di Dziga Cacace

Il buon rivoluzionario apprezza il cibo piccante
Mao

DDV1001.jpg126 – Deliria del sorprendente Michele Soavi, Italia 1987

Qui c’è da far svoltare la serata. Le due cugine terribili, Barbara e Alessandra, pretendono un film di soddisfazione. E hai voglia a proporgli un sovietico graficamente esaltante, un turco commovente o un iraniano compostissimo. Allora parte la mia penosa manfrina da venditore porta a porta. Magnifico le qualità di film pallosissimi lavorando anche un po’ di fantasia (“C’è una sottile trama gialla”, “Psicologico, ma di buon ritmo”, “Drammatico, ma si ride con eleganza”) e raggiungendo vette sublimi (“L’attore principale è un gran bell’uomo”). Ovviamente non vendo un titolo che sia uno e allora sfodero il colpo di scena, presentando un prodottino italico registrato qualche mese fa. Esordisco così: giudizio abbastanza positivo di Morandini. Le due non si smuovono, perché tutti i capolavori proposti prima erano comunque osannati dal buon Morando (c’è una cartelletta che raccoglie i giudizi di tutti i film che ho videoregistrato: non serve assolutamente a nulla). Poi aggiungo che anche Giusti ne parla molto bene. Le due si risvegliano dal torpore. Infine aggiungo che il regista è considerato il miglior cinematografaro italico vivente da Quentin Tarantino. Ta-dah, andata! Venduto: stasera vedremo Deliria, l’esordio di Michele Soavi alla regia!


Deliria è un buon horror, abbastanza classico: un gruppo di attori che sta provando un musical (ovviamente orrorifico) rimane rinchiuso in un capannone con un pericoloso psicopatico a piede libero. Consueto scannamento e (prevedibile) finale a sorpresa. L’adesione ai canoni del genere è perfetta, ma Soavi ci mette anche quel guizzo d’invenzione in più e anticipa o posticipa quello che ti potresti attendere, riuscendo così a spiazzarti sempre. Gli attori sono decenti, gli effetti più furbi che belli (si vede poco, ma s’immagina molto) e il ritmo è in costante ascesa. Bel debutto che vinse anche ad Avoriaz nella sezione de “Paura”. Se Soavi cita evidentemente il mentore Argento (stessa intuizione di Tenebre che venne poi copiata da De Palma), è anche probabile che sia Demme che di nuovo De Palma avessero visto questa operina di gusto. La soggettiva dello psicopatico in barella ricorda molto alcune sequenze di Carlito’s Way mentre l’interno dell’ospedale psichiatrico non può che rimandare a Il silenzio degli innocenti. Forse me lo sogno io, ma non si sa mai, anche perché film come questo hanno più pubblico oltreoceano che qui da no e chissà quante volte Tarantino lo ha consigliato quando era commesso al videonoleggio. Cugine impaurite ed entusiaste: La setta, secondo film di Soavi, ottiene l’imprimatur per settimana prossima. Ah: Mereghetti riporta sul suo dizionario una trama fasulla (e non è la prima volta che mi capita). (Vhs da Retequattro; 24/4/01)

