di Danilo Arona

HIII.jpgUn personaggio leggendario del cinema americano (nove film che lo riguardano dal ’78 a oggi) concepito all’origine come funzionale macchina cinematografica per non dire “buccia vuota” e progressivamente arricchitosi di tracce, trame e sottotesti mitologici a tal punto che l’Europa potrebbe rivendicarne la paternità. Dietro una maschera che più “yankee” non si può (modellata sulle fattezze del Capitano Kirk di “Star Trek”), un mix di mitologemi direttamente “pescati” dagli archetipi del vecchio continente: il Samhain celtico, l’Orcus Latino, le Croquemitain francese, e la stessa festa di Halloween. La domanda è: ancora una volta il peccato originale è da attribuirsi ai Pilgrims che sbarcarono nel 1620 nelle Americhe, fondando il New England? Forse… Ma andiamo per ordine.

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Nove film, dicevamo, che lo riguardano, ma dieci con quello prossimo a uscire e diretto da Patrick Lussier. Non necessita qui elencarli. Invece è più utile rammentare che all’inizio, quando il primo film doveva essere uno solo senza alcun progetto di serialità, si progettò un one shot sul tema già più volte visitato dal cinema della babysitter versus night stalker, già presente in titoli quali L’allucinante notte di una baby sitter di Peter Collinson e Black Christmas — Un Natale rosso sangue di Bob Clark.

