di Dziga Cacace

Cantami di questo tempo,
l’astio e il malcontento di chi vive sottovento

Ottocento, Fabrizio De André

ddv4300.jpg427 — Mai morti di Renato Sarti, Italia 2002

L’invito di Fabrizio e Francesca è pressante: questo è da vedere, dicono. Okay, obbedisco. Ora: per me il teatro è come Mozart, è morto. O sono io morto per il teatro, fate voi; fatto sta che ormai evito di andarci, dopo che ho visto cose di Antonio Sixty, dei Motus e pure — in certa misura — anche di Pippo Delbono che mi hanno lasciato impietrito in platea a chiedermi se non fossi vittima di un clamoroso scherzo. Ma questa è una cosa diversa: nessuna sperimentazione, bensì teatro civile, in uno spettacolo ormai in giro da due anni, non senza problemi. Il testo, dello stesso regista, è l’allucinante racconto di un reduce della Xª MAS, quella che ogni tanto viene fuori che erano un manipolo di eroi incompresi, che in fondo hanno difeso l’onore perduto della patria e bla bla e altre ciance. Poi finisce che gli dedicano riabilitazioni, vie e monumenti. A loro, non ai martiri di Cefalonia, dimenticandosi che questi avevano scelto Hitler per la seconda volta su due. Ma vaffanculo, va’. Vabbeh. Il protagonista è un fascista, orgoglioso di esserlo, per nulla pentito, e il suo racconto è una confessione che diventa denuncia per lo spettatore. Sui contenuti non si può dir nulla, semmai è ammirevole il lavoro di documentazione e lo sforzo immane — in quest’Italietta di merda — di tenere viva la memoria di cosa fece il regime fascista in vent’anni di dittatura, un regime per nulla blando e che non si limitava a mandare gli oppositori in vacanza come ha recentemente dichiarato il nanetto intellettuale che ci rappresenta nel mondo.



Morti a migliaia, centinaia di migliaia, tra africani conquistati, avversari politici e partigiani. Torture atroci e violenze infami nel culto della morte, inseguendo un ideale tanto vacuo quanto perseguito in modo sanguinario. Il testo non pare sempre lucido e consequenziale (si passa da Pinelli e Piazza Fontana alla guerra d’Africa, alla lotta partigiana, alla Genova del G8), ma tira il filo nero che unisce tutti questi avvenimenti. E se Bebo Storti talvolta incespica nel testo per passionalità è perché gli si leggono in faccia e in corpo la fatica che gli costa ogni sera ricordarci da dove veniamo. Avrebbe potuto continuare a interpretare il Conte Uguccione in tivù (ed era grandissimo anche lì!) e invece ha fatto una scelta nobile e coraggiosa. Pubblico ipnotizzato, applausi liberatori: andrebbe fatto vedere agli studenti di ogni età. E anche a molti adulti ignoranti, visto che l’onorevole Fini abiura solo oggi (il ragazzo non ha neanche la reattività di una rana galvanica, direi). Visto in una sala che durante la Resistenza fu carcere e luogo di tortura e morte per molti partigiani. (Piccolo Teatro, Milano; 22/11/03)

