce nei suoi bianchi orizzonti,

ah se ne va, e sfuma laggiù, nei suoi bianchi orizzonti,

per sempre se ne va.

 

Per sempre? No. Farà ritorno ancora,

riapparirà, farà ritorno ancora,

colle sue membra nivee, colla sua grazia nivea,

verrà la nostra bianca giovinezza a coglierci.

Ci prenderà colle nivee sue mani,

e d’una lieve sindone dal suo biancore tolta,

d’una sindone candida dal suo biancore tolta

tutti ci velerà.

 

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Alcuni link:

Constantine Petrou Cavafy. The Official Website of the Cavafy Archive 

“C. P. Cavafy 1863-1933”, Poetry Foundation 

John Herbert Cunningham, “C. P. Cavafy: Collected Poems”, The Quarterly Conversation

Cavafy’s World 

Kostantino Kavafis raccontato da Franco Buffoni