John Carpenter e la produttrice Debra Hill misero quindi in piedi un canovaccio con tanto di assassino psicopatico che fuggiva dal manicomio per tornare al paesello natio a uccidere un po’ di gente e lo intitolarono provvisoriamente, appunto, The Babysitters Murders. E con quel titolo si assicurarono l’appoggio dell’importante produttore e distributore Moustapha Akkad, un siriano naturalizzato americano che sul serial a venire (in quel momento neppure immaginato) avrebbe fondato la sua fortuna, almeno sino al momento della sua tragica morte avvenuta nel 2005 ad Amman durante un attentato di Al Qaeda all’Hotel Grand Hyatt.
Ma lo slasher, e con lui il realismo, era solo apparente. E di sicuro Carpenter aveva già ben chiaro in mente dove andare a parare. Geniali nel loro minimalismo la maschera e la “divisa” dell’assassino: una tuta da meccanico e una maschera bianca, forgiata sulle fattezze — quanto mai poco riconoscibili — del capitano Kirk di Star Trek (l’attore William Shatner). Una forza erculea, il mutismo perenne e l’impassibilità per effetto della maschera, la sorprendente (all’inizio) invulnerabilità. Un nome che “entrava” nell’orecchio, carpito al distributore inglese di Distretto 13, precedente film di Carpenter. La musichetta scampanellante, l’uso adrenalinico della soggettiva e della steadycam, la fotografia blue gothic di Dean Cundey… Ma non è delle peculiarità cinematografiche che dobbiamo parlare. Bensì del fatto di come Carpenter faccia deragliare in un crescendo esemplare la dimensione realistica (all’apparenza) del film. Dal dottor Loomis che declama in modo lugubre: “Lui non è un uomo. Dietro quegli occhi vive e cresce il Male”, una sorta di karma che tornerà ciclicamente almeno sino ad Halloween 6 quando Loomis — e con lui l’attore Donald Pleasence – non esce di scena: ai tentativi di definizione (o di non-definizione) da parte di Loomis e di Laurie Strode, una volta appurato che, per quanto gli spari, Michael — che è il Male — si rialza e scompare (per tornare, perché il Male non muore mai). Il finale aperto con Michael di nuovo a spasso per Haddonfield… Insomma, Carpenter trasforma quello che doveva essere uno slasher più o meno innocuo in un robusto contenitore mitologico, in verità più alluso che sostanziale. Ma proprio qui risiede la sua efficacia.
Il fatto è che un film di pura serie B costato poco più di 300.000 dollari ne incassa alla fine 47 milioni soltanto negli Stati Uniti. E almeno 20 all’estero. La logica del mercato impone il sequel, dal quale Carpenter intenderebbe defilarsi per un guazzabuglio di motivi che qui non ha importanza riportare perché si tratta soprattutto di cavilli e clausole contrattuali, ma soprattutto perché a Carpenter poco interessa, considerando conclusa la vita cinematografica di Michael Myers. Incastrati però da un team produttivo al quale si è aggiunto Dino De Laurentiis, Carpenter e Debra Hill mettono solo mano al soggetto e alla sceneggiatura lasciando l’onere della regia a Rick Rosenthal. Segnalazione che ha un suo perché: il budget del sequel di Halloween è di due milioni e mezzo di dollari a fonte di un incasso finale di 25. Siamo molto lontani dal rapporto qualità/ prezzo di Halloween la notte delle streghe
Ma veniamo a quel che ci riguarda. In Halloween 2 a un certo punto il dottor Loomis, con una spiegazione a dire il vero un po’ didascalica ma comunque necessaria nel contesto, scrive su una lavagna il nome “Samhain”, attribuendogli lo spirito omicida di Halloween ed esplicitando la componente magico/druidica che in qualche modo è incarnata da Myers, che è in questo modo viene ri-definito come un demone (da lì la sua natura immortale) che uccide ritualmente, spiegando che l’unico modo per sconfiggerlo dovrà essere il fuoco dell’antico rituale dei Druidi. Allora necessita ricordare che nella tradizione celtica la Festa del Samhain si celebrava proprio la notte del 31 ottobre in coincidenza con la festa dei morti. “Oidche Shamna” era in lingua druidica la veglia di Samhain, di cui esisteva una sanguinosa variante germanica detta Alfablot, durante la quale s’immolavano giovani ragazze agli Elfi. Ricacciate fuori dal passaggio al cristianesimo, le usanze di Halloween hanno resuscitato a livelli simbolici profondi i fantasmi delle vittime sacrificate, spettri che tornano in questa notte avidi di vendetta. E le stesse usanze hanno consolidato la fascinazione di un cruento paganesimo, identificato soprattutto negli Stati Uniti con il satanismo. Questo grumo compresso di riferimenti europei passa quindi a rendere ancora più ricca e significante l’iniziale “buccia vuota” di Myers, che proprio vuota non era, se pensiamo alle battute finali del primo film… Laurie, It was the Bogeyman?; Loomis: As a Matter of Fact, it was. E lo stesso finale di Halloween 2 con Myers che muore bruciato nel fuoco rituale andrebbe inteso nella radicalità del regista: con il demone che sul serio muore (e non metaforicamente), ponendo per sempre fino al ciclo (che nella mente di Carpenter è solo un dittico…).
Le cose, come sappiamo, non andranno così. Sollecitati ancora una volta dalla produzione che vuole a tutti i costi un Halloween 3, Carpenter e la Hill suggeriscono una strada parallela a quella iniziata con Myers, quella di dar spazio ai riferimenti celtici e druidici al di fuori del contenitore “umanoide” e da utilizzarsi in una vicenda imperniata su un gigantesco complotto magico/televisivo che tende a uccidere il maggior numero di ragazzini possibile proprio nella notte del 31 ottobre. Non è necessario richiamare qui la trama: invece è necessario sottolineare come l’Europa entri a gamba tesa per la presenza non accreditata allo script del grande Nigel Kneale (autore inglese della serie Quatermass), il quale corrobora la vicenda ancora con rituali sacrificali druidici e riferimenti specifici al Samhain europeo; ben oltre la metafora poi il fatto che alcuni bambini alla fine dovranno morire perché le maschere omicide che indosseranno a mezzanotte del 31 contengono pezzi delle pietre di Stonehenge…
Sembrerebbe così finire la saga di Halloween anche perché quest’episodio, pur rientrando ampiamente nelle spese, non ottiene lo sperato successo. Passano quindi sei anni e il produttore Moustapha Akkad, con il pretesto del decennale del primo Halloween, mette in cantiere un quarto, francamente “impossibile” episodio. E’ il riavvio di un trittico (dal 4 al 6) giustamente considerato “delirante” (basti pensare che proprio in Halloween 4 — Il ritorno di Michael Myers non si tiene per nulla conto del fatto che tanto Michael che Loomis morivano bruciati alla fine di Halloween 2 per presentarli di nuovo sulla scena un po’ malconci per qualche ustione qua e là…), ma, al di là di pregi o demeriti filmici nei quali non entriamo, si tratta dei film nei quali la sotterranea matrice europea del Bogeyman si trova a essere sempre più corroborata, quasi a rassicurare il pubblico: “Tranquilli, non è un mostro americano…”.
Allora, in Halloween 4, sostanzialmente un remake del primo senza più Laurie, compare per la prima volta la runa malefica Thorn tatuata sulla mano di Michael. In Halloween 5, inedito da noi, compare un misterioso uomo nero che nel successivo Halloween 6 — La maledizione di Michael Myers, si svelerà essere il capo della setta druidica che “accudisce” il mostro. Infatti qui scopriamo che Michael segue le tracce di un antico rituale europeo, secondo il quale nella ricorrenza del Samhain, ogni tribù celtica designava un Thorn, dal nome della runa e dal dio della pestilenza, destinato a sacrificare la famiglia per salvare il resto del clan. E’ in ragione di tale rito che Myers, investito nella terribile carica di “Thorn”, porta quindi avanti questa missione sacrificale nei confronti della sua famiglia e dei suoi discendenti secondo gli antichi dettami dei Druidi.
Qui noi, con l’individuazione degli elementi europei, possiamo chiudere. La saga andrà avanti con altri “riavvii” e ancora sta andando avanti. A questo punto tiriamo qualche filo rispetto alle varie tracce che abbiamo disseminato.