128 – Snatch – Lo strappo del madonnaro Guy Ritchie, USA 2000

Siccome son sempre a ciondolare per casa perché, più che libero professionista, son libero e basta, vado a vedermi un film di pomeriggio, ché se aspetto Barbara finisce che va via dagli schermi e poi non è più la stessa cosa. Che poi da Guy Ritchie so già cosa aspettarmi: divertimento, ideuzze, furbizia, forse forse un briciolo d’intelligenza. Vediamo. Snatch è la bella copia, accelerata, americanizzata, del precedente Lock & Stock. Utilizza lo stesso schema: tante microstorie incastonate in una vicenda di ampio respiro, ma lo fa rendendo tutto più veloce, inventivo e inaspettato. Insomma, apparsagli la Madonna, Ritchie ha migliorato il modello (più inglese e sonnacchioso) e il plot è diventato meno virtuosistico ma anche più chiaro e leggibile. Protagonisti tanti gangster (una ventina) di diversa provenienza sociale e geografica, ognuno con motivazioni più o meno plausibili. Il realismo è bandito (anche se qui non siamo a livello cartoon come nel film precedente) e se ci scappa il morto – succede – non lo si vede chiaramente. Il tutto è girato come un videoclip drogato e schizzatissimo: l’estetica clippettara riesce a vivere per 90 minuti senza far danno o risultare stucchevole, piegata alle esigenze di un racconto che si vuole gggiovane e senza pause. Film di confezione, ludico, con 2 o 3 momenti molto spassosi e belle musiche, al termine del quale una miserabile dietro di me esulta senza freni: per lei Snatch “è uno dei migliori film che abbia mai visto!”. La poveretta non merita neanche che faccia polemica. Comunque prima del film sono stato deliziato dal trailer di Passione ribelle, vaccata sicuramente ributtante, col visino dolce di Penelope Cruz e quella faccia da cazzo di Matt Damon, il mio nemico. (Cinema Odeon, Milano; 26/4/01)

129 – La ragazza con la valigia dell’elegante Valerio Zurlini, Italia/Francia 1960

La ragazza con la valigia è bello perché la ragazza con la valigia è bella. Nel senso che il film di Zurlini è tutto incentrato su Claudia Cardinale, Aida, ragazza con le idee confuse che vorrebbe sfondare nel mondo dello spettacolo, vittima della sua ingenuità in un mondo maschile spietato. L’unico che le mostra un po’ di amore sincero è il giovane Perrin, fratello minore di un gagà che l’ha già illusa. Ma ha solo 16 anni e Aida, su indicazione di un sacerdote, si farà da parte a malincuore. (Ovviamente non per i motivi che tutti pensiamo, cioè farsi lui il tenero sedicenne: nel 1960 certe cose era peccato solamente pensarle). Per cui questo Zurlini ci racconta l’educazione sentimentale di un giovane e la ricerca di chiarezza nella vita di Aida, ventunenne debole e ingenua, che tenta di approfittare della sua bellezza e ne è la prima vittima. Tra Parma e la Riviera, in una provincia italiota appena scossa dalle canzoni degli urlatori di classe (Mina e Celentano), un film piacevole, visto tra le 7.15 e le 9 del mattino perché soffro d’insonnia e non sono del tutto normale. Poi, quando la mia signora s’è svegliata, le ho preparato il caffè, abbiamo fatto armi e bagagli e siamo andati a Genova, che fa sempre bene. (Vhs da RaiTre; 28/4/01)

ddv1002.jpg130 – Sotto la sabbia dell’insinuante François Ozon, Francia 2000

Il sabato sera, a Genova, non è tanto diverso da quello di Milano. Nei cinema convengono i caproni che non hanno di meglio da fare e stasera, anche in un cinema d’élite come l’America, c’era un pubblico incredibile. Commenti su molte scene, raucedini alla Esorcista, pop-corn divorati a mascelle spalancate, succhiate di Coca Cola tipo sturalavandini, pacchetti di Tic Tac agitati allegramente come nacchere e altre belle cose ancora. In realtà sono io che sbaglio: non si deve andare al cinema durante il week end, e basta. Ma passiamo a un film che ha avuto difficoltà produttive e la cui lavorazione è stata interrotta per sei mesi. Si vede che la veste realizzativa è essenziale, ma, gioco forza, il doversi limitare a fare della Rampling il fulcro della narrazione giova a un film che, per inciso, non mi ha fatto impazzire, ma qualcosa d’intrigante ha lasciato. Marie è al mare col marito. Lui va a farsi un bagnetto e non torna più. La vita continua, ma Marie tiene la testa sotto la sabbia e rifiuta di accettare la scomparsa del consorte. Soprattutto non vuole indagare i motivi della morte, temendo un suicidio che la metterebbe sotto accusa. Gli amici tentano di starle vicini, un amante allevia la sua sofferenza, ma anche quando verrà recuperato il cadavere dello scomparso lei rifiuterà il riconoscimento. Film strano perché giocato tutto su questa indeterminatezza e sul volto interessante, sofferto e vissuto della Rampling, di cui dieci anni fa ero innamorato e che ancora mi regala qualche palpito. A tratti sembra giovane, in altri momenti dimostra anche più dei suoi cinquantacinque anni, ma è sempre intensa, con una vivissima luce negli occhi. E complimenti anche per la forma e il coinvolgimento fisico. Sotto la sabbia non mi ha convinto, però però… ne riparliamo tra qualche anno e vediamo se me lo ricordo ancora, eh? (Cinema America, Genova; 28/4/01)