ddv4302.jpeg428 — 28 Days Later di Danny Boyle, Gran Bretagna 2002

Londra deserta. L’Inghilterra vuota, senza un inglese. Praticamente l’isola più bella del mondo. A meno che non ti svegli da un’operazione chirurgica e ti trovi così, senza nessuno che ti racconti cosa stia succedendo: non è carino ritrovarsi l’ultimo uomo sulla terra. Anzi, se qualcosa si muove, è sicuramente pericoloso, ed è un non-morto. Il protagonista trova qualche superstite vivo-vivo ma mal gliene incoglie quando crede che i militari — ultima vestigia dell’autorità — siano la salvezza, perché ora deve difendere se stesso e le sue donne (con cui garantire un futuro alla specie). E di fronte a soldati ottusi e bastardi, il protagonista diventa cattivo come l’aglio. Un aereo (che dovrebbe essere finlandese) (!) ci dà ancora una speranza: parleremo tutti ugrofinnico! Ottimo filmetto di (presunto) genere col quale Boyle, dopo plurime cazzate, si redime ai miei occhi stanchi e col quale dice molte più cose di tanti tronfi film d’autore che si concentrano sull’ombelico dell’autore. Ci sono idee sparse qua e là e il gioco di assonanze coi sacri testi che hanno già trattato l’argomento non scoccia, anzi: l’antropofagismo è ancora una volta la suprema evidenza del desiderio. 28 giorni dopo è teso, senza cali di ritmo e ci ricorda che gli zombie hanno le stesse nostre esigenze primarie (cibo e sesso), perché in fondo gli zombie siamo noi, già noi. Bello il sogno finale col gioco di parole hell/hello. Ottimo uso del digitale: grana ed effetto cromatico stupiscono per originalità. Bravo, Boyle, bravo. (Dvd; 25/11/03)

ddv4303.jpg429 — Dogville di Lars von Trier, Danimarca 2003

Dio è cattivo? No, l’uomo — a sua immagine e somiglianza, ‘na stampa e ‘na figura — è cattivo. E siccome Dio vede e provvede, lo punisce. Von Trier va di metafora, ma non perde un colpo: l’America, terra vergine, giovane e innocente, saprà accogliere la figlia del Boss, in fuga per cercare di redimere l’umanità dal male? Mica tanto: homo homini canis e l’angelica Nicole Kidman subisce la grettezza di una società utilitaristica, spietata ed egoista. Vendetta, tremenda vendetta! Siccome è una tragedia greca, Dio è il Boss (il vero deus ex machina, tanto che arriva in Cadillac) e quando viene a fare giustizia son cazzi amari per tutti. Intellettuale compreso (esecuzione con rivoltellata in testa, per la “nona categoria puzzolente”). La messa in scena è magica e se uno te lo dice prima, non gli credi: è tutto ambientato in uno studio scarno, dove le pareti sono trasparenti e delle porte senti solo il cigolio. Il cielo è un grande ciclorama illuminato secondo le ore del giorno. Le strade sono segnate per terra col gesso, come in un gioco di bimbi. Beh, dopo 4 minuti di stordimento e incredulità, accetti l’allestimento e ti sembra tutto naturalissimo. Il villaggio come metafora del mondo e gli Stati Uniti come specchio della bestialità capitalistica mondiale: quello che non cambia sono gli immutabili sentimenti dell’uomo. Lars parte dal teatro (classico) e gioca col cinema (il sonoro, i trasparenti): provoca a tutto campo e riesce, con ironia ma anche con fermezza, ad andare a segno per l’ennesima volta, fino ai semplicissimi e clamorosi titoli di coda, con Bowie che canta Young Americans su foto della Grande Depressione, così, per non sbagliarci. Il cinema Ducale, al solito, ci mette del suo accendendo le luci appena partono i titoli di coda: anche se non è il più diretto responsabile, assieme ad altri spettatori ce la prendiamo con la maschera che invita a liberare la sala. Siccome reagisce maleducatamente si becca una caterva d’insulti e se li merita proprio perché due giorni dopo lo becco nel negozio di dischi Buscemi mentre si compra l’ultimo album di Venditti (un greatest hits orchestrale, argh! Come la cicuta corretta col selz e l’olivella!). Tornando a Dogville: capolavoro beffardo, geniale, azzeccato e provocatorio, ma con un’intelligenza che ha pochi eguali. E se poi non lo capite, oh, mi dispiace per voi. (Cinema Ducale, Milano; 7/12/03)

