di Danilo Arona

Ceparano.jpgRicevo da una dolce e bravissima amica una lettera che qui intendo pubblicare nella sua interezza per ovvi motivi. Dietro richiesta più che condivisibile ometto dal documento qualsiasi dato anagrafico. Va da sé che non sono io l’autore di questa particolare puntata de La luce oscura.

Carissimo Danilo,
ti devo raccontare una storia, non particolarmente strana o spaventosa, ma piuttosto il frutto di una serie di coincidenze che tu, proprio tu, sarai in grado di apprezzare. Io prendo sempre le coincidenze come cose importanti da ascoltare. Forse sarà anche una storia lunga. Spero di non annoiarti.
Inizia tutto la scorsa estate. Dopo la tappa marittima per far contente le bambine e il marito finalmente riesco a trasferirmi una ventina di giorni a casa dei miei. E’ un luogo che mi fa bene, mi rigenera, mi avvolge. C’è tutto di me in questi dintorni e delle volte penso che sarei un’ottima candidata per diventare uno dei suoi fantasmi, perché le energie di quello che sono stata e di quello che ci ho vissuto, di quello che mi hanno raccontato e di quello che ho esplorato sono già tutte qui a infestarlo. Tra l’altro ultimamente mi sono accorta che quel che sogno quando dormo nella mia vecchia stanza è completamente diverso e molto più vivido, emozionale, intenso e misterioso di quel che sogno in qualunque altro posto dove abbia mai dormito e anche questo c’entra con quello che ti voglio raccontare.

Come dicevo, estate. Un caldo che ci ricorderemo per un bel po’, il silenzio di questa campagna avvolta da quella che hai definito giustamente “la luce oscura”. Quel giallo, Danilo, giallo dappertutto, in tutte le sue sfumature e quelle ore del giorno in cui non canta più nemmeno una cornacchia e la sensazione che sia tutto così luminoso da far sparire le ombre ben oltre il momento dello zenith, in una stasi pesantissima e carica di vibrazioni. I greci dicevano che l’ora dei fantasmi era il mezzogiorno, perché le ombre sparivano e i morti senza ombra potevano mescolarsi ai viventi in un’illusione di vita. Questa era la mia sensazione, un mezzogiorno eterno pieno di presenze impalpabili. Nei miei venti giorni di vacanza vengo perseguitata dal senso di impotenza: vorrei fare un milione di cose e non riesco a fare niente perché il caldo mi uccide. Soprattutto è la frustrazione mentale delle suggestioni che vorrei raccogliere passeggiando, parlando con qualcuno, lasciando soltanto correre l’immaginazione e il ricordo lungo una geografia da completare.
Niente. Se non infinite ore passate sdraiata su un prato agonizzante a guardare la linea delle colline intorno.
Ma su quelle colline c’è un punto che mi attira più di altri. Mi accorgo che tutti i giorni mi ci fermo per un po’, pensando che mi piacerebbe andare a farci un giro visto che sono tanti anni che non ci capito più.
E’ su una collina proprio di fronte a casa mia, si vede un crinale liscio e quasi orizzontale che sulla sinistra sale trasformandosi di nuovo in un pendio. Sulla cima del pendio c’è una torre. Si chiama Ceparano ed è molto antica perché pare fosse lì già in epoca bizantina. E’ una classica costruzione di guardia, da lassù si vedono due valli ed è un luogo perfetto per controllare l’ingresso verso il paese che è distante una decina di km. Ceparano mi offre quindi per tutta l’estate un punto dove fermare il mio sguardo annoiato. Non è un gran punto, mi dico, perché lo conosco così bene che non c’è molto da aggiungere. Potrei ridisegnarne il profilo a occhi bendati. Però lo guardo e lo riguardo, finché non arrivano i miei ultimi tre giorni di vacanza.
La prima coincidenza arriva una sera a cena, ospite una coppia di amici dei miei genitori. Lei in particolare è una donna incredibile, dotata di una sensibilità (anzi sensitività forse è un termine migliore) fuori dal comune e dagli interessi curiosi, orientati verso i lati “in ombra” della realtà. Chiacchierando dopo una pizza in giardino, il discorso fino a quel momento dedicato a questioni di lavoro finalmente si dirige verso argomenti più interessanti. Mio padre parla dei restauri della rocca in paese, un altro posto affascinante e pieno di storia, delle campagne di scavo archeologico che sono state fatte dall’università di Firenze qualche tempo fa e del fatto che in quell’occasione aveva accompagnato degli studenti a visitare non solo la rocca ma anche un altro posto storicamente rilevante, il cosiddetto “Castellaccio”… che guarda caso sta esattamente sul crinale gemello della torre di Ceparano, dall’altra parte di una delle due valli di cui ti parlavo prima.