131 – La famiglia del bozzettista Ettore Scola, Italia 1986 e alcune cose mattutine

In mattinata, diciamo verso le 5.00, mi sono svegliato in preda agli incubi. Ieri sera abbiamo mangiato in un ristorante argentino e l’asado mi ha fatto sognare una schiera di gauchos che agitavano le bolas nella pampa del mio stomaco. Mi sono alzato e ho rinunciato a un sonno che ormai era una sofferenza unica. Un po’ di zapping televisivo, la felice scoperta di un nuovo video di Fatboy Slim che vede Christopher Walken ballare come un forsennato (Choice of Weapon) e infine una videocassetta su cui ho registrato una nottata di Fuori Orario dedicata a uno dei più grandi professionisti del cinema italiano, Antonio Margheriti, conosciuto anche come Anthony P. Dawson. Ho visto la prima parte di Space Men (Italia, 1960), esordio alla regia del nostro eroe e film di fantascienza relativamente ingenuo e soprattutto capace di anticipare alcune cose che verranno sviluppate poi da chi avrà a disposizione budget miliardari (non a caso Kubrick chiese a Margheriti una consulenza sugli effetti speciali di 2001). Verso le 7.00 ho poi attaccato La leggenda del rubino malese (Italia, 1985), film d’avventura che sembra un’indianata Jones dei poveri e poi ti sorprende per la capacità parodistica e il mestiere. Terminata la scena iniziale (che smonta e demitizza l’apertura de I predatori dell’Arca perduta), si rientra nei ranghi, con tantissimo mestiere e molte idee. Però l’ho abbandonato, ho acceso il computer, ho cominciato a scrivere finché ora, tempo reale e tempo narrativo fatalmente coincidono. Ma adesso smetto. Ellisse temporale e ricomincio in questo momento, dopo che ho rivisto La famiglia, che mi scoppiai per la prima volta nel parrocchiale di Champoluc quattordici anni fa. Chissà con chi. Aspetto da mesi una verifica sui diari di Pier Paolo: lì c’è una miniera di informazioni su cosa ha fatto, quando e accompagnato a chi. Boh, non è così importante (per voi, intendo, per me sì). Diciamo solo che all’epoca m’era molto piaciuto e rivisto oggi non m’ha fatto la stessa impressione. La storia è quella di una famiglia attraverso tre generazioni, soprattutto quella di mezzo, che studia sotto il fascismo, vive la guerra e il dopoguerra. In mezzo l’amore irrisolto tra Gassman e la Ardant (da giovani Occhipinti e la Champa). Però i giovani sono troppo vecchi per sembrare ventenni e i quarantenni sono troppo vicini ai cinquanta per risultare convincenti. Insomma: ti ritrovi a dire “Mah!” ogni due minuti. Credo a Gassman solo quando è vicino alla sua età naturale, anche perché qui c’è forse la scena più tenera del film, mentre mangia gli spaghetti assieme al giovane nipote Castellitto (che tanto giovane non è, evidentemente è un vizio). Il gioco attoriale, il balletto di situazioni, la pecora nera di famiglia, i drammi, le riconciliazioni, i rancori, le vecchie vicende che ritornano… tutto molto carino ma anche esile. Alla fine mi sembra di aver visto due ore di bozzetti felici, ben riusciti, ma senza un nerbo saldo. La Storia passa come un lampo e motiva alcune scelte. Forse è anche giusto così, contro la retorica cinematografica che fa di tutti eroi del loro tempo. Scola sceglie personaggi sfumati nella vita pubblica, ma dalla più intensa vita privata e in fondo mette in scena l’italiano medio, più incerto che sicuro, più egoista che generoso, ma senza cattiveria, solo per indole. Non so quanto sia d’accordo e non ci voglio neanche pensare: il film parte bene, brioso, per poi sfaldarsi nel finale. Tutto sommato, delusioni della memoria giovanile a parte, si fa vedere. (Vhs originale; 1/5/01)