ddv4304.jpg430 — Il vedovo di Dino Risi, Italia 1959

Ritratto di un’Italietta tutta chiacchiere dove c’è una lei (Franca Valeri) miliardaria stronza e petulante ai cui soldi attenta un marito sfigato (Alberto Sordi), megalomane e imbecille. L’ipocrisia borghese rappresentata con fastidiosa puntualità, al punto che mi chiedo: per chi dovrei tenere, io? Perché, scusate, ma io al cine devo fare il tifo, eh. Comunque: il ritratto acido di ciò che eravamo ancora senza saperlo e di cosa saremmo diventati ancor più, c’è ed è il vero a punto a favore del film, che però ci dice che certo cinismo professionale era anche nell’occhio di chi osservava e raccontava, non troppo diverso da quello messo alla berlina. Dal punto di vista del divertimento (perché Il vedovo nasce evidentemente come commedia intelligente) i tempi sono scoordinati, le battute scarseggiano come le situazioni comiche portate a compimento e la trama è telefonata in maniera veramente ingenua. Le stesse caricature dei due protagonisti non sono particolarmente geniali nella loro monodimensionalità. Chi vi dice il contrario, cioè quasi tutta la critica ufficiale, non rivede il film da allora o ha un sense of humour atrofizzato. Film bruttino e più arguto nelle aspirazioni che negli esiti, mi ha rovinato definitivamente la reputazione con Barbara che adesso mi chiama “cretinetti” con buoni motivi (l’ho costretta alla visione magnificando le virtù del film e portando decine di pezze d’appoggio dai vari dizionari cinematografici). L’inquadratura della torre Velasca con cui si apre il film è l’unico brivido estetico che provo. Peccato. Ah: il 3 dicembre è morto David Hemmings, grandissimo protagonista di due film che amo incondizionatamente, Blow Up e Profondo rosso. Vivrà nella mia cineteca. (Dvd; 9/12/03)

