di Luca Baiada (da Il Ponte, LXIX, n. 4, aprile 2013)

[Si ringrazia la rivista Il Ponte per la gentile concessione.]

Ratzinger

Scrivo al suono celestiale del coro Ruht wohl, dalla Passione secondo Giovanni di Bach. Ma sì, una passione così commossa l’ha scritta un protestante. E guarda un po’, era tedesco.

«Il papa, dimettersi? Cristo può forse dimettersi dalla croce?», rispondeva un chierico tempo fa, all’ipotesi che Ratzinger lasciasse il trono da vivo. O il chierico era di vista corta, o l’interessato era appunto più sul trono, che in croce.

Dopo il comunicato, uno sciame di illazioni, di supposizioni e di balordaggini. Il papa stava per essere assassinato, un complotto, una manovra diversiva, un modo per gestire la successione da vivo (come se lì non ci fosse il modo per gestirla anche da morto). Un brusio di chiacchiere uscite direttamente dai Sotterranei del Vaticano di Gide, ma senza il brio di quel romanzo gustoso. Ed eccomi a dire la mia, non nel latino curiale scelto sub specie aeternitatis dal papa per annunciare il ritiro, ma nel volgare italiano, nella lingua secolare di un paese, il mio, che molto dà al sovrano biancovestito, ricevendo poco o nulla.

Ha fatto come Celestino V, si è detto. Solo un po’ di Dante imparato male, può aver dato spazio a questo paragone. Anzitutto non è sicuro che il grande tosco si riferisca a Celestino. E comunque Pietro da Morrone accetta riluttante l’incarico, lo svolge per pochi mesi fra nemici agguerriti, e si dimette anche per le mene del suo successore Bonifacio VIII. Ratzinger, invece, prima guarda al trono vaticano con paziente appetito, e poi svolge otto anni di papato, attivo e robusto. Nessun gran rifiuto, anzi proprio nessun rifiuto. Al banchetto del potere, Celestino quasi digiuna. Ratzinger si accomoda, si sazia e poi si alza quando vuole lui, dando istruzioni su come riapparecchiare la tavola.

I motivi del gesto? Mi viene voglia di mettermi in coda, fra i tanti che dicono di possedere la spiegazione. Il comunicato in latino si tiene sulle generali. Qualcuno vi ha trovato un paio di casi fuori posto (e il sito del Vaticano ha rettificato), ma già questa caccia all’errore parla da sé. Le dimissioni saranno ricordate come gesto storico, e il grammatico che ha scovato gli inciampi sarà dimenticato. Ad averne voglia, potrei anch’io far finta di lavorare di fino, chissà se farei bella figura. Per esempio. Il papa dice che le sue forze con l’età non sono più adatte: «vires meas ingravescente aetate non iam aptas esse…». In quelle parole, vires meas, una strana eco mi incuriosisce. Le metto in un motore di ricerca, e le ritrovo in una lettera di Lutero: scrivendo da Wittenberg nel 1525, con «excedit enim vires meas» l’autore si sbarazza di un volume in ebraico, dicendo appunto che è oltre le sue forze. Certo, il papa non è luterano. Però. Due tedeschi, e forse due modi simili di misurare gli ostacoli.

Ma mettiamo da parte queste spigolature. Al papa guarda l’attenzione di una moltitudine, dai centri della storia alle remote periferie. C’è una delicata poesia di Pascoli, nei Nuovi poemetti: una vecchierella nell’alto della Garfagnana – scrigno di donne con le pesche sulle guance e gli enigmi in fondo agli occhi – riceve la notizia dell’agonia del papa lontano. La nonnina sa che sono nati nello stesso giorno, e dolcemente insieme a lui si spegne, intravedendo nella via Lattea «la strada, / nel cielo azzurro, tra le stelle ardenti / bianca ma quasi molle di rugiada, / la tacita sul sonno delle genti / strada di Roma». È passato un secolo, da quei versi squisiti, ma ancora molti cuori battono all’unisono, pensando a un abito bianco arroccato in un palazzo del Rinascimento, con dentro un uomo selezionato da secoli attraverso un collaudato ingranaggio di potere e di relazioni. Disprezzare quei cuori non è più intelligente della loro ostinata fiducia.

