di Dziga Cacace

Pochi minuti con me, tesoro, e urlerai in tutte le lingue di Babele.
Robert De Niro,
Cape Fear

ddv1401.jpg169 – Nonhosonno del catalettico Dario Argento, Italia 2000

“Non ho sonno”, forse Dario Argento. Perché io ho presto i coglioni come due mongolfiere e il sonno m’è venuto eccome, ho spento il videoregistratore, ho dormito un’ora e poi — facendomi gran violenza – mi son visto il finale di questa vaccata sesquipedale. Dunque: Argento torna al thriller che aveva fatto la sua fortuna all’inizio degli anni Settanta. Ci sarebbe da gioire, specialmente dopo la prima mezz’ora (che in realtà gioca molto con lo splatter), però poi il film soffoca, lo spettatore è incaprettato e la tensione scompare nel momento in cui dovrebbe diventare il motore della storia. Molti hanno protestato per le prestazioni attoriali e devo dire che in effetti capita raramente di trovare un cast a così alta percentuale canina, ma questo non è l’unico problema. Dunque: un serial killer torna a uccidere in una Torino misteriosa. Lo chiamavano “il Nano”, lo credevano morto, ma è chiaramente lui, brutto e cattivone, che firma una nuova serie di delitti, assassinando alcune ragazze che sembrano comparse prese a caso dal MiSex e che recitano di conseguenza.

Il buon vecchio Von Sydow – che seguì la prima indagine – rompe la monotonia della pensione e si mette sulle tracce dell’assassino assieme a Stefano Dionisi, che nel 1983 ebbe la madre uccisa a colpi di corno inglese (!). Si scopre che il rituale delle uccisioni segue una macabra filastrocca infantile e via di seguito fino al colpo di scena finale, per nulla convincente. Soprattutto non si capisce perché l’assassino vada a stuzzicare Dionisi, perché questi incontri il vecchio amore Chiara Caselli e perché, soprattutto, recitino tutti come se fossero sotto sedativi. Tutti inerti, imbambolati e incapaci anche di doppiarsi in maniera almeno approssimativa. Nella generale abulia svetta poi la motilità da insetto stecco di Roberto Zibetti. Ma magari ero io che avevo sonno, chissà. Bella fotografia e musica non memorabile dei Goblin. Alla scrittura ha collaborato Carlo Lucarelli, che piglia un “meno” nel mio personale tabellino. Ah: la filastrocca è opera di Asia Argento e, anche se la cosa viene annunciata nei titoli con una certa enfasi, è un’autentica fetenzia degna di una seienne bocciata all’asilo. (Vhs originale; 27/7/01)

170 – Il gladiatore del circense Ridley Scott, USA 2000

Dopo un mese di digiuno cinematografico e tre pacchi consecutivi, m’imbatto nel virile Il gladiatore, roboante filmone che in altri momenti avrei definito una solenne stronzata. Ben intesi: stronzata lo è, con questa romanità da baraccone e l’intreccio da fumettaccio, ma dovevo passare un pomeriggio con l’udito ovattato, la calura opprimente e il cervello in pappa per i miei trascorsi televisivi e alla fine le due ore e mezza della pellicola mi son passate senza patemi. E poi questo è spettacolo per le masse. Gli USA distribuiscono moderni panem et circenses e Il gladiatore rientra nel novero di vaccate che conquistano il mondo, volenti o nolenti. Però, secondo i crismi industriali hollywoodiani per cui tutto deve funzionare narrativamente e spettacolarmente, funziona sì, anche perché Ridley Scott non è per niente un cretino. Al massimo un pelandrone, oggi, ma sa cos’è l’impatto visivo. Qui troviamo di tutto: scene di guerra e di combattimento, tradimenti e rivincite, tragedie familiari e conflitti edipici. Con ritmo, bella fotografia, montaggio gggiovane (di Pietro Scalia) e attori decenti. Certo: la ricostruzione storica è esilarante, gli snodi narrativi scricchiolano (il protagonista si fa dalla Germania alla Spagna con un solo cavallo, senza cibo e senza incontrare nessuno in 4 secondi di narrazione cinematografica. Poi viene catturato dai mercanti di schiavi (?) e finisce in Marocco). E qualcuno mi spieghi il fascino di quel botolo ringhioso e sudato di Russell Crowe… boh. Okay: non è un film di Olmi, è un film d’intrattenimento, ma con una qualità visiva e molti agganci psicanalitici insospettabili, e fa il suo sporco lavoro. Discreto, via. (Vhs originale; 28/7/01)