ddv4305.jpgDoctor Cacace, I suppose
Tanzania Tour — 14/28 dicembre 2003

Barbara ci ha messo un po’ a convincermi, quasi 5 minuti: i parchi in Tanzania, i safari e un po’ di mare a Zanzibar. Dài, facciamo ‘sta follia: andiamo da Ilan nella sua agenzia di viaggi hippie e in mezz’ora compulsiamo cataloghi, decidiamo i lodge e abbiamo in mano biglietti e programma e dio ce la mandi buona. Voliamo tranquilli e durante il viaggio vedo distrattamente alcune scene di Charlie’s Angels 2, senza audio. È un tripudio di effettacci, orchestrati con montaggio ipercinetico. La Barrymore è la bimba di Poltergeist pneumatizzata, Lucy Liu ha puro valore commerciale (ci si rispecchia una grossa comunità), Cameron Diaz è semplicemente simpatica. E poi ci sono Demi Moore, John Cleese e Matt LeBlanc, il Joey di Friends. Mi sembra una stronzata oltre ogni dire. Barbara se lo sorbisce tutto e mi dice che è divertente. Non le credo. Dopo aver sorvolato un Sudan desertico, roccioso e bruno atterriamo in Kenya, che visto dall’alto è invece morbido, solare e verde. Da lì all’aeroporto del Kilimanjaro con un areoplanino da 14 posti. Barbara inorridisce e viaggia con gli occhi chiusi. Il monte Kilimanjaro è assediato dalle nubi, ma dall’alto si vede la cima ed è bellissimo. L’Africa sembra immensa, ricca, disabitata, felice, giovane, esuberante. Il nostro uomo, Sway, ci porta ad Arusha. La nostra donna è Iris, di origine indiana, che ci ha venduto il pacchetto safari: è subito evidente come funzionano i rapporti economici e di forza, l’imprenditoria è in mano agli indiani, la manodopera è locale. Iris ci dice che le dispiace perché il programma è diverso da quello preannunciato e i lodge non sono quelli da catalogo, ma — ci assicura — migliori. Questa cosa l’ho già sentita, credo a Mi manda RaiTre. Ma vogliamo fidarci. Arusha è bruttina, un paesone incasinato dove sei stordito da odori e colori intensissimi. C’è una deliziosa biblioteca all’aperto, con ragazzi e ragazze in divisa scolastica, sdraiati sul prato. I locali sono affabili, grande eleganza e bellezza, con davanti il futuro ma senza alcuna fretta di sbranarselo. Sono pacifici, e vengono sfruttati. Poi ogni tanto ne capita uno aggressivo e si chiama Idi Amin Dada. Vabbeh.
Da Arusha andiamo al Seronera Lodge (bellissimo, opera di un architetto israeliano), passando attraverso il parco di Ngoro Ngoro. Avremmo dovuto condividere la Land Rover zebrata con un’altra coppia, tedesca, ma imprevisti vari ci han lasciati soli. Ed è un vantaggio non da poco avere il tettuccio aperto tutto per noi. Vediamo tutti gli animali del creato ed è incredibile, veramente. Ci sono pure i Masai: tristi, nobili e soli nelle pianure sterminate. Pascolano le bestie sotto un sole punitivo, immobili. Che cosa penseranno? (Questo: “ Ma che cazzo hanno da guardare tutti ‘sti imbecilli di occidentali?”). Il giro per il Serengeti National Park prosegue per tre giorni e mai avrei pensato di emozionarmi osservando col teleobbiettivo un licaone o un’orrenda iena (fanno schifo, sul serio). Non ci facciamo mancare nulla e l’ultimo giorno sveglia terrificante alle 5.30 per l’Allimony Safari, cioè: rompere le palle a un branco di leonesse a caccia (con iene e avvoltoi in attesa delle carcasse delle prede).
Dopo il Seronera visitiamo la spettacolare Olduvai Gorge dove sono stati ritrovati i più antichi manufatti e resti umani e poi entriamo nel cratere spento del Ngoro Ngoro, un’incredibile spianata di 16 km di diametro: il Wildlife Lodge è incredibile, sospeso nel vuoto. Mi sa che ci è andata benissimo, altro che pacco-vacanze. La ricerca di bestie da aggiungere alla stolida collezione fotografica prosegue e siam talmente contenti che — dopo aver rifiutato la visita al villaggio masai più finto della terra — cediamo al furbacchione Sway che ci porta a un laboratorio di artigianato locale dove provano a fregarci in maniera maldestra: le posate di legno che sono in vendita scontatissime a 15 dollari le trovi anche al mercato di Papiniano, a Milano, a 1 euro, giuro. Sway rimane molto deluso da questi europei taccagni.
Arriviamo nel bellissimo lodge del Lago Manyara, in mezzo a una foresta rigogliosa e piena di odori stordenti, e dove facciamo un ultimo bel safari, vedendo milioni di fenicotteri.
Tornati ad Arusha, visito la casa di Sway, nella shanty town ai margini della cittadina. Vive con la famiglia in una casetta dignitosa e quando gli lascio la mancia per poco non sviene e non so se sentirmi una merda perché son troppi soldi per lui in Africa o troppo pochi per quanti ne guadagno io in Europa e in ogni caso, troppi o troppo pochi, è sempre tutto sbagliato.
Voliamo poi su Zanzibar e infine sull’isola di Mafia con due aeroplani talmente piccoli che potrei metterli nella libreria di casa, a fianco del modellino dell’A7 Corsair II. Barbara viaggia terrorizzata. Il lodge di Mafia è bello e decadente e lo stanno ancora mettendo in ordine. Conosciamo tanta gente e diversi italiani, tra cui i gestori. Tremendi alcuni ospiti canadesi e soprattutto una famiglia di dugonghi americani che passano il loro tempo al bar, e non sulle spiagge, cibandosi di snacks e bibite gassate e leggendo libri di Danielle Steele. E non sanno cosa si perdono, perché al Mafia Lodge si mangia benissimo, bagnando tutto con deliziosa birra Kilimanjaro. L’isola è caruccia (è una riserva naturale). Barbara fa snorkeling, io leggo e ascolto Nice e PFM e passare natale al caldo è ben strano. I locali sono gentili, fanno una vita semplice, vivendo di pesce e frutta. Quando visitiamo il villaggio di Jibondo — poverissimo secondo i nostri standard — nessuno ci chiede niente o ci offre qualcosa per vendercelo. Prego per loro che non trovino mai petrolio da queste parti. Visitiamo anche la città fantasma di Kua, su un isolotto, dove pascolano e cacano parecchie bestie tra mura antichissime. Al ritorno dormiamo una notte a Dar Es Salaam, tranquilla e ordinata. Fin troppo.
All’aeroporto di Nairobi becco Rod Stewart che s’accompagna — tanto per cambiare — a una biondona da infarto. Non resisto e gli chiedo l’autografo ma non mi lascia attaccar bottone. Non sa cosa si perde, lo scozzese beone affranto dai ritardi. Sull’aereo di ritorno i nostri compagni italiani di viaggio mi fanno auspicare ancora una volta l’avvento di una dura (e duratura) dittatura. E scusate l’allitterazione: soffro già di mal d’Africa.

