di Franco Buffoni

[È appena uscito il “Laico alfabeto in salsa gay piccante” di Franco Buffoni per Transeuropa edizioni. Il libro tratta tematiche quali omosessualità, laicismo, ateismo e scienza ed è strutturato per voci alfabetiche. Proponiamo ai lettori di Carmilla la voce “identità”] A.P.

Cover_Buffoni_fronte.jpgIl termine “omosessuale” divenne d’uso corrente (pur se elitario) negli ultimi decenni dell’Ottocento in Francia, Nord Europa e Stati Uniti, paradossalmente precedendo la diffusione del termine eterosessuale. Proprio come avvenne per “romantico” nei confronti di “classico”: per definire la “norma”, occorre che prima si affermi ciò che la contrasta, che la interrompe. Prima si definisce la “deviazione”, poi – inevitabilmente – quella che era considerata la norma diventa un’opzione e deve anch’essa – per opposizione – essere definita.
Così, da allora, continuano a esserci i due generi, ma all’interno di ciascuno si è proceduto a una seriazione: genere maschile, specie omosessuale/eterosessuale; genere femminile, specie omosessuale/eterosessuale. Nel secolo che è seguito — pur con fatica — alcune menti lungimiranti hanno cercato di adattare a tale nuova distinzione anche i lessici medici, legali, letterari e psicologici. E’ quel processo che in parte viene registrato nella definizione di “politicamente corretto”.

Definire e definirsi è una necessità essenziale. Se una persona si dichiara omofoba o antiomofoba compie una distinzione incentrata sulla sessualità, mentre se si dichiara femminista o antifemminista compie una distinzione incentrata sul genere.
La conseguenza più drammatica della sovrapposizione del genere alla sessualità consiste nel dare per scontato il secondo in base al primo, dalla nascita. Quanti casi di pazzia e dunque di segregazione, di esclusione, di suicidio, in passato non furono che lo sbocco di sensibilità omosessuali oppresse, impossibilitate ad esprimersi? Foucault, al riguardo, ha scritto pagine importantissime. Un ambiente sociale che non ti prevede, già ti offende, figuriamoci se mai potrà difenderti.
Proprio nell’antica assenza della necessità di definirsi da parte del maschio eterosessuale sta il nocciolo della questione dell’identità. L’eterosessualità si definisce in grande misura attraverso ciò che rifiuta. Così come una società si definisce attraverso ciò che esclude. Ogni volta che un omosessuale fa il coming out, obbliga l’eterosessuale a definirsi come tale.
Paradossalmente è proprio attraverso un continuo processo di dis-identificazione che l’omosessuale giunge a costruirsi una propria identità omosessuale. Perché l’omosessualità maschile tradizionalmente si è manifestata – o occultata – secondo due stereotipi opposti: da un lato l’effeminatezza, dall’altro la virilità. Il modo di fare della “checca” era spesso l’unica valvola di sfogo per l’omosessuale sposato e con figli. Anzi, proprio grazie al matrimonio, al simulacro di famiglia eterosessuale che era riuscito a costruirsi, l’omosessuale si concedeva almeno modi e parlata liberi e sciolti.
Dall’altra parte la maschera della virilità, introiettata a esorcizzare il terrore di essere “scoperti”, a fare da contrappeso a una vita sessuale tanto intensa quanto clandestina, nel più esplicito disprezzo dell’effeminatezza. Costoro solitamente rifiutano ogni manifestazione di cultura omosessuale, non vogliono nemmeno sentire parlare di una possibilità di appartenenza. Se ne sentono totalmente estranei e – odiando e disprezzando se stessi – odiano e disprezzano chi – in qualche modo – associandosi si manifesta.
Fino ad oggi – in ogni istituzione – i figli, gli studenti, i soldati, gli scout, i ragazzi dell’oratorio… sono stati tutti cresciuti con l’unica opzione di divenire eterosessuali. E, nuovamente, è paradossale pensare a come l’orientamento omosessuale sia radicato, malgrado tutto. Eppure quello che menti malate – quelle sì davvero malate — vorrebbero, è che i gay non ci fossero. Non è ridicolo? E smettiamola di chiederci se la causa dell’omosessualità – come se fosse una malattia – sia genetica o culturale, o entrambe. Oppure cominciamo a chiedercelo anche per l’eterosessualità.
Ricordo una felice sintesi di Giovanni Dall’Orto: “Omosessuali non si nasce né si diventa. Omosessuali si è”. E’ la risposta lucida, pragmatica, fenomenologica da replicarsi alle posizioni essenzialistiche e idealistiche. Perché nel momento in cui ci si chiede se si “nasce” o si “diventa” omosessuali (o mancini) si sottintende che ci sia una “causa”: come per le patologie, per le malattie. Se si “è”, si smette di cercare “cause” e ci si limita – al più – alla descrizione dei fenomeni. Per esempio: come erano e come venivano vissute le sessualità nel secolo scorso e come sono e come vengono vissute oggi?