ddv1003.jpg132 – Tabù – Gohatto del Maestro Nagisa Oshima, Giappone/Francia/Gran Bretagna 2000

Giappone di metà Ottocento, in bilico tra medio evo e modernità: Kano è un efebico giovane samurai che entra a far parte della Shinsegumi, una setta di guerrieri dove, scusate, ma se lo buttano nel culo che è un piacere. Kano è troppo bello e candido per non suscitare gelosie, amori non corrisposti e vendette incrociate. I superiori, anch’essi turbati dalla fragile bellezza del ragazzino, vogliono vederci chiaro e il buon Kitano, samurai più cazzoso degli altri, pone fine alla vicenda tagliando il problema alla radice. È la scena migliore del film, dalle molte letture: scoperto che a mettere zizzania è lo stesso Kano che approfitta della sua bellezza, simbolicamente taglia in due un ciliegio in fiore e fa uccidere a malincuore il giovin guerriero. Film strano perché profondamente diverso da ciò che siamo abituati a vedere. Rigorosa la composizione e la fotografia, ma anche stranianti la recitazione e il montaggio, con scavalcamenti di campi che per noi occidentali sono errori e per il cervello dei giapponesi, abituati a leggere gli ideogrammi dall’età di quattro anni, sono acqua fresca. L’ho visto con Marco, Barbara e Ferro e, lo dico con soddisfazione, è piaciuto a tutti. Altri amici ne erano rimasti schifati e su Pier potrei scommettere che, a vederlo, rischierebbe un coccolone. Altre considerazioni? La più banale è che il film suggerisca che la bellezza susciti desiderio e di conseguenza assenza di armonia, conflitto, danno. L’unico modo è recidere questa bellezza e controllare così la propria passione. I cinesi, nei loro film, squittiscono; i giapponesi invece ruggiscono: quando parlano sembra che ruttino orrendamente, emettendo borborigmi gutturali. Beh, tutta questa rudezza e questa virilità vocale, accompagnate alla postura a gambe larghe, allo sguardo truce e alla velocità della katana, fanno un bel contrasto col viso liscio come una pesca dell’imberbe Kano, sorta di lascivo lolito. Non so cosa significhi tutto ciò, ma m’è venuta fuori così. Però bel film. (Cinema Eliseo, Milano; 2/5/01)