ddv4306.jpg431 — Deliverance di John Boorman, USA 1972

Dopo due settimane in Tanzania senza Internet, mail e telefono (fantastico, la vera vacanza) scopro che Berlusconi s’è fatto il lifting ma non è stato l’unico a perdere la faccia: il 14 dicembre gli americani hanno finalmente catturato l’astuto Saddam Hussein che — pensa tu che sagoma! — era nascosto in una buca nel giardino di casa. Poi c’è stato l’ennesimo pastrocchietto all’italiana per salvare Retequattro e non mandarla sul satellite. Si deciderà un’altra volta, magari con la sinistra al governo che casualmente dimenticherà di occuparsene. Comunque torniamo dal continente nero con molta voglia di cinema e la terrificante bellezza dei paesaggi africani potrebbe aver stimolato la visione di questo classico di John Boorman che da tempo volevamo rivedere. Il titolo italiano (Un tranquillo week end di paura, complimenti) possiede una venatura ironica che al film non appartiene proprio. Deliverance, cioè liberazione. Ritorno alla natura per purificarsi e vivere, per ultimi, l’incanto di una vallata remota (gioiosa come la val Brevenna) che sta per essere sacrificata al profitto, trasformata nel bacino di una diga. Racconto atroce che mette a confronto diverse bestialità: quella rurale, retaggio dell’incapacità di elevarsi in terre dove anche la chiesa arriva sul retro di un furgone, e quella urbana, nascosta sotto forme diverse, magari nella voglia di tornare a sensazioni primarie (il machismo bullo di Burt Reynolds) ritenendo di essere “civili” anestetizzati dalla società. Ma voglia di vendetta, ansia di sopravvivenza, fame e paura rendono anche il cittadino più irreprensibile un animale pronto a uccidere, per poi magari vivere in preda all’incubo (di essere scoperto di fronte alla società, non per il rimorso morale). Tra cretinismo delle valli, sodomie culturali (e non solo) e un banjo impazzito che duella con una più intellettuale chitarra acustica, si snoda una trama di una semplicità micidiale, ma densa di annotazioni: non si ha mai la sensazione di un film esile, anzi: corposo, soddisfacente, inquietante, non scontato. E noi ci perdiamo nello sguardo di John Voight, trascinato dagli eventi, incapace di comprenderli e governarli. Fotografia eccezionale (a parte un pedestre “effetto notte”), attori perfetti, dialoghi secchi: parlano le immagini. Bellissimo. (Dvd; 30/12/03)

ddv4307.jpg432 — Per un pugno di dollari di Sergio Leone, Italia/Spagna/Repubblica Federale Tedesca 1964