La specifica natura della sessualità umana – come ormai dovrebbe essere noto a tutti – va ben oltre la pura e semplice necessità di procreare. In altri termini, “sessualità” per uomini e donne anche eterosessuali significa qualcosa che sta ben aldilà della procreazione.
Dunque, concettualmente, esiste un’enorme distanza tra una distinzione di generi e una distinzione di sessualità. La distinzione di generi sarebbe fondamentale se scopo della sessualità fosse la procreazione. Poiché non è così, o almeno non è più così, allora è evidente che la distinzione tra i generi nel campo della sessualità è un assurdo anacronismo. Affettività, sessualità e procreazione vanno sempre più configurandosi anche in ambiti distinti e separati.
Per esempio: si dice comunemente che qualcuno ha una relazione eterosessuale o omosessuale; mentre non si dice mai che qualcuno ha una relazione eterosociale o eterorazziale. In questo secondo caso, per esempio, un gay che “va” col suo “genere” ma non con la sua classe sociale né con la sua razza, è più “etero” del suo vicino di casa, che ha sposato una sua seconda cugina ed esce raramente la sera.
In altri termini, oggi, oltre alle distinzioni di genere, razza, lingua, classe, nazionalità, occorre aggiungere l’orientamento sessuale. E se è vero che, senza il concetto di “genere”, non si potrebbe distinguere tra omosessualità e eterosessualità, è anche vero che in molte altre essenziali (per tutti: etero e omo) distinzioni, il genere è trasceso: quando badiamo all’età, al colore della pelle, alla cultura del potenziale partner.
Qual è la causa dell’omo – o dell’etero – sessualità in un individuo? Questa è la domanda che – almeno dal 1973 – non dovremmo più porci. Fu proprio nel 1973, infatti, che l’associazione americana di psichiatria derubricò l’omosessualità dall’elenco delle malattie. Da allora le cose cominciarono lentamente a cambiare per le nuove generazioni. Se è una malattia deve avere una causa. Se non lo è, smette di doverla avere. E se si ammette che un individuo su dieci è omosessuale o bisessuale, ad ogni nascita si dovrebbe sempre ritenere di avere 10 probabilità su 100 che il nuovo nato sia sessualmente orientato verso il proprio sesso. Parlare di scelta sessuale è ipocrita, vergognoso. Può essere valido solo in alcuni casi, di individui veramente bisessuali, che “scelgono”. L’omosessuale non sceglie proprio nulla.
Dunque, smettiamola di chiederci che cosa sia l’omosessualità e cominciamo a porci solo domande conoscitive, culturali, descrittive: come si manifestava nei tempi bui l’omosessualità? Come si manifesta oggi?

