di Zena Roncada

[Pubblichiamo un racconto breve di Zena Roncada tratto dalla raccolta Margini. Storie di uomini e donne senza storia (Pentagora, 2013, pp. 176, euro 12)] A.P. 

zena

Che i bambini ne avessero paura era già scritto nelle mani.

Conciate di rughe, come certe grife d’aia e di pollaio.

O, forse, più parevano zampe di tordo. Di picchio.

Per quegli unghioli spessi.

E per la sella che slargava l’indice dal pollice, nella presa propria degli uccelli: ritornava anello solo per stringere il collo dei sacchetti, al ferro della bicicletta.

Quasi un possesso antico.

Quasi la vita fosse tutta lì.

Era la vecchia dell’orto lungo.

Uscita dalla crosta di un albero, con la faccia di radice.

I vestiti a strati, su chissà quale magrezza.

Era una vecchia di terra e di robinia.

Suora ricca e barbona, in quell’orto preso in petto come un figlio, nutrito e dissetato ogni giorno.

Uno scarnarsi in fatica di zappa, in acqua portata con i secchi.

Barcollando sulla bicicletta, con le sporte che impedivano il pedale, in traccia di un butto da rubare, nel tempo quieto della mattina presto.

Vergogna dei nipoti che allargavano le braccia, senza fare, senza dire.

E tutto per i fiori.

Per avere l’orto colmo di gigli e ortensie bianche, bordate dai cuori della hosta. E rosso di sassifraghe in primavera, che son tappeti di spade.

Uno spago di terra: usciva dalla casa vuota e andava giù, fino a ficcarsi in chiesa, in un rigoglio che il muro a stento conteneva, correndo a drittofilo parallelo.

In cima, il caprifoglio rompeva clausure e anche il gelsomino debordava dal colmo della cinta, con la forza o il luccicore di foglie brillantine.

Che i bambini ne avessero paura era già scritto nei bisbigli.

Nelle voci alle spalle, che facevano scappare dentro casa e portavano disgusto: un odore di limaccia ferma al sole e di acqua inchiodata dentro l’ombra. C’è che alla terra non basta la fatica.

Succhia vita e sudore, prima di pagare con gladioli e dalie.

Sangue, forse.

Così c’era chi diceva di gattini finiti nella sporta, quelli stenchi, figliati a santa Rosa d’agosto, che nessuno si sarebbe messo in casa.

Quando il portone di legno s’apriva (giusto il tempo d’un ingresso in bicicletta), chi passava rubava un lampo di colore forte, ma, nel rosa ciclamino di peonia, carnoso di mollezza stanca, credeva di vedere altro.

E non reggeva quella bellezza dolorosa.

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