ddv1402.jpg171 – La mummia dell’imbalsamato Karl Freund, USA 1932

La mummia ha 3700 anni e La mummia ne ha quasi 70. Chi li porta meglio? Devo dire che mi aspettavo uno di quei classiconi che ti lasciano a bocca aperta per intuizioni prima del tempo e invece sono rimasto un po’ così, di fronte a un film dal ritmo cadaverico. Freund, idolo per quell’Amore folle che m’ha deliziato tre anni fa, qui mi sembra troppo controllato. La fotografia ha alcuni momenti molto efficaci (e da Freund è lecito aspettarselo); molto meno incisivi sono la concertazione delle scene e soprattutto il montaggio, con una marea di attacchi sbagliati. Magari sono io cagacazzo, però credo che dia fastidio anche a livello inconscio, no? Messa in scena molto statica per una storia lineare, costruita su poche inquadrature e affidandosi al volto mostruoso e inquietante di Boris Karloff (…e pensa la moglie che gli dormiva a fianco). E per lui che è un’icona dell’horror ci sono altri sei volti ignoti del grande schermo che ti scivolano addosso senza lasciarti nulla. Ma parliamo della trama, va’. Innanzi tutto sfatiamo la diceria che vuole la mummia cattiva. La mummia è buona e innamorata, siamo noi che non la capiamo. Nell’antico Egitto Imhotep s’è visto l’amata morire precocemente. Ha provato a riportarla in vita con un sortilegio ma il faraone l’ha condannato a una sorte tremenda: sepolto vivo tutto bendato. Accanto a lui la formula che aveva provato a utilizzare per riportare i morti in vita. Quando nel 1920 viene trovata la curiosa mummia di Imhotep (senza che il corpo fosse imbalsamato), un archeologo frescone ha anche la bella idea di recitare la formula che dà la resurrezione e così Imhotep torna in vita vagamente incazzato. Passano gli anni e nel 1930 Imhotep dà le dritte agli avidi archeologi inglesi per trovare la tomba della amata principessa. Prima di compiere il prodigio sul corpo di lei, Imhotep si broccola anche una mezzo sangue che della principessa sembra la reincarnazione e l’indecisione tra corpo mummificato (dato alle fiamme) e corpo vivo (da uccidere e resuscitare) gli risulta fatale: archeologi e esoteristi arrivano i tempo, danno fuoco al papiro con la formula magica e il romantico Imhotep avvizzisce come un ramo secco. Poverino! Film interessante per il valore storico, ma m’è sembrato meno prezioso del previsto. (Vhs da Retequattro; 30/7/01)

172 – Se fossi in te del promettente Giulio Manfredonia, Italia 2001

I telegiornali straparlano di giornata più calda del secolo: imbottito di antibiotici per guarire il mio orecchio scoppiato, ricoperto di ponfi per reazione allergica e a soli quattro giorni dalle sospirate vacanze, reagisco da par mio e vado con Barbara a un ristorante indiano appena aperto sotto casa. Mangio consapevole che stanotte avrò incubi con protagonisti Pandit Nehru e Indira Gandhi, ma prima di nanna voglio anche scoppiarmi un sogno di celluloide a occhi aperti. Siccome tra i dieci film offerti da questa metropoli da terzo mondo ce n’è solo uno che non abbiamo ancora visto, la scelta è obbligata: Se fossi in te, giudicato con benevolenza dai critici, discretamente accolto dal pubblico, è una commedia che diverte e non offende perché si limita (e lo fa benissimo) a farti passare quasi due ore con un congegno narrativo semplice ma messo bene a punto, azzeccando le facce e i ruoli e rinunciando in ogni caso a trarre grandi morali. Del resto il film ha un incipit straordinario: si apre con Sebino Nela che discetta di filosofia. Non posso crederci: Sebino, il genoano figlio della Nord e poi Caterpillar romanista, il terzino sinistro che si fumava un pacchetto di sigarette al giorno. Poi, a dar respiro a una partenza un po’ affannosa, ci si mette la colonna sonora con Smoke On The Water e io decido che il film potrà avere delle lacune, ma tanto lo amerò lo stesso. Tre persone completamente diverse (un Dj protestato, un imprenditore senza cuore, un impiegato con famiglia a carico e aspirazioni artistiche frustrate) si incontrano su una spiaggia, tutti disperati per la loro condizione. Esprimono il desiderio di essere nei panni di uno degli altri e in quel mentre cascano tre stelle: il gioco è fatto e può partire una bella orchestrazione di situazioni in cui i tre si devono inventare un nuova vita. All’inizio sembra facile, quasi godurioso, poi tutto si complica e alla fine si troverà una situazione in bilico tra la precedente realtà e la presente volontà astrale. Il film non ha pause, utilizza bene un cast di attori che sanno recitare e che si direbbero buttati via in certi ruoli televisivi che abitualmente ricoprono. Bravi De Luigi e la Cortellesi, azzeccato Solfrizzi, semplicemente perfetti Giole Dix e Lunetta Savino. Gag carine, dialogo frizzante e un impegno nella scrittura che abitualmente sogniamo di trovare in altri cosiddetti autori. Di Manfredonia non so nulla, ma questo Se fossi in te fa ben sperare. (Cinema Ducale, Milano; 2/8/01)