Per un pugno di dollari siamo in Iraq a fare i finti pacieri della situazione che abbiamo contribuito a creare: i poliziotti buoni a fianco di quelli cattivi, gli yankee. E il discorso di ieri sera del presidente Ciampi ha insistito con l’omaggio ai morti italiani di Nassiyria. I 1000 morti sul lavoro in Italia se li dimenticano sempre tutti, invece: dopo il ritorno dall’Africa faccio fatica a risentirmi a casa. Io ho fatto un capodanno tranquillo a casa dell’Ale, con Pier, Zook, Chicca, la piccola loquace Benedetta e un sacco di colesterolo, e ‘sto Ciampi tutto stropicciato e pavesato di bandiere, a mezzanotte era ad ascoltare l’inno nazionale in piazza. Prima ha parlato (lentamente) di fiducia nel futuro e poi ha straparlato (velocemente) di una ripresina economica prossima ventura, mentre la Parmalat affonda, trascinando con sé risparmiatori, creditori e soprattutto dipendenti e fornitori. Ragazzi: ‘sto baccalà alla livornese non ha senso dello spettacolo, de’! Sto seriamente rivalutando il versante ludico di quel birbante di Cossiga. Vabbeh. E del capolavoro di Sergio Leone cosa vi posso dire che già non sappiate? Niente, appunto. Ciao e buon anno. (Dvd; 1/1/04)

ddv43tris.jpg433 — Ricordati di me di Gabriele Muccino, Italia 2003

Film particolare. Nel senso che non mi è piaciuto, ma Muccino, forse non volendolo, dice cose interessanti. O le deduco io. Non importa: il film è negli occhi di chi lo vede. Dunque: Ricordati di me racconta della crisi di una famiglia borghese coi sensi addormentati. La giovane protagonista vuole diventare qualcuno grazie al piccolo schermo e i genitori non si capacitano di come la figlia possa aspirare a tanto (poco). Prima ci son stati i ragazzini irruenti di Come te nessuno mai, poi i trentenni insoddisfatti de L’ultimo bacio, adesso tocca ai genitori ultraquarantenni e il ritratto è come sempre movimentato e stavolta, francamente — terminato l’effetto novità e il credito concesso al regista —, mostra un po’ la corda. Molti hanno preso il film come un esplicito atto d’accusa alla tivù e in effetti, sfiorando spesso il caricaturale e abusando di luoghi comuni, Muccino ci sguazza. La televisione è lo specchio di tutti i mali della società: il concetto è semplice e condivisibile dal pubblico che la tivù la conosce (e pur odiandola la guarda). Apro parentesi: avendo frequentato diversi mondi professionali (politica, architettura, editoria e cinema) posso assicurare che perversione umana, ignoranza, appecoronamento intellettuale e ricatti morali e sessuali non sono un’esclusiva “prima” tivù, per niente. Chiusa parentesi. Bene: ma la televisione è solo lo specchio delle aspirazioni di una men che ventenne stronza, perché anche gli altri familiari sono disperanti: mediocri, egoisti, isterici, insoddisfatti. La continua domanda che risuona nel film è sempre: “Quanto valgo?”, accompagnata alla programmatica dichiarazione: “Vi dimostrerò quanto valgo più di voi”. Quanto sono feroci il ritratto di Bentivoglio che vorrebbe diventare scrittore o della Morante che pensa ancora a un suo futuro (o passato) da attrice, ritenendo che la loro mediocrità sia meglio di quella della figlia? Io non so se Muccino ci abbia messo dell’ironia, della consapevolezza o delle vendette personali, ma qui non si salva nessuno. I brani che Bentivoglio legge alla Bellucci sembrano la parodia di un pensoso romanzo autoriale. E non è forse crudele la serie di bozzetti dedicati al marginalissimo mondo del teatro? Il problema di Muccino è nella mano pesante e nella mancanza di sfumature: la tivù drogata e plagiatrice, le vallette puttane, il regista teatrale gay, il politicante forzitaliota e gli immancabili ragazzini di sinistra, tutto messo lì, senza i dubbi de L’ultimo bacio, ma con la certezza (mal riposta) di fare sociologia, di fornire un ritratto di questa italietta d’inizio millennio. Non c’è più il balbettio di Come te nessuno mai: qui si dà la lezioncina, si sputano sentenze con una fastidiosissima voce off da apologo morale che diventa subito moralistico (e da quale pulpito, Mucci’, e dài). Ne viene fuori un film esagerato dove anche gli attori sembrano abbandonati a loro stessi, a dialoghi urlati, molto scritti, poco spontanei. Bentivoglio è vitale come un divano di pelle su cui sia stato seduto un elefante. Al contrario la mal scopata Morante è fin troppo petulante, insicura e cazzosa. Meglio l’intrigante Nicoletta Romanoff (la protagonista Valentina), l’innocuo Muccino jr. e la Bellucci, piacevolmente morbidona. Detto tutto ciò, se Ricordati di me ha un vero pregio è nella cattiveria, quasi nell’acredine, con cui attacca l’istituzione italica per eccellenza, la famiglia. Se non è piaciuto (rispetto alle aspettative, è andato male al botteghino), non è per questioni squisitamente estetiche (e ce ne sarebbero eccome), ma proprio perché ha messo impietosamente in scena quell’intimità familiare in cui il pubblico borghese — che in un film come questo gioca a rispecchiarsi — s’è rivisto con orrore. (Dvd; 2/1/04)