ddv1004.jpg133 – Duello nel pacifico del grandissimo John Boorman, USA 1968

Non c’è niente da fare: i film che vedi da bambino, se ti piacciono allora, ti piaceranno sempre. Ogni volta che li potrai rivedere, lo farai e ti sentirai a casa, recuperando ricordi e sensazioni passate. Sto scadendo nel patetico e vi dico subito che Duello nel pacifico è straordinario anche oggi, con migliaia di film visti alle spalle. Infatti è uno strano, coraggioso film con un sacco di idee. La trama è semplicissima: Oceano Pacifico, seconda guerra mondiale, su un atollo sperduto vive il classico soldato giapponese abbandonato ma un bel giorno gli piomba dal cielo anche un pilota statunitense. Il jap è Toshiro Mifune, lo yankee è Lee Marvin. Il problema è convivere in stato di guerra: mangiare, dormire, bere. Il giapponese s’è già preparato il suo habitat e l’americano prova a fotterglielo in tutte le maniere, com’è d’abitudine da sempre: lotta senza quartiere, prima con Marvin prigioniero, poi con Mifune schiavizzato. L’americano è profittatore, più intelligente, ma anche più bastardo e soprattutto vendicativo. Il giapponese è invece più industrioso, isterico ma buono, meno furbo e in ogni caso crudele solo fino a un certo punto. Non si capisce quanto queste caratteristiche vogliano assumere anche una valenza politica, ma la prepotenza yankee è evidente. Sul micro-conflitto prevale però la bellezza della natura, la sua imperturbabilità rispetto alle umane fatiche. I due soldati, per amore o per forza, uniscono le energie e lasciano l’isoletta. Arrivano in un’isola più grande, devastata dai bombardamenti. I giornali trovati raccontano l’evoluzione della guerra e le crudeltà del conflitto che ha visto soccombere i nipponici atomizzati. Ricordavo un finale dove i due protagonisti si suicidavano, qui invece arriva un aereo che mette tutto a tacere, finale in ogni caso giustapposto. Ma finale o non finale, Duello nel pacifico è bellissimo perché è un film poco parlato, narrato tutto per immagini, sfruttando consapevolmente un paesaggio incantevole e due attori splendidi. Io l’avevo visto innumerevoli volte, ma mai dopo i tredici anni, e oggi merita un posto riservato nella mia videoteca. (Vhs da Tele+; 3/5/01)

134 – La donna del bandito dell’esordiente Nicholas Ray, USA 1948

Film atteso per anni: Fuori Orario me lo concede e io me lo pappo goloso. E che dire di questo cultissimo La donna del bandito? Serie B con guizzi da maestro. Se non erro era il primo film di Ray e su un impianto noir abbastanza disperante si innestano alcune situazione gestite da maestro, come la caratterizzazione di buoni e cattivi o la straziante storia d’amore del protagonista che tenta di sfuggire al consueto destino infame. L’idillio dei due sfigati è struggente, anche perché va di pari passo alla loro ingenua incapacità di controllare ciò che mettono in moto (dalla carriera malavitosa, al matrimonio). E poi a questi amanti, teneri e inesperti, gli leggi in faccia fin dall’inizio il destino fatale di perdenti nati, al punto che la tensione si affievolisce proprio perché sai che finiranno male. Per un momento altissimo (quello del tradimento finale) ci sono parti meno risolte, come quella iniziale o il prefinale, ma proprio tutto dalla vita non si può avere. Fotografia bellissima e tanti pregi che, però, non potrebbero bastare a taluni spettatori: Barbara è crollata a ronfare come un ornitorinco. Io mi son goduto l’amaro filmetto e me ne compiaccio. (Vhs da RaiTre; 5/5/01)

135 – Dead of Night di un gruppo di pazzi (e bravi): Alberto Cavalcanti, Charles Crichton, Basil Dearden e Robert Hamer, Gran Bretagna 1945