Le critiche che si sono sentite, a Ratzinger e al suo papato, non sono all’altezza della realtà. Le sue posizioni sul celibato, sul sesso, sui preservativi. Tutti modi per cambiare discorso. Nel mondo ci sono folle con un preservativo di indifferenza infilato sull’anima tutti i giorni, e ci si preoccupa di cosa dice il papa su un gommino da indossare sul corpo a intervalli. Altre, ben altre sono le responsabilità del papato, e la storia di quest’uomo, il posto che occupa nel Secolo breve, ci stanno dentro in pieno. Un assaggio?

Joseph Ratzinger ha fatto parte della Hitlerjugend e della Wehrmacht. E anche della Flak, la contraerea tedesca, in un reparto che ha difeso, fra l’altro, gli impianti del complesso di Dachau, e precisamente del KZ-Aussenlager Allach. Gli schiavi di Dachau lavoravano per le industrie, anche della Bmw, e nella produzione di armi. Un carotaggio esemplare del sistema concentrazionario: gli schiavi fabbricano armi per i loro padroni, che proteggono militarmente l’opificio per continuare a combattere con le armi prodotte dagli schiavi; e un piccolo Joseph fa la sua parte in divisa. Intervistati, i suoi commilitoni hanno detto che no, lui da quella postazione non sparava. Ma hanno confermato che era addetto alle apparecchiature per il rilevamento degli aerei alleati; da quelle apparecchiature chi sparava riceveva le informazioni necessarie al tiro. Sempre nella Flak, ha fatto il sorvegliante di un gruppo di lavoratori forzati, obbligati alla costruzione di fortificazioni sul fronte orientale. C’è una comoda via d’uscita per cambiare discorso, ed è ricordare che era un adolescente, un ragazzo, che non poteva disubbidire, che c’era la guerra. Costruire responsabilità personali è pericoloso, come smontarle, e le condanne possono essere ingannevoli come le assoluzioni.

Invece, proprio il fatto storico che quel ragazzo della postazione antiaerea sia diventato papa, lui puntino, segmento e poi protagonista della storia, passando attraverso la disfatta tedesca, il rogo di Berlino, il riarmo della Germania, la divisione del suo paese e poi la riunificazione, e la fine della guerra fredda, e ancora la globalizzazione, proprio questo lungo fatto storico è inquietante, a prescindere dalla riduttiva questione della colpa. Il processo di Norimberga è finito, non si fanno sentenze postume, e anzi Ratzinger è ancora vivo, ma comunque non si può processarlo per la sola partecipazione ad attività belliche. E se ride bene chi ride ultimo, ancor meglio, placidamente sorride chi non si è mai fatto vedere in pubblico mentre ride. E la storia, via, non si fa né in un processo né in un confessionale, per quanto i giuristi si atteggino a chierici, gli storici a giudici e i giornalisti a accademici della storia.  Tutte pose caricaturali piuttosto frequentate, in Italia.

Il cambiamento prospettico indotto dal sovrapporre o sostituire all’identità nazionale l’appartenenza alla chiesa, e specialmente al suo clero, rischia di cancellare il fatto che un tedesco diventa papa, passando dalla divisa delle forze armate hitleriane alla candida veste del vicario. Colmo di paradosso, questo avviene anche all’ombra del papato di un polacco, con cui sin dal 1978 l’alto chierico Ratzinger lavora in sintonia, specie nella repressione della Teologia della liberazione. Un polacco e un tedesco?

Dal 1939 la Germania cerca di annientare la Polonia persino cancellandone il nome; poi è proprio la Polonia cattolica, latina fra gli slavi, a far da cavallo di Troia nel blocco sovietico, sino al 1989; nel frattempo la Germania dell’Ovest si rafforza, per poi imporre il suo modello a quella dell’Est, e ristabilire l’ordine delle cose in Europa. Ed ecco che dalla fine degli anni Settanta il papa polacco spiana la strada al papa tedesco, che beatifica il suo predecessore. Chissà se tra le fiamme della Götterdämmerung del 1945, o prima ancora, quando le divisioni tedesche correvano verso Varsavia, le Valchirie se la ridevano, intravedendo sorprese che né Stalin né Pio XII avrebbero immaginato. La novità sovietica, nata sulle rovine dell’età degli imperi, sarebbe stata fiaccata e infine archiviata. Antichi sovrani erano spariti da qualche anno: il Kaiser, l’imperatore d’Austria, lo zar, il sultano di Costantinopoli, l’imperatore della Cina. Tutti via, fra le righe dei libri di storia. E nel giro di poche generazioni, la Germania avrebbe non solo dettato l’ordine del giorno economico, in Europa e oltre, ma significato molto di più. Da anni, lo spread e la finanza prendono a paragone i titoli tedeschi. E dal 2013, la modernità nel rapporto fra un uomo e il suo potere andrà pensata tenendo conto del gesto con cui un tedesco ha saputo sfilarsi il suo abito di capo di stato e di chiesa, mentre altri – e in Italia sono legione – si aggrappano come ragni alla loro più modesta poltrona. C’era già un debito economico misurato a Francoforte, ora ce n’è un altro morale, da misurare a Roma, a Castelgandolfo, in un convento, o dovunque quest’uomo porterà anche solo il suo silenzio.