Anche il Castellaccio era una torre che adesso non c’è più. Rimangono solo poche tracce delle sue fondamenta, costruite come quelle di Ceparano su un terreno unico nel suo genere. Una vena che attraversa perpendicolarmente una serie di vallate e che qui chiamano lo “spungone”, perché il suo aspetto è quello di un sasso spugnoso, dal colore chiaro, che spicca in mezzo alla roccia calcarea circostante e che è frutto di una formazione antichissima risalente al Pliocene. E’ una roccia “viva” perché è formata da sedimenti marini, quindi piena di fossili: una roccia traforata da decine di aperture, alcune naturali, altre scavate dall’uomo sfruttando la friabilità del materiale roccioso.
Del Castellaccio mio babbo dice una cosa, dice che “Siamo andati lì e quando siamo arrivati l’aria vibrava” (e a me si sono drizzate le orecchie). “Ci sono sopra decine di antenne e di ripetitori. I ragazzi volevano fermarsi di più a fare rilevamenti e cose loro, ma io ho insistito per venire via perché l’aria vibrava troppo, mi è venuto questo scrupolo che non fosse bene fermarcisi troppo, lì sotto. Non volevo che si sentissero male o che succedesse qualcosa.”
Ora, per prima cosa mi sei venuto in mente tu. E il buzzing. Poi mi è balzato alla mente un altro libro letto un po’ di tempo fa, La città che dimenticò di respirare, di Kenneth J. Harvey, dove l’intervento dell’uomo sulla natura (se non ricordo male, la colpa era dei cavi per le telecomunicazioni) mette in cortocircuito il mondo dei vivi e quello dei morti. Da ultimo penso a mio babbo, che non è uno scemo e non solo perché è mio babbo, ma perché è una persona con doti e sensibilità para-normali inaspettate (per dirne una, è telepatico e preveggente. In certi momenti “forti” della mia vita lui sa cosa mi succede, anche a distanza di km. E fa sogni strani e belli, ma questa è un’altra storia…).
Mi metto in ascolto attento. E l’amica infatti risponde e dice: “Sì, il Castellaccio è un posto strano. Lo era anche prima che ci mettessero i ripetitori. C’è passata tanta storia da lì, mio babbo che faceva il dottore mi raccontava che durante la guerra andava spesso ad aiutare i partigiani feriti che si rifugiavano nelle grotte lì sotto. C’è morta tanta gente, c’è passata tanta sofferenza. Magari c’è sparito anche qualcuno, ma chi lo sa? In quel periodo era difficile tenere la conta dei vivi e dei morti”. E poi aggiunge: “Quando ero più giovane mi piaceva andare in giro per quei posti, ma adesso non lo faccio più. Non è solo perché non ho più il fisico per quelle passeggiate, ma certi posti sono troppo ‘potenti’ per me e non riesco più ad andarci. Uno è il Castellaccio di sicuro, e poi un altro è Ceparano”.
La discussione prosegue ancora per un po’ e mi stupisce, almeno per un motivo: Ceparano e il Castellaccio sono posti che fanno parte del mio panorama personale da sempre, ma mai ho sentito raccontare di cose strane o inquietanti legate a loro. L’unica leggenda che conosco è quella della Grotta delle Fate, che raccontano trovarsi sotto il monte del Castellaccio e dove le fate, prima di andarsene alla fine del loro tempo su questa terra, avrebbero lasciato i telai con cui filavano l’oro. Bella leggenda, sicuramente ispirata a tutte quelle cavità che ti citavo prima e che bucherellano lo “spungone”, cavità che sono naturali ma utilizzate dall’uomo fin da tempi davvero remoti. Però a parte questo niente.
Un silenzio che in quel momento, però, mi intriga più di mille discorsi. Perché comunque, mi viene da riflettere, è un po’ atipico soprattutto se pensi che in Italia dovunque ti giri e trovi due sassi, ci trovi anche dietro un pullulare di racconti e di leggende. Lì c’è il silenzio, nonostante siano due mete classiche per generazioni di adolescenti un po’ avventurosi. I miei genitori ci si sono fidanzati, a Ceparano, credo 150 anni fa. Ho anche le foto… Quella è la prima volta in 35 anni che ne sento parlare con toni così, un po’ misteriosi.
Il giorno successivo arriva mio fratello a pranzo dai miei e con lui arriva la seconda coincidenza. Mio fratello è un tipo di poche parole, uomo tutto di un pezzo, votato alla politica (nonostante la giovane età), con una mente granitica e tutt’altro che facile alla suggestione. Anzi. Bene, il fratello arriva, si siede a tavola, si riempie il piatto di salsiccia e salta su dicendo: “Oh, mentre venivo su in macchina ho visto un UFO”.