Persino peggiore dell’odio contro il gay – in quanto perturbante, fuori norma – da parte dei presunti etero, è – tradizionalmente – l’odio del gay per se stesso. Nasce dal non sentirsi previsto, e tanto meno amato, come omosessuale. Costui – condizionato dalla cultura eteropatriarcale in cui si è formato – ha introiettato talmente tanto odio verso se stesso negli anni della crescita da non rendersi nemmeno conto di essere il primo “odiatore” di se stesso. Lasciandosi come unico spazio quello di pensare e di parlare di se stesso al femminile. E denotando in tal modo la propria sudditanza all’eteropatriarcato, che al più è disposto a concedergli il ruolo del “femminiello”, della tapette, del molly, del hijra. Del travestito. Deve “travestirsi” e/o “scheccare” per tranquillizzare l’eteropatriarcato. (Si pensi al riguardo a chi sono gli “omosessuali” solitamente invitati nelle culturalmente arretrate reti televisive generaliste italiane: Malgioglio, Platinette…).
Valorizzare gli altri omosessuali – imparando a guardarli come persone con una storia alle spalle che merita considerazione, come la sua – è il primo sforzo che un gay moderno deve compiere per uscire dal senso di colpa e dal disprezzo verso se stesso. L’autostima comincia dal rispetto che egli impara a nutrire per gli altri. Per questo occorre promuovere lo studio della cultura gay.

Non è poco – se ci si riflette – chiedere di poter crescere senza sentirsi dei mostri. Che è ciò che è sempre accaduto agli omosessuali semplicemente perché le loro famiglie non li aspettavano. Non li aspettavano “così”. Quando si parla di discriminazioni, infatti, si solgono citare ebrei, neri, rom, omosessuali ecc. Pensate all’enorme differenza che passa tra un bambino che nasce ebreo tra ebrei, nero tra neri, rom tra rom, e un bambino gay che nasce in una famiglia eterosessuale. Il primo può subire insulti e discriminazioni nella vita sociale, a scuola tra i compagni, ma è fortemente corazzato e capace di difendersi, in quanto l’ambiente in cui è cresciuto e si è formato gli ha dato anche gli appropriati strumenti culturali per farlo. L’adolescente gay non ha nessuno; anzi, le persone che gli stanno più vicine – genitori, fratelli, cugini – sono i primi nemici da cui deve difendersi. Avete presenti certi padri…?
Un bambino di orientamento omo non è mai atteso, non è mai nemmeno seriamente ipotizzato. E’ sempre poi solo una sgradita sorpresa. Fondamentale è che d’ora in poi l’aspettativa di un figlio non dia per scontato in anticipo il suo orientamento sessuale. Perché, se per i famigliari la sorpresa è sgradita, per il bambino oggetto dello “sgradimento” – mentre goffamente tenta di assomigliare al bambino e all’adolescente che i famigliari si attendevano – la sorpresa si trasforma nella consapevolezza di essere una creatura sbagliata, appunto: mostruosa.
Quella dell’omosessuale può dunque definirsi come una doppia costruzione dell’io. Mentre come tutti cresce e si forma, l’omosessuale impara a mentire e dunque, all’interno della costruzione dovuta alla crescita, è costretto a porne in essere un’altra, intima, segreta: nemmeno alla madre, nemmeno ai fratelli, al prete, allo zio può svelarla. La sua infanzia e la sua adolescenza – segnate dall’autodisciplina alla menzogna – lo rendono anche estremamente accorto. Non può sbagliare: diverrebbe il bersaglio degli insulti e degli scherzi atroci del gruppo. Vede benissimo che cosa accade a quelli presi di mira: dicerie, pettegolezzi, insinuazioni, prese in giro esplicite, scherzi, scherzi atroci. L’autocontrollo dell’omosessuale a quindici-sedici anni di solito è già totale. Persino nel fingere di associarsi al gruppo dei persecutori, per non dare nell’occhio. L’omosessuale è solo fino a quando – se è fortunato e vive in un grande centro urbano – nell’adolescenza trova il gruppo di amici.
La conseguenza del doppio linguaggio che l’omosessuale è costretto ad apprendere durante la prima adolescenza – l’educazione alla menzogna – solitamente lo porta ad aborrire i comportamenti espliciti degli omosessuali dichiarati, gli atteggiamenti effeminati, i modi da checca. Vi è un fondamentale odio per se stessi “così”, e dunque per tutti gli altri che si dimostrino “così”. (Magistrali al riguardo le reazioni di Garcia Lorca appena giunto a New York, quando entra in contatto con gli omosessuali locali sfacciati e disinibiti. E pietose sono le lettere a mamma e papà, in cui descrive quanto sono affascinanti le fanciulle di New York, per far loro piacere: volevano che “guarisse”). La reazione dominante è di rifiuto: io non sono e non voglio essere così.
Dall’altro lato, e contemporaneamente, l’autocontrollo esercitato in modo così attento per tanti anni porta l’ex adolescente a sentirsi – e spesso proprio anche ad essere (se non soccombe) – intellettualmente e culturalmente superiore alla media dei coetanei.