173 – Dorme del grande Eros Puglielli, Italia 1999

Puglielli mi aveva strabiliato con Il pranzo onirico, ma non era niente male anche il corto I racconti di Baldassarre, visto al Genova Film Festival. Due anni fa i tipi della Indigo hanno pensato bene che del primissimo film del regista, realizzato in proprio con una Hi8, si potesse stamparne qualche copia in pellicola e distribuirlo (Lucky Red). Ottima idea: Dorme poi lo hanno visto in pochi, ma buoni, con recensioni i al limite dell’imbarazzante, ma è indubbio che Dorme è ben costruito. Dura un po’ troppo (sull’ora e venti) e se compresso a 50 minuti sarebbe stato un magnifico mediometraggio. Ma anche così è un gran vedere. Perché? Perché c’è l’entusiasmo di chi il cinema lo ama, di chi si mette alla prova e al posto di lamentarsi delle scarse opportunità del cortile che è la cinematografia italiana, produce, gira, osa, si espone. Puglielli ha fatto uscire quest’anno un altro lungometraggio che però è passato sugli schermi come una cometa. Da quello che ho letto era un film senza la voglia di pazziare che c’è in questo adorabile Dorme. Qui c’è goliardia, gioco citazionistico, omaggi a maestri come Raimi o il Moretti di Ecce bombo. E ci sono tante invenzioni felici, tanti esperimenti con la telecamera semi professionale. Ruggero viene lasciato da Anna. È basso, questo è il problema. E poi Anna non risponde al telefono: la madre dice sempre che dorme. Ma Ruggero sa che i tremendi fratelli Riccio (in realtà uno spostato che si crede due) Anna la frequentano eccome. Troverà il coraggio di affrontare i suoi avversari grazie a una magica pasticca (la “Monaco 2”) e poi ci rivelerà la chiave della vicenda. Il finale impreziosisce un film comunque intelligente, con le ingenuità di un’opera prima girata tra amici, ma con il coraggio che sarebbe impossibile trovare nel 90% degli altri autori italiani. Viva Puglielli, alé. (Vhs da Tele+; 3/8/01)