Mia mamma si gira e gli chiede: “Sei ubriaco? Non dire boiate, al massimo avrai visto un fagiano nel campo dei vicini”. Intervengo prima che il discorso degeneri e gli chiedo anch’io: “Ma dove l’hai visto?”. E lui mi risponde: “E’ passato sopra a Ceparano”. Cerco di estorcergli qualche dettaglio in più, ma è inutile. Non ha capito che cosa fosse, è passato sulla torre, c’è stato sopra un po’ e poi è sparito. Nel frattempo lui guidava e quindi non poteva distrarsi. Fine del racconto.
Chiaro che questa cosa mi mette del pepe addosso.
Purtroppo la vacanza è finita, ma io sono contenta perché in zona Cesarini ho ottenuto quel che desideravo. Qualcosa cui pensare. Roba da scemi, tenuto conto che alla fine non ho avuto molto di più di qualche chiacchiera strana, però mi godo l’elettricità statica di quel pensiero e pianifico il mio ritorno in zona. Che avviene una settimana dopo, per l’ultimo week-end campagnolo prima dell’inizio della scuola. E’ settembre ormai, però la luce non è ancora cambiata. La domenica mattina tiro giù dal letto il marito e il fratello e me li carico (un po’ rincoglioniti) in macchina verso la torre.
Lungo il sentiero e nel bosco intorno ai ruderi della torre c’è un gran silenzio. Non si sente il verso di un uccello. Niente. Mi torna subito in mente una gita fatta lassù quando andavo alle scuole medie: allora era novembre e c’era la nebbia a rendere tutto inconsistente, a farti pensare di aver imboccato un sentiero segreto col dubbio di non riuscire più a ritrovare la strada di casa. Più di vent’anni dopo e alla fine dell’estate la sensazione rimane la stessa; anche senza nebbia il senso di solitudine che emana quel pezzo di collina nascosto fra la vegetazione è palpabile, ma allo stesso tempo ti tiene a distanza, ti distrae, ti costringe a spostare lo sguardo sempre da qualche altra parte.
Appena ti avvicini per terra cominciano a spuntare pezzi di “spungone” di tutte le dimensioni. Uno su cinque di quelli che raccogli contiene di sicuro un fossile. Possono essere semplici conchiglie, ma qualcuno più fortunato qualche anno fa ha trovato anche un grosso pesce, incredibilmente sconosciuto e sfuggito alle classificazioni fatte fino a quel momento.
Mentre siamo lassù mi succedono due cose. La prima quando entriamo dentro a quel che rimane della torre. E’ uno spazio non tanto grande, circolare, con un diametro di circa 5-6 metri. Al centro ci sta un buco largo e profondo dove il pavimento ha ceduto per lasciare scoperto l’ambiente sottostante dove un tempo esisteva una cisterna. Di fronte all’ingresso, dall’altra parte del buco, si vedono ancora i resti della scala che saliva al piano superiore che ora è crollato; a fianco della scala ecco un’altra apertura che scende fin sotto terra e che arrivava a un secondo pozzo. Tra l’ingresso e la scala un vecchio forno per il pane. Girando lungo il muro per evitare di cascare nella cisterna mi metto a guardare per bene i sassi della muratura e scopro due cose forse già viste e mai archiviate (ma le avevo viste nelle mie visite precedenti? Ci penso e non so rispondermi con certezza), ovvero due incisioni che mi colpiscono. La prima è vicina al forno e sembra raffigurare un sole (o è la Terra?) e una falce di luna che si toccano. La seconda sta nel muro accanto alla scala e alla strombatura del pozzo ed è meno facile da interpretare… ma qui arriva l’ennesima coincidenza. Perché io la guardo e penso “E’ un’onda” e all’improvviso realizzo un concetto inquietante. Ti ho detto che faccio anch’io i sogni della Grande Onda. Non sogno solo quella. Un altro sogno “catastrofico” e simbolico che faccio sempre quando sono qui è quello di una grande luna che in un cielo nero come la pece si avvicina precipitando verso la terra. In questi sogni io mi trovo sempre nel giardino della casa dei miei genitori, davanti all’ingresso, sul prato dove ho passato anche l’estate e in entrambi i sogni l’Onda e la Luna arrivano da sopra la torre di Ceparano. In entrambi i sogni, sempre, io guardo lo spettacolo terribile che si avvicina e a un certo punto entro in casa. Sento che fuori sta succedendo qualcosa di enorme, ma io dentro mi trovo al sicuro. Sempre. E mi sveglio, e sono capace di sognare spesso quello che rimane “dopo” questi eventi. Di solito scenari in cui il mio panorama familiare rimane più o meno lo stesso ma diventa “diverso” e io mi aggiro nei posti che conosco con la sensazione che si sia aperta una porta che ha fatto entrare qualcosa e qualcuno che prima stava lì fuori. E scopro strade perdute, sentieri nascosti, cose che c’erano prima e che sono tornate a sovrapporsi al mio presente.