Il coming out più arduo da compiere è quello coi famigliari. Non compierlo significa contribuire a perpetuare l’omertà, la dissimulazione, l’ipocrisia, le discriminazioni, gli “omocidi” consumati nella riservatezza. Torniamo a quel dato fondamentale: un cittadino su dieci è omosessuale; se non si parte ciascuno dai propri familiari, gli altri, tutti gli altri, continueranno a supporre che tutti si sia parte del 90 per cento cosiddetto etero o normale. Occorre che il costume cambi e che il dubbio esista sempre – anche in assenza di palesi dimostrazioni di effeminatezza o di lesbismo – che la nuova persona che incontriamo faccia parte di quel 10 per cento. E dunque il linguaggio di tutti si deve adeguare, divenendo politicamente corretto.
Il concetto che occorre diffondere è quello dell’esistenza di una cultura omosessuale. In paesi più avanzati del nostro, dove la maternità surrogata e l’adozione da parte di single e di coppie omogenitoriali sono legali, si sono già verificati casi di giovani di sesso maschile con orientamento eterosessuale, figli di coppie omoparentali gay. I quali a scuola vengono a contatto con giovani omosessuali figli di “normali” coppie eterosessuali. Il paradosso in questi casi è la cultura gay che permea inevitabilmente i primi, e il desiderio gay che invece invade i secondi. Vissute con intelligenza queste situazioni possono solo arricchire entrambi i soggetti e le loro famiglie.
Il focus critico della nostra riflessione ruota infatti attorno alla domanda: è possibile parlare della trasmissione di una identità culturale omosessuale? Solitamente si dice che la cultura, di qualsiasi tipo, si trasmette di padre in figlio. I gay, che per definizione sono sterili, sono stati tuttavia in grado di trasmettere – per filiazione culturale – una cultura e una identità gay. Ma chi si è effettivamente preso cura – in passato – del passaggio dei saperi da una generazione all’altra di omosessuali?
Quanto spreco! Quanti sforzi compiuti in segreto, ciascuno credendo di essere solo al mondo… Come osserva Flandrin, “c’è qualcosa di illogico nello scrutare con tanta attenzione il passato individuale delle persone sottoposte alla cura psicoanalitica, e tanto poco il loro passato collettivo. O almeno ciò che di esso sopravvive nella nostra cultura”. E poi non è vero che i gay siano sterili: in Italia, per esempio, ci sono milioni di individui figli e nipoti di persone (uomini e donne) omosessuali. Solo che si trattava di omosessuali velati, e dunque attentissimi a non trasmettere ai figli la cultura omosessuale che vivevano in clandestinità.
E’ palese che soltanto quando – nel Novecento – vengono superate le fasi della “inversione”, della pederastia e della sodomia, e si comincia a parlare di omosessualità provvista di uno stile di vita – di una cultura omosessuale – nel Nord Europa e in Nord America si cominci a non fare più caso al ruolo (che può essere intercambiabile) svolto durante l’atto sessuale, ma conti il genere delle persone coinvolte nell’atto o nell’affaire amoroso.
La storia non si eredita, si impara, la si costruisce. E questo, per gli omosessuali, significa risalire nel tempo fino agli arrusi siciliani, ai ricchioni napoletani, alle checche milanesi. Indietro, indietro attraverso i versi barocchi, i quadri del Rinascimento, il Brunetto dantesco, indietro a Orazio e Catullo, al cinedo della Grecia classica immortalato nella produzione vascolare, agli affreschi etruschi, ai bassorilievi persiani…
Purtroppo non si hanno le testimonianze degli operai gay, dei fattorini gay, ma solo degli scrittori gay: o almeno di quel poco che hanno lasciato: Gadda, per esempio, distrusse tutto ciò che riguardava la sua sfera privata; Palazzeschi, pure. Così si rimane senza le testimonianze del popolo perché non sa scrivere (a meno che non vada sotto processo, e allora sono visite mediche militari, referti da compulsare, verbali di polizia). E senza gran parte delle testimonianze degli scrittori, che decisero di “preservare” la propria immagine.
E’ poi abbastanza paradossale che sia solo sulle testimonianze letterarie degli intellettuali che si basi la storia di una cultura omosessuale, di una identità gay. Quando si sa che l’intellettuale è inevitabilmente portato a una visione soggettiva e individualistica. Certo, gli scrittori sono gli unici che hanno scritto. Eppure, quanta “intelligenza” omosessuale c’è sempre stata nel popolo… e nulla o ben poco è stato registrato.