ddv1403.jpg174 – Rage Against The Machine di Autori Vari, USA 1992/97

I Rage Against The Machine sono stata la band più dura, più cattiva, meno scesa a compromessi del rock degli anni Novanta. Il loro discorso politico e musicale inizia dove si conclude (purtroppo) quello dei Living Colour, con una formula di rock e rap ulteriormente indurita. Dopo nove anni assieme, quattro album ufficiali, tour brucianti, maree di singoli e live sparsi, i R.A.T.M sono stati abbandonati dal cantante e leader Zack De La Rocha e ora siamo tutti in attesa di sapere cosa faranno i tre superstiti e se Zack diventerà un Manu Chao radicale. Per mitigare il mio status di orfano (si sono sciolti anche i Phish, cazzo!) mi sono comprato l’unica testimonianza video ufficiale del gruppo, una raccolta di videoclip ed esecuzioni live, senza le censure che hanno sempre colpito la band. Del resto: quattro americani diversamente bianchi cantano contro l’America che uccide fratelli neri, pellerossa e indios del Chiapas. Si esibiscono tra stelle e strisce rovesciate e faccioni del Che, mentre Tom Morello, il carismatico chitarrista, avvocato, esibisce un berrettino con la scritta “commie”… Neanche i Clash avevano esibito con tanta sicurezza la loro consapevolezza politica. Nonostante il blackout censorio i R.A.T.M. hanno venduto milionate di dischi e hanno aperto la testa a un po’ di giovani, in un paese che non fa più politica in senso classico ma si aggrega attorno ad alcuni temi fondamentali o ad alcune campagne di sensibilizzazione. La vhs in questione ci porta subito al cuore del problema: undici performance live e cinque videoclip, dove ogni introduzione, ogni testo, ogni assolo ha un preciso significato politico. Uno vede una band sul palco e si aspetta qualche sorriso, qualche accondiscendenza al proprio status di star, qualche strizzata d’occhio al mercato. Niente di niente: col rischio di apparire musoni, i R.A.T.M. macinano note e ribadiscono la loro estraneità al business: ci sono in mezzo solo perché è il modo migliore per portare la musica alle masse. Contenta la Sony a vendere i dischi, contenti loro, in una contraddizione vissuta con serenità solo per la più volte dimostrata integrità morale. Sul palco sfilano le canzoni dei primi due album della band, davanti a un pubblico, europeo o nord americano, sempre entusiasta e partecipe. Seguono cinque videoclip, tra i quali spicca People Of The Sun , dedicato alla rivolta india del Chiapas. Durante l’introduzione una scritta invita a registrare sul videoregistratore, poi seguono, a stacchi musicali precisi, interventi di grafica che raccontano cos’è il Messico oggi, cosa significa la lotta zapatista e quale sia il grado di coinvolgimento statunitense nel conflitto (totale — chiaro — con armi, addestratori, supporto logistico, consiglieri militari etc.). Ti riavvolgi la cassetta e te la guardi frame per frame, potendoti leggere un breve ma efficace saggio sull’ultima guerra coloniale del secolo, forse vinta, in termini di dignità e di risultati, da un esercito rivoluzionario che non vuole fare la guerra. Belli i video, variabili le qualità delle riprese dei concerti: la cosa migliore esteticamente è il trattamento delle immagini del Rock Am Ring Festival tedesco, con i colori saturati come se si trattasse di pellicola. Insomma: 70 minuti di goduria vera, passati zompando da solo per casa e pogando col mio amico immaginario. (Vhs ufficiale; 4/8/01)

Le passioni del Cacace
Intermezzo hard rock del 6 agosto 2001, ore 0.36

Sto scrivendo in diretta e sono ubriaco, non fradicio ma perlomeno umido. Perché uno si tiene i dischi in vinile? Perché lo fa, anche se ha già acquistato il disco in CD, magari remastered, con le fottute inutilissime bonus track? Lo fa, perché come stasera, non si sa mai. Domani parto per Barbados e ho una sveglia terrificante, alle 5 del mattino. Ho già preparato due sveglie Braun perché non si mai e son già d’accordo con Max che alle 5 ci chiamiamo per vedere se l’altro è sveglio, precauzione fantozziana che darà vita a gag fantastiche. Vabbeh, non sto scrivendo in preda all’ubriachezza per raccontare tutto ciò. Sta di fatto che alle 22 mi sono scolato una Fischer familiare ghiacciata ad alta gradazione e ho cominciato a sudare come se stessi giocando a squash. A quel punto lì dovevo iniziare la famigerata valigia per il viaggio e non c’è stata scelta: CD dei Creedence Clearwater Revival nel lettore e vai di rock’n’roll. Non ho fatto la valigia, l’ho ballata al sound di Cosmo’s Factory . Altra birra – una volgare Kronenburg da 33 cl. – e poi, finito il disco dei CCR ho dovuto ascoltare un altro mio must, ma rovistando tra i CD scopro che Made in Japan dei Deep Purple è in prestito. Sconforto e stridore di denti, poi l’occhio cade dov’è più naturale, davanti alla mia faccia, dove ci sono 240 LP che fanno bella figura ma che non ascolto da anni. E allora tiro fuori la copia originale, sentita migliaia di volte, consunta, vissuta, storica. Accendo lo stereo e — miracolo — funziona. Metto il disco e funziona anch’esso, altroché se funziona: riconosco quel fruscio della puntina, la batteria di Paice che cresce piano in mezzo ai timidi applausi del pubblico giapponese, Gillan che incita la band, il basso di Glover che pompa come un treno, Blackmore che gioca con gli accordi e cita L.A. Woman, Lord che cazzeggia finché non si arriva al riff di apertura e parte Highway Star e parto anch’io, storto come un coccio e felicissimo, tanto che mi sembra di sentire pure bene dalle due orecchie offese. La valigia è leggera in maniera sospetta, ma adesso non m’importa: c’è tempo per un Bloody Mary e due olivelle. A domani, a Barbados.