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Dicevamo, contenitore yankee, ma un bel mix di mitologemi pescati sull’altra faccia della Terra. Il fatto è che The Shape, ovvero Michael come viene apostrofato nei credit, è proprio così, una forma senza il contenuto, una forma che va riempita di riferimenti: un sacco di riferimenti. The Shape è una Forma della Cosa, la cui natura si definisce e si ridefinisce di volta in volta, trasformandosi in un perpetuo processo informativo. In Halloween del ’78 è in crescendo: un bambino guardone e omicida, un pazzo che fugge dal manicomio, un fantasma, uno zombie immortale, un emarginato autistico, una Cosa…
Gli archetipi della paura che concorrono al gioco sono tutti squisitamente europei. Orco, Babau, Uomo Nero, Troll, Croquemitain, già ben compresenti come tracce mitologiche “esportate” nella cultura dei Pilgrims che fondarono nel 1620 le prime colonie in quella vasta zona che si sarebbe appunto chiamata New England. Proprio da qui le madri americane avrebbero tratto gli spunti folclorici — resi poi immortali dai media – per spaventare i propri bambini “a scopi educativi” e impedire loro di fare azioni avventate e non alzarsi per girovagare durante la notte. La stessa parola Bogeyman deriva, probabilmente, dalla parola inglese Bogman usata per indicare uomini che, banditi dalle loro comunità, erano costretti a rifugiarsi nelle torbiere, territori paludosi non reclamati da nessuno, detti Bogs. Tali terreni, molto diffusi in Inghilterra, erano invece alquanto rari negli Stati Uniti, soprattutto nelle colonie originali, pertanto l’espressione cessò di avere reali riferimenti geografici e divenne poco applicabile (se non diretta a uomini “sporchi di torba”, comunque sporchi e minacciosi – un po’ l’equivalente dei nostrani e passati spazzacamini), e si deformò in Bogeyman.
Emblematica la vicenda storica di Giona Booger, servitore intorno alla fine del 1590 di tal William Brewster e che finì in clandestinità dalle parti di Cape Cod oltre vent’anni dopo. Considerato da tutta la comunità dei Pilgrims un menagramo e alleatosi in un primo momento con gli indiani, Booger pensò di contribuire alla causa dei nativi spargendo voci di apparizioni e spedizioni notturne da lui stesso organizzate, entrando nelle case come un ladro ed emettendo lugubri lamenti. Quindi espanse l’attività di spauracchio umano dandosi alla macchia e rapinando i viandanti che aggrediva nottetempo, saltando fuori dagli angoli più impensati con salti e urla spaventose. Tutto questo gli procurò una fama di soggetto quanto mai pericoloso e ancor di più porta-sfortuna. Madri e nonne iniziarono a raccontare le sue gesta, enfatizzandole sempre più e aggiungendovi particolari da favola, giusto per spaventare i bambini. Così, nell’arco di poco tempo, Giona Booger si trasformò per tutto il New England in The Bogey Man, alias l’Uomo Nero. Una notte, perseguitato e cacciato con identica acrimonia tanto dagli indiani che dai coloni, l’uomo, ormai del tutto svalvolato, si ritrovò in un campo coltivato a cocomeri e zucche e, pensando di entrare ancor più nella parte, svuotò una zucca e se la calò in testa. Quando giunse in zona una “posse” a cavallo, Giona saltò fuori con tanto di mascherone e i tipi, si narra, fuggirono in preda al terrore. Di lui si persero le tracce dopo che, accolto dalla tribù dei Wampanoag come il Dio-Dalla-Testa-Di-Zucca, si sentì dire che i nativi morissero quasi tutti per una epidemia emorragica scatenata dalle pessime condizioni igieniche del Boogey, che non si cambiava la zucca da settimane… Forse una forzatura di carattere “medico” per dare una giustificazione razionale all’incredibile alone di sfortuna che Giona Booger si portava appresso. Che venga anche da qui l’usanza del Pumpkin’Jack appeso alle porte? Comunque siano andate le cose, la patria dell’Uomo Nero sta qui, nel vecchio continente.

(Quest’articolo è un sunto dell’intervento presentato il 31 ottobre 2011 al Convegno di Dolceacqua, Imperia, “La notte dei mostri”, nell’ambito del Festival organizzato da Autunno Nero.)