Frammento tratto dall’ultimo romanzo di Lorenza Ghinelli, edito da Newton Compton, pagine 256, Euro 9,90.

Capitolo 4
Consanguinei (Primavera 1989)

images.jpegIl bagliore dei lampioni filtra appena dai fori della serranda. Macchie di luce sulla carta da parati azzurra, con macchinine rosse e palloncini gialli. Sono le dieci di sera. Sebastiano dorme nella culla di frassino. Ha un mese, cinque giorni e un sacco di capelli. La porta della stanza è socchiusa, sotto scivola una luce arancio, calda, che profuma di pizza.
In cucina ci sono mamma, papà ed Estefan. Sembra una di quelle scene girate in Super Otto con toni caldo seppia, leggermente sovraesposti.
«È buo-nis-si-ma!», proclama Estefan, con il sorriso pastrocchiato di pomodoro e liane di mozzarella fusa.
«Oggi a scuola hanno scomposto in sillabe», sorride mamma mentre papà mastica vorace.
Per Estefan è una serata splendida. Lui, mamma e papà. Mamma e papà che parlano di Estefan. Che esistono solo per lui. Mamma e papà in esclusiva. È contento che sia nato Sebastiano. Molto. Lo aveva chiesto a Babbo Natale tutti gli anni da quando ne aveva quattro. E alla fine era arrivato.

«Ci sarà stato qualche ritardo nella consegna delle lettere, come succede alle Poste», aveva commentato suo padre, e mamma aveva riso e pure Estefan, senza capire perché. Aveva pensato che alla fine i desideri si realizzano. Certo, era geloso di quel fagottino flautolente pieno di capelli e tutto strilli, però era bello non sentirsi figlio unico; in qualche modo, in serate come quella, sentiva di avere l’amore di mamma e papà in modo speciale, non abitudinario, in un modo che i figli unici non conoscono. Per questo amava la serata della pizza, una serata ormai istituzionale, un appuntamento settimanale imperdibile. Altre sere invece giocavano a Scarabeo, a Hotel, a Brivido. In sala giochi ci andava solo con papà ora che c’era Sebastiano, ma tanto mamma non aveva mai amato le sfide a biliardino, e i videogiochi di guerra li trovava orrendi.
L’unica fregatura erano le notti in bianco. Ma papà gli faceva l’occhiolino e mamma aveva gli occhi belli anche quando erano rossi e sotto le si disegnavano cerchi di pelle gonfia.
«Chi vuole finire la pizza?», domanda mamma.
«Io!». La mano di Estefan si alza.
«Io!». La forchetta di papà pure.
«Mettetevi d’accordo».
«Facciamo a metà», dice papà infilzando l’ultimo pezzo. Lo taglia in due parti
quasi uguali e mette la più grossa nel piatto del figlio. Per Estefan è normale, per Estefan è giusto; papà è il capobranco che sfama il suo cucciolo.
«E ora a nanna anche tu», sorride mamma.
Estefan si sente un gavettone nella pancia, anzi, uno di quei giubbotti salvagente che trovi sotto il sedile degli aerei, di quelli che tiri il gancio e si gonfiano di botto. Ha mangiato con la voracità di una locusta e ne è soddisfatto. Scivola giù dalla sedia e bacia papà.
«E speriamo che il tuo fratellino stanotte righi dritto e ci faccia digerire per bene».
Poi bacia mamma.
«Lavati i denti, prima».
Estefan annuisce. Mamma lo stringe a sé.
«A domani, amore»
Il sapore di dentifricio in bocca è un peccato, sfratta quello di pizza e secca le labbra; questo pensa Estefan mentre spinge piano la porta della sua stanza. Entra in punta di piedi. La luce arancione dipinge un quadrilatero sbilenco che circoscrive la culla, vede la sua ombra spezzarne il perimetro e mangiarsi il corpicino di Sebastiano. Estefan lo osserva con attenzione, lo ha sempre osservato con attenzione, la stessa che si potrebbe riservare a un alieno. Il fatto che il suo fratellino sia uscito da mamma, da quella parte di mamma che lui sa che esiste ma della quale non si parla mai, resta per Estefan uno dei più grandi e inspiegabili misteri della vita. Gli sfiora col dito la guancia morbida e calda, il viso di Sebastiano si stropiccia appena, non vuole essere disturbato, sta sognando, forse sogna le tette di mamma o forse le forme colorate del piccolo mondo che lo circonda, forme ancora senza nome e senza significato, cose che semplicemente esistono. Estefan ritira la mano, socchiude la porta e si infila nel letto. Rumore di stoviglie dalla cucina, la voce calda di papà in sottofondo e le risate di mamma. Il respiro di Sebastiano dalla culla. Un respiro che non è rigurgito, né colpo di tosse, un respiro articolato, pensa Estefan. “Articolato” è una parola che ha imparato tre giorni prima durante la lezione di grammatica. Ben collegato e sviluppato nelle sue parti, questo significa.
Estefan registra il suono nella sua mente.
Speriamo che non si svegli, pensa.
E si addormenta.