Non molto tempo fa, Ratzinger dichiarava che una certa avversione nei suoi confronti è razzista: è dovuta al fatto che lui è tedesco. Ecco, in questa insiemistica della storia è il nocciolo di molte questioni. Come dimenticare, che per Wojtyla la Polonia è una nazione eletta, perché ha subìto e attraversato l’estremo sacrificio del tentativo di annientamento? E cos’è la Germania in Ratzinger? Viene in mente quel concetto abissale della santificazione mediante il sangue, un tema che spesso è respinto ma che a volte riemerge. Lo esprimeva per esempio nel 1977 un film controverso, Hitler, un film dalla Germania di Hans Jürgen Syberberg: lo sterminio presuppone la purezza della vittima ma sacralizza l’autore, facendone un officiante: «Arrivò uno che sapeva bene quanto i sacrifici accrescessero la potenza della divinità, e sapeva che si pretendevano sacrifici di sangue. […] Come lui ripeteva, chi rende sacrifici è un eletto, un popolo eletto». Con gli stermini nazisti, la Germania è diventata una casta di sacerdoti? L’ipotesi è atroce, ma la curiosità di capire è forte.

Se c’è un senso profondo in questo, al papa polacco segue quello tedesco, colpa e redenzione si bilanciano, e l’esito è un prestigio così autorevole, che il più famoso dei tedeschi si può permettere un ritrarsi, una dignitosa rinuncia che sottrae agli sguardi e ai pettegolezzi la decadenza fisica di un uomo, per lasciare in Vaticano un abito rigido come una corazza, con cui il successore dovrà fare i conti (è stato appena nominato ed è presto per commentare la scelta). Il papa tedesco non si mostra sfinito e tremolante dinanzi alle folle, non è mica un polacco lacrimoso. Lui è un figlio del germanesimo, è padrone del Selbstbewusstsein, si dimette con compostezza e impartisce una lezione di autocontrollo e tempistica, fabbricandosi il ruolo speciale di papa emerito.

Solo i fatti diranno se Ratzinger sarà un alto chierico a riposo, parco autore di libriccini, o un grillo parlante pronto a riaccendersi sul muro, più insidioso di un antipapa, perché privo di mire legittimiste, e libero dall’amministrazione delle cose vaticane. Un uomo che è stato prima al vertice della Congregazione per la dottrina della fede, e poi papa, se in seguito farà o dirà, se loderà o ammonirà, cosa gli si potrà replicare? si oserà accusarlo di eccessi, di ambizioni? L’umiltà è una virtù che nel momento stesso in cui credo di possederla, già mi è sfuggita e fa di me un colpevole di orgoglio. Ma c’è un rovescio: esercitata a modo, crea la colpa degli altri. Chi poteva immaginare, che dopo aver indossato una divisa delle forze armate hitleriane, un tedesco con un gesto di umiltà si sarebbe fabbricato uno scalino più alto del trono di Pietro.

Lo sbocco di tutto questo potrebbe essere a sua volta una trappola. Incapace della violenza di uno scisma, con le necessità di scelta che porta con sé, la chiesa cattolica avrà, invece di un papa e un antipapa, un papa e un ex-papa. L’inedito doppione simbolico difficilmente insegnerà a chi non è avvezzo a un radicamento culturale policentrico la necessità dell’approfondimento, delle scelte, della lacerazione di coscienza. È possibile che nell’immediato questo significhi un impoverimento morale, perché uno solo sarà il papa, ma si saprà che oltre al vicario c’è un ex-vicario pronto a pensarci su, e poi a fare un gesto di assenso o a scuotere il capo, su molte cose. Si può divorziare? e convivere? e il fine vita? e la guerra? Se il papa in carica dice A, quello a riposo tace ma forse pensa B, e va un po’ a sapere, e nel frattempo facciamo come ci pare, poi si vedrà. Ognuno per sé, a ciascuno il suo papa, e un po’ d’acqua santa per tutti.