Ricordo una famosa conversazione degli anni sessanta, riportata da John Osborne, con Noël Coward, allorché l’anziano commediografo chiese all’allora giovane Osborne “quanto sei gay?”, e Osborne senza scomporsi rispose “al trenta per cento”. Al che Coward replicò: “Io al novanta”. Credo che oggi in Italia il problema non sia principalmente rappresentato dai gay al novanta per cento, ma da quelli al trenta, che se ne guardano bene dal dichiararsi e dall’essere solidali con le sacrosante battaglie del movimento lgbt *, ma che alla sera frequentano certi viali di periferia.
Portiamo l’esempio recente dell’ex presidente della regione Lazio. Durante la sua vita pubblica non spese mai parola a favore di gay e trans, ignorò la battaglia per i Pacs e i Dico, se ne guardò bene dal combattere all’interno del suo partito le posizioni clericali. Sul suo sito si leggeva: “La famiglia è la mia vera grande passione. (…) Sono cattolico, cresciuto, come molti ragazzi della mia generazione, frequentando l’oratorio e la parrocchia di Santa Chiara”.
Una volta “scoperto”, parlò di “debolezze” e di “vergogna”. Mentre si può essere eletti presidenti di regione – come Vendola in Puglia – senza assolutamente fare mistero sulle proprie preferenze in campo sessuale.

Quella che occorre promuovere è una storia dell’omosessualità che comparatisticamente sappia prendere in esame aspetti di ordine giuridico, politico, istituzionale, letterario, culturale, medico… al fine non solo di rendere coscienti gli omosessuali del loro passato e della loro cultura, ma anche di risvegliare i bisessuali, di stanarli. E di costringere finalmente gli eterosessuali a definirsi.
Considerando che oggi, con le gestazioni di sostegno, chiunque può diventare padre o madre, prescindendo dal tipo di rapporto sessuale che privilegia, forse si può persino concordare – come avvio di una riflessione seria – sulla necessità del superamento della distinzione tra una eterosessualità più legata alla natura, e una omosessualità più legata alla cultura.
Gli studi transculturali e postcoloniali, come quelli sull’economia globale o sulla diaspora, aiutano a leggere il mondo e la storia in modo diverso, per esempio attraverso lo sguardo di chi è sempre stato in posizione subordinata, di chi è stato colonizzato. Questo è un primo sforzo che si deve compiere per educare i giovani a rispettare le diversità. Accogliendo veramente in sé gli immigrati – per esempio – la nostra società guadagnerebbe in comprensione di se stessa certamente più di quanto perderebbe in omogeneità…