175 – Shrek ancora di Andrew Adamson e Vicky Jenson, USA 2001

In volo verso le Barbados, ottuso da sonno e fumi alcolici superstiti, mi scoppio di nuovo Shrek, stavolta in godibile versione originale, con le voci di Eddie Murphy (Ciuchino), Mike Myers (Shrek) e Cameron Diaz (Fiona). Che posso dire di nuovo? Niente, ma mi piace scribacchiare sul quadernetto nuovo di zecca acquistato per le vacanze: è sempre un buon film che gioca al rovesciamento programmatico di ciò che le favole ci hanno abituato ad aspettarci. È cattivissimo con gli animali (serpenti, ragni, uccellini) e i personaggi delle fiabe classiche, non risparmia battutacce su handicap fisici e non esibisce alcuna ipocrita correttezza politica. Per la gioia dei bimbi e degli adulti rimbambiti (tra i quali mi metto con autostima) Shrek esibisce rutti, cerume, moccio e peti. Rivisto, m’è sembrato più compatto e comunque unito dal filo conduttore della scorrettezza. Molte le citazioni, ma più che al cinema ci si rivolge alla tivù, sbeffeggiandone la grammatica e la prevedibilità spettacolare (il catch, la presentazione delle aspiranti regine, le richieste di applausi al pubblico). La versione originale — comprensibile, ma ero aiutato anche dalla seconda visione — permette di cogliere alcune battute e certi giochi di parole che in italiano di perdevano nel vuoto (vedi Ciuchino che canta Try a Little Tenderness). Tra Londra e Barbados Shrek è passato tre volte e, tra un rutto birrato e un sonno feroce, tre volte ho rivisto la scena della lotta tra Fiona e Robin Hood e il balletto finale, la sigla di coda esilarante sulle note di I’m A Believer degli Smash Mouth con i sette nani scatenati rocker. Godibilissimo. (Visione aerea; 6/8/01)

ddv1404.jpg176 – Driven del rombante Renny Harlin, USA 2001

E dopo Shrek, su sornione consiglio di Max, mi sono visto quasi tutto Driven, filmaccio ambientato in una Formula Uno di fantasia, cioè come gli americani vorrebbero che fosse: duelli dalla partenza all’arrivo, sorpassi impossibili oppure possibili solo grazie a un pestone sull’acceleratore, incidenti con voli paurosi a ogni giro (e piloti illesi), scorrettezze assurde, atti di eroismo. Per dirne una, la più clamorosa: c’è il pilota sudamericano un poquito loco (vedi Montoya), che fa la cazzata; la macchina esplode e finisce in uno stagno: il simil Montoya rischia contemporaneamente di affogare e bruciare vivo. I suoi leali avversari non possono tollerarlo e dalla testa della gara invertono e corrono contromano (altro che un videogioco: vanno a 300 all’ora incontro a macchine che procedono a 300 all’ora. Quiz della patente: a che velocità risultante s’incontrano?) per salvare l’incidentato. Che viene salvato, è ovvio. Il campionato viene deciso all’ultimo gran premio, all’ultimo giro, all’ultimo metro utile, al fotofinish. Sublime. Una schifezza assoluta stroncata da uno schermo piccolo 18 per 25 centimetri, che mi nega quella che poteva essere l’unica qualità del film, il cinemascope con roboante sonoro. Lo rivedrò mai? Scritto con mano ottusa da Stallone (anche litico protagonista) e diretto (male) da Renny Harlin, Driven è una baracconata. (Tra le altre cose degne di nota l’inseguimento in città a bordo di due macchine da gara, ah ah). Esagerato, clownesco, gladiatorio; e del resto questi americani sono un popolo di fessi che si guardano i gran premi su circuiti ad anello, e ho detto tutto. Atterriamo a Miami e ne abbiamo conferma. Ho il sospetto che l’inettitudine gastronomica dimostri la stupidità di un popolo. Per mangiare abbiamo dovuto scegliere tra cartone, aria o nulla, tutto rigorosamente fritto, molto big o large, sempre con contorno urticante di salsine. E da bere un sorso di Coca Cola e sette etti di ghiaccio. L’aria condizionata è sempre sui 16 gradi: hanno il terrore della temperatura ambientale. Le bibite (ho visto il termometro orgogliosamente esposto) sono a 2 gradi, roba da congestione fulminante. Perché questo discorso? Driven non è andato particolarmente bene negli USA, però è stato pensato da loro per loro, ed è emblematico: è il nulla, fritto, con salsine. (visione aerea; 6/8/01)