Ti risparmio la quantità di pensieri che mi si sono affollati in testa in quel momento. Di sicuro ho continuato a fantasticare su chi potesse aver fatto quei due disegni. Altrettanto sicuro è che, se fossi stata da sola, avrei avuto un momento di cedimento mica da poco, ma siccome mi ero portata le guardie svizzere ho abbozzato indifferenza e sono riuscita a far finta di niente.
Quando siamo usciti, mio marito e mio fratello sono andati in giro per il bosco verso l’altro versante per vedere il Castellaccio. Io mi sono fermata nelle vicinanze della torre a raccogliere sassi e a mettere a posto i pensieri. Ed è successa l’ultima cosa strana. Mentre ero china accanto a un cespuglio e vicino all’ennesima enorme buca che si apre nel terreno all’esterno della costruzione (è davvero un termitaio gigantesco quella collina) sono stata distratta da un ronzio. Prima leggero e poi man mano più intenso. Ho agitato una mano sopra la testa pensando che fosse uno sciame di insetti: mosche, moscerini, ma siccome il ronzio accennava ad allontanarsi, ho tirato su la testa. E non ho visto niente. Non c’erano insetti. Non si sentivano uccelli. Solo questo ronzio che è durato altri 5-10 secondi e poi è finito, lasciando di nuovo spazio ai suoni del vento tra i rami e degli animaletti nella boscaglia.
Quando sono tornati gli uomini non ho chiesto niente. Se avessero sentito qualcosa di strano me l’avrebbero detto e io non volevo fare la figura della paranoide. Siamo rimasti altri dieci minuti a riempirci le tasche di conchiglie fossili per le bambine e poi siamo rientrati alla base.
Da quando siamo stati là ho pensato che avrei voluto scrivertene e non ho mai trovato il tempo. Sono passate le settimane e poi i mesi. Quando finalmente sono riuscita a decidermi e mi sono seduta al computer abdicando dalle mie intenzioni amanuensi, ho dato un’occhiata su Facebook e ho trovato quella che penso sia l’ultima, geniale coincidenza di tutta la storia. Tra i miei contatti ho un cugino di secondo grado che si chiama Emanuele e si diletta di fotografia. Spesso va in giro di notte per le nostre colline e fotografa il cielo e il panorama notturno delle luci delle città in pianura. Una delle sue ultime escursioni è avvenuta durante una notte di tempesta proprio sulla pianura, perché voleva sperimentare la macchina fotografando i lampi all’orizzonte su Ravenna e Forlì. Bene, mentre fotografava, si è accorto che in cielo si accendevano e si spegnevano ogni tanto, sempre sulla stessa zona, delle piccole luci, a piccoli gruppi variabili. E’ riuscito a fotografare anche quelle e assemblando 6o scatti in una sola immagine ha immortalato tutto il gruppo totale… ed è una foto veramente incredibile. Perché è davvero un piccolo sciame che si staglia sullo sfondo del cielo in tempesta. Non sono luci di città perché stanno sopra la pianura, non sono luci di aerei perché non si muovono oltre lo spazio in cui sono state immortalate. Ma soprattutto stanno sul cielo della pianura sulla quale dominano la nostra torre e il nostro Castellaccio. Forse mio fratello non aveva visto il proverbiale fagiano…
(Ti allego anche la foto delle luci, così insieme al mio reportage della gita avrai tutto il quadro del delitto…)
Ecco. Forse ho finito. Oggi è una giornata bellissima, sembra quasi primavera, è caldo e il vento ha spazzato via la nebbia lasciando un cielo dal blu totale e tutti i colori dell’inverno nel loro splendore. Prima, uscendo, ho guardato Ceparano e ho pensato alla Schiena del Drago. Se si guarda il profilo della collina partendo da sinistra e lasci partire la fantasia, allora ci vedrai un lungo lucertolone addormentato che porta proprio in cima alla testa la torre, come se fosse una corona
Un abbraccio, nella speranza di non averti annientato di noia.

Questa qui sotto è la foto della luci nella tempesta.

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Ed ecco le foto dei due “disegni” sui sassi della torre.

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