“I am out, therefore I am”: l’ho visto scritto su una maglietta in giro per New York. Ho fatto il coming out, dunque sono. Una soggettività omoaffettiva profonda, convinta, dignitosa si costruisce solo attraverso molteplici intersezioni di identificazioni e differenze. Per esempio: non è affatto essenziale che vi sia la penetrazione perché un rapporto erotico-affettivo possa dirsi completo. E ancora: compiere atti omosessuali con una persona, o persino intrattenere con essa un rapporto omosessuale è una cosa; altra è ben diversa cosa è amarla, con conseguente condivisione dell’esistenza.
Ma occorre il riconoscimento pubblico, giuridico, della coppia omosessuale e per ottenere questi sacrosanti diritti occorrono molti coraggiosi coming out. Mentre il parlamento italiano, nell’ottobre 2009 non si è dimostrato disposto nemmeno a difendere i suoi cittadini fatti oggetto di violenza fisica. Con la bocciatura della proposta di legge Concia contro omofobia e transfobia, consumatasi intorno a una pregiudiziale di costituzionalità, è stata scritta un’altra pagina tristissima della nostra democrazia. Un parlamento sempre più delegittimato e distante dai problemi dei cittadini – un parlamento di nominati – ha deciso di tapparsi occhi e orecchie di fronte alla crescente violenza contro omosessuali e transessuali, riesumando il vergognoso paragone dell’omosessualità alla pedofilia, all’incesto e alla zoofilia.
Non stupisce che un Parlamento sostanzialmente omofobo, nel discutere tale proposta di legge, abbia parlato di “privilegi” e di legge “contro la libertà di pensiero”: ovviamente dei clericali e dei loro preti, che potrebbero divenire oggetto di sanzione per gli anatemi che pronunciano.
Mi limito al riguardo a ricordare la direttiva approvata dal parlamento europeo il 26 aprile 2007 che – riprendendo l’art. 13 del trattato di Amsterdam, disatteso dall’Italia – ribadisce l’invito agli stati membri “a proporre leggi che superino le discriminazioni subite da coppie dello stesso sesso”, condanna “i commenti discriminatori formulati da dirigenti politici e religiosi nei confronti degli omosessuali” e ufficializza la “Giornata internazionale contro l’omofobia”** il 17 maggio (che è il giorno del 1973 in cui l’omosessualità fu depennata dal manuale diagnostico dell’American Psychiatric Association).
Tornando alla bocciatura della proposta di legge Concia, quel che davvero risulta inaccettabile è l’utilizzo dello stratagemma della pregiudiziale di costituzionalità, che spinge sempre più ai margini della cittadinanza il 10% dei cittadini. Il Parlamento italiano si è fatto così sostanzialmente istigatore di violenza e di odio e porterà il peso della responsabilità dell’evidente imbarbarimento culturale di cui gli omosessuali sono vittime. Violenza fisica e violenza morale sono strettamente connesse: non si può pensare di condannare l’una e giustificare allo stesso tempo l’altra.
E’ importante anche fare chiarezza su un altro punto della proposta di legge respinta, concernente l’orientamento sessuale. Una legge che preveda aggravanti sulla base di questa motivazione non introdurrebbe elementi di discriminazione in base al soggetto che subisce violenza, ma in base al movente di chi commette il reato.
 È scandaloso che alcuni parlamentari e giornalisti (tra gli altri Buttiglione, Volontè, Storace, Renato Farina del Giornale) abbiano cercato di fare bieca speculazione su questo punto.
Nessuna discriminazione verrebbe introdotta ma una norma di responsabilità che, come già accade da anni per violenze motivate da odio razziale o religioso (legge Mancino, 1993), riconosca la realtà della violenza motivata da odio omofobo e transofobo. Una norma di civiltà elementare presente ormai nella legislazione di tutti gli stati moderni, avanzati e civili.

* Circa la sigla lgbt o glbt, è necessario chiarire che vi sono due spinte contrapposte in Italia oggi. La prima tende ad aggiungere anche Q e I, che stanno per Queer e Inter, cioè in transito: da maschio a femmina e da femmina a maschio. La seconda invece vorrebbe che – come nel mondo anglosassone – si parlasse di gay community e basta, per indicare tutti coloro che si collocano al di fuori del sistema eteropatriarcale (inclusi molti dalle preferenze sessuali etero).

** Il termine omofobia venne proposto da George Weinberg nel 1971 nello studio Society and the Healthy Homosexual (La società e l’omosessuale sano) in sostituzione del precedente – e più preciso – “omoerotofobia”, proposto da Wainwright Churchill quattro anni prima in Homosexual Behavior Among Males (Comportamento omosessuale tra maschi) e caduto subito in disuso.