177 – Blow del Demme scarso, USA 2001

Di ritorno da New York verso Milano, mi concedo un’altra visione a 10mila metri d’altitudine. Dunque: chi ha portato la cocaina negli Stati Uniti? Siccome agli americani piace semplificare, eccovi qua il film con la storia del tizio preciso che, partendo dall’erba degli anni Sessanta, è arrivato a distribuire la polvere colombiana a tutti i bravi yankee dalle narici golose. La storia si suppone vera e racconta di una mezza tacca, in crisi coi genitori, che trova la sua identità nello spaccio, tra tradimenti, avventure, fregature, sino all’epilogo da prigioniero nelle carceri patrie. Johnny Depp è bravo e convincente, Penelope Cruz gnocca e scatenata (anche se a me fa più sangue quando si presenta innocente e virginale: qui non c’è nulla di suggerito, è già caliente e la mia/tua immaginazione resta ferma) e i comprimari se la cavano. Però è il film a fare acqua: funziona quando fa Boogie Nights, rievocando la fine dei magnifici Sixties e l’atmosfera dei primi Seventies; ti stupisce quando mette in scena Pablo Escobar, cattivone cinematografico fintissimo ma godibile. Diventa però tremendo quando la ricostruzione storica si fa da parte per lasciare spazio al dramma umano del protagonista. La svolta familiare con la menata del rapporto con la figlia intossica l’ultima mezz’ora ed è esiziale. Blow (di Ted Demme, nipote di e autore dello splendido clip The Streets of Philadelphia del Boss) l’ho visto come l’ho visto e dopo la pippata credo che anche su grande schermo mi avrebbe lasciato lo stesso sapore d’inutilità. (Visione aerea; 27/8/01)

ddv1405.jpg178 – The Gift di Sam Raimi, USA 2000

Tornato a Milano, mi hanno accolto il caldo, una città vuota, un nuovo programma tivù da fare e le metastasi di quello innominabile, ancora in onda. Rivedo gli amici e decido al volo per un cinema stasera, subito, immantinente, con Barbara e Fabrizio. La scelta è obbligata: The Gift dell’amato Sam Raimi. Siamo nel profondo Sud degli States: Annie (Cate Blanchett) è una giovane vedova con tre figli. Ha ereditato dalla madre il “dono”: è una sensitiva e vede nelle vite di chi la interroga. Non ci lucra, ma arrotonda la magra assistenza sociale. Il dono è però anche una condanna a vedere cose che non si vorrebbero né vedere né, soprattutto, rivelare. Annie viene coinvolta in un caso di omicidio e lo sceriffo che prima le chiede un aiuto, poi inizia a sospettare di lei. The Gift è un thriller parapsicologico medio, senza grandi trovate, ma con una buona tenuta narrativa (è stato scritto con Billy Bob Thornton), una bella fotografia e soprattutto il volto espressivo di Cate Blanchett. I personaggi di contorno (Giovanni Ribisi, Hilary Swank, il cattivo Keanu Reeves) fanno il resto. Abbastanza gradevole: non ci disturba e ci regala qualche brivido ambiguo. Lo abbiamo visto in mezzo a un pubblico assolutamente rivoltante, che rideva durante le scene drammatiche e brontolava durante le poche concessioni allo humour macabro del regista. Fabrizio che si lamenta ad alta voce del pubblico cafone è comunque spettacolo nello spettacolo. Giusto per dare il tocco conclusivo a questa stramba operina del Cacace: in quest’anno scolastico ho visto 178 film in 364 giorni, con una media di un film ogni 2. Di questi film, 45 (il 25%) li ho visti come si dovrebbero vedere sempre, cioè al cinema. Di tutti gli altri (132) 20 erano su cassette originali affittate, il resto era registrato (58 da Tele+, il 44% delle registrazioni; 22 da RaiTre, il 16%). E adesso do i numeri sul serio: ho visto 66 film americani (il 37%), contro 50 italiani e 61 “altri”. (Per la nazionalità da contabilizzare in caso di coproduzione, ho deciso arbitrariamente io, mettendoci di mezzo nazionalità del regista, provenienza dei capitali e luogo dove il film è stato girato. Ciò rende ulteriormente inutile il computo statistico, ma è bello proprio per questo). Sarebbe infine possibile calcolare un anno medio di produzione, ma non voglio farla fuori dal vaso. Se mi avete seguito fin qui significa che mi volete veramente bene, ma nondimeno consiglierei un buon medico. (Cinema Gloria, Milano; 30/8/01)

Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni.

(Continua, eh! — 14)