E la vecchina della Garfagnana? Per quanto povera e ai margini della storia, poteva condividere qualcosa con un’autorità millenaria: i due sono diversi e lontanissimi, ma muoiono insieme. È poco? Bisognerebbe chiederlo a lei. Se mai comprendesse cosa significa dimettersi, lei che ha solo una piccola pecora e un’immensa fede, e che quindi non può disfarsi di nulla, le dimissioni del papa le sembrerebbero un tradimento.

Ancora. Sullo sfondo, si intravede il rapporto fra da un lato cattolicesimo, e dall’altro legalità, diritti dell’uomo, Rule of Law, perché le dimissioni scindono le funzioni dalla persona, le regole dal carisma. Il sostegno al tema dei diritti umani, espresso da Ratzinger parlando all’Assemblea Generale dell’Onu nel 2008, e poi ribadito nella sinagoga di Roma nel 2010, è stato salutato come un successo, ma sotto traccia implica un abbraccio politico e ideologico. Il concetto stesso di diritti dell’uomo, per come si sta evolvendo, è insieme una teoria politica, un sistema valoriale e una sorta di religione a luce fredda. Nei fatti, Ratzinger è sembrato molto più laico di quanto i suoi detrattori siano disposti ad ammettere, e forse vanno lette insieme a questo, le sue dimissioni dal papato come se fosse una carica civile. Ma è stato davvero laico, oppure secolarizzato? E in quell’abbraccio chi resta soffocato, l’anglosfera o la chiesa romana?

Forse proprio qui, c’è un tassello dell’enigma. Il Cristianesimo è molte cose, anche uno strano, ultimo erede dell’Ellenismo: interseca le nazioni appoggiandosi a un sistema simbolico, però dichiaratamente monoteista. Sfidato dal multiculturalismo della globalizzazione, il papato reagisce con un’apparente elasticità organizzativa per difendere la struttura, come l’albero lascia cadere le foglie per sottrarre la linfa al gelo. Viene da pensare a un concetto preso in prestito dalla fisica, la resilienza, che va di moda in tempi di insicurezza: per non essere fragile, bisogna assorbire gli urti.

E in tutto questo, l’Italia? Morto Pio IX, nel 1878, i patrioti italiani cercano di impadronirsi del corpo per gettarlo nel Tevere, e gridano: «A fiume il papa porco!». Morto Wojtyla, nel 2005, una folla acclama: «Santo subito!». Tra la voglia di dare ai pesci un marchigiano e la smania di pregare un polacco, dove sono adesso gli italiani? Si vuol far credere che ogni essere umano nasca col peccato originale, ma si finge che ogni italiano nasca con due: uno contro Cristo e l’altro contro il suo vicario, perché l’Italia unita si è formata spodestando il papa di ciò che sosteneva di possedere per diritto inviolabile. Il rovescio del popolo eletto, è il popolo maledetto: gli italiani sembrano un Israele con un dio per nemico, invece che per alleato. In Italia parole come patria e popolo sono sospette, e l’idea stessa di un nazionalismo democratico è vista come un ossimoro politico.

In questo oscuro senso di disagio e di colpa, in questa diffidenza che trasforma l’identità nazionale in una cosa caricaturale, di ventre o di sesso (i maccheroni, Italians do it better), c’è l’orma della storia postunitaria. Ci sono le smanie coloniali, i fragori fascisti, la sudditanza postbellica. E c’è l’internazionalismo ambiguo della sinistra, capace di parlare di eurocomunismo e di via italiana al socialismo, ma non di far sopravvivere ai partiti marxisti un solido blocco popolare, per traghettare coi fatti dentro la globalizzazione gli ideali proclamati sino alla guerra fredda. E forse sta dentro questo senso di inferiorità, il fatto che a febbraio 2013 poche frasi latine di un papa siano capaci di rimpicciolire per giorni le elezioni nazionali.

Si spengono le ultime note del coro Ruht Wohl, come fra le navate di una chiesa gotica. Rieccomi qui, bruscamente, nel secolo. Adesso voglio ascoltare il cabarettista Nanni Svampa, quello dei Gufi, nella deliziosa versione jazz della Bella Gigogin: «Rataplan, tamburi io sento, che mi chiama la bandiera…».