ddv4308bis.jpg434 — Vodka Lemon di uno istigato dall’occidente, Italia/Francia/Svizzera/Armenia 2003

Uno approfitta delle vacanze natalizie per dedicarsi un po’ al vecchio cinematografo e questo è ciò che gli capita: un filmaccio, talmente nullo che a incazzarsi sembra di prendersela con un poverino (il mai sentito Hiner Saleem) che non può difendersi. La trama è più che esile: Kurdistan (allegria!), due vedovi uniscono le rispettive solitudini dopo diversi incontri al cimitero. Intorno a loro desolazione morale e del paesaggio, con nostalgie del passato sovietico tanto si sta male al presente. Film povero di mezzi ma soprattutto di sceneggiatura, di idee, di una storia da raccontare. C’è di buono che non cerca l’iperbole come certe recenti cazzate da esportazione (vedi l’irritante Luna Papa) né compiace la buona borghesia in cerca di brividi estetici esotici. Il problema è che Vodka Lemon non fa niente: annoia e si trascina per la canonica ora e quaranta senza regalare brividi di alcun tipo. Una bella menata di cazzo per la quale stramaledico le orde di ciarlatani che credono di lavorare facendo i critici cinematografici e che hanno subito gridato al miracolo minimalista, talmente minimale da risultare assolutamente invisibile a occhio nudo. Visto con pubblico tramortito dal film e da qualcuno che aveva mangiato aglio schietto (tanto poi la colpa la si dà agli immigrati, specialmente ai cingalesi. Ne incontro certi, la mattina, in metropolitana… farà bene all’ipertensione, l’aglio. Di sicuro non alla mia. Scusate, eh?, ma ogni tanto mi scappa. E comunque in sala non erano cingalesi, erano stramaledetti radical chic che mangiano la bagna cauda che fa tanto intellettuale in vena di recupero antropologico culinario. E poi la digerisce nell’ambito del lustro. Vabbeh, basta). Comunque proiezione dignitosa, con luci accese sui titoli di coda e solerti sgomberatori, ma non è una novità: circolare! Sciò! Non c’è nulla da guardare! (Cinema Centrale, Milano; 3/1/04)

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(Continua — 43)