Le sveglie delle sette suonano simultaneamente nella stanza di Estefan e Sebastiano e in quella di mamma e papà. Estefan allunga la mano sul comodino e la mette a tacere, poi apre gli occhi. Ha proprio dormito, un sonno profondo e continuo come non gli succedeva da un mese e cinque giorni. Si alza dal letto e cammina rimbambito verso il bagno. In corridoio incontra papà, ha la faccia riposata come non gliela vedeva da un mese e cinque giorni.
«Stanotte abbiamo poltrito eh?».
Estefan sorride. Vede mamma uscire dalla sua stanza, sorridergli e biascicargli un buongiorno. La vede entrare nella cameretta.
Estefan batte papà sul tempo ed entra in bagno. La vescica che preme.
«Sebastiano…». È la voce di mamma.
Estefan si tira giù i calzoni del pigiama.
«Sebastiano, Sebastiano», le sente dire più forte.
«Cosa c’è?», dice papà. L’allarme nella voce.
«Sebastiano, ti prego!». È mamma che urla. L’uretra di Estefan si strozza e resta muta, il pavimento pelvico è cemento, il detrusore un paralitico.
«Rispondimi!». È ancora sua mamma, dev’essere sua mamma: non ne è più così sicuro. Perché la voce latra, un’ottava sopra l’urlo.
Estefan si tira su i calzoni ed esce dal bagno, d’istinto.
In corridoio mamma non c’è più, o meglio, Estefan la vede, gli sembra di vederla, ma non la trova. Al posto di mamma c’è un suo doppio storpio, una sua caricatura orrorifica, repellente, bestiale. In corridoio, ora, c’è Mamma. Con la M maiuscola. Maiuscola come Angoscia.
«Cos’è successo?! Cos’è successo a tuo fratello?!», grida Mamma con occhi di orsa inferocita. Ha dita contratte, Mamma, schiena curva e bocca incrinata. E la colonna vertebrale del sorriso spezzata in più punti. È una maschera, Mamma. È brutta. È arrabbiata.
Ha un dolore.
Se lo serra al petto.
Il dolore ha un nome: Sebastiano.
Sebastiano è morto.
Non gliel’ha detto nessuno che è morto. Lo ha capito da solo, come lo capiscono gli animali. Estefan ha visto mamma morire entrando nella stanza. E ha visto Mamma possedere il suo corpo e uscire, con suo fratello morto in braccio.
Ha visto morire l’infanzia, tutta la sua infanzia dentro agli occhi di Mamma. Non riesce ancora a pensare. Non riesce ancora a capire.
Sa che oggi è cambiato tutto per sempre.
E c’è qualcosa nella mente che inizia a strisciare.
Respiro articolato, è il cadavere di parole che affiora.
E come tutti i cadaveri puzza.
Speriamo che non si svegli, aveva pensato Estefan guardando Sebastiano la sera precedente, prima di addormentarsi. Questo pensiero è il secondo cadavere. Puzza più del primo.
Il cervello di Estefan salta oggi.
Bye bye Estefan.

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