Clamoroso capolavoro! Leggo di questo film sul programma del De Amicis e mi faccio un giro di pareri: enciclopedie, Internet, notizie dagli amici del Lumière. Decido di rischiare perché ne parlano tutti bene. E sbagliano perché dovrebbero parlarne benissimo, infatti Dead of Night è semplicemente grandioso. Un architetto arriva in un cottage di campagna e lì trova tante persone ad attenderlo, tra di loro uno psichiatra. Ha un déjà vu: dove ha già visto tutta ‘sta gente? Ricorda un sogno, sa che finisce male, nient’altro. Tutti i convitati rammentano esperienze simili e raccontano i loro incubi o le loro esperienze inspiegabili, con lo psichiatra che dà sempre una motivazione razionale a ciò che gli viene raccontato. E finisce male, coll’architetto strozzato dallo psichiatra. Ma era solo un sogno: l’architetto si sveglia in preda all’incubo e la moglie gli ricorda che ha un appuntamento in campagna. Il film si conclude com’era iniziato, con l’arrivo al tranquillo cottage. E questa è solo la splendida cornice, perché i racconti sono ognuno occasione per dei corti tutti azzeccatissimi: si va dall’horror puro, al grottesco, ma non si sbaglia, ci si esalta sempre, con una particolare nota di merito per l’episodio di Cavalcanti (Il pupazzo del ventriloquo, ovviamente vivo, il pupazzo) e quello di Hamer (Lo specchio maledetto). C’è l’eredità dell’espressionismo nelle atmosfere angosciate e nell’utilizzo delle luci, ma anche nell’indeterminatezza psicanalitica e nella frustrazione del circolo narrativo chiuso. Ci sono regie sobrie ma mai povere e c’è il gusto per il bel racconto, ben congegnato e ben messo in scena. Non tollero gli inglesi, ma stavolta ho goduto de panza. Detto del contenuto, due parole sul contenitore: il De Amicis sembra il cineclub Lumière dei tempi d’oro; siamo una quindicina di spettatori, così pochi che sento le adenoidi di uno dieci file dietro di me. Il pubblico scarseggia e minacciano di chiudere. Sarebbe un peccato perché la sala è tenuta bene e la programmazione è discreta. E poi penso che abbia i conti in attivo. Mi informerò. Ah: quella cicciona di Anna La Rosa (se è cicciona sul serio non c’è ingiuria, no?) sente che la destra vincerà e si permette di sforare i tempi del palinsesto con il suo untuoso Telecamere. Fuori Orario, che è in coda a questa porcata propagandistica, subisce il ritardo e de Il tesoro della Sierra Madre, in preziosa versione originale con nitidezza da urlo, registro solo un’ora e rotti. Devo buttare la registrazione. Contestualmente m’è saltato Dr. Jeckyll e Mr. Hyde perché ho programmato per errore Retequattro e non Italia1 e su Tele+ non hanno trasmesso il documentario di Alex Cox su Emmanuelle. Malocchio? (Cinema De Amicis, Milano; 6/5/01)

ddv1005.jpg136 – Il mistero dell’acqua dell’intrigante Kathryn Bigelow, USA/Francia 2000

E dopo un capolavoro di mezzo secolo fa, torniamo al tran tran cinematografico quotidiano, con un film che voglio vedere a tutti costi, ma che non incontra la voglia di quasi nessun altro. Le due cugine terribili – Barbara e Alessandra – accettano: vediamo se la Bigelow è ancora in forma. Il mistero dell’acqua procede su due binari, sempre più intrecciati, man mano che la trama avanza. Oggi: una coppia in crisi, lui scrittore, lei giornalista, in vacanza per qualche giorno col fratello di lui e la fidanzata, gnoccona che deve aver già conosciuto lo scrittore. Ieri: nelle fredde terre settecentesche che si affacciano sul nord atlantico, una strage con una sola giovane scampata alla furia omicida di un assassino (per la certissima comunità) che si proclama innocente. La giornalista (l’incantevole McCormack) sta studiando il caso, sicura che non tutto fosse stato chiarito. Ma non è chiaro neanche il rapporto tra i due fratelli e la fidanzata (una Liz Hurley tanto imperfetta – per modo di dire, eh? – quanto bellissima). Sean Penn è lo scrittore in crisi: alcol, frasi a effetto (“Usare un’accetta implica intimità”, “Il talento giustifica la crudeltà”), sguardi obliqui, impotentia coeundi, fogli lasciati in bianco. Ma è anche il burattinaio della vicenda. Una recensione del Secolo XIX concluderebbe così: complicazioni. Il film non è piaciuto a nessuno, ma proprio a nessuno nessuno, e io mi sento strano. Non so che farci, perché a me, invece, è garbato assai. Come al solito avrò ragione io e torto tutto l’orbe terracqueo. Trovo che ci fosse una qualità visiva superba: aiutata da una fotografia clamorosa, con toni bruni e accesi al passato e gialli e azzurri solari al presente. L’acqua purifica, lava i peccati ma porta anche la morte o impedisce alla verità di venire a galla. Soprattutto esalta la sensualità dei corpi, le misteriose attrazioni erotiche che legano i personaggi presenti e passati. Detto delle bellissime McCormack e Hurley e di Sean Penn, menzione d’onore anche a Sarah Polley, dal faccino angelico che sa diventare all’improvviso demoniaco, e poi alla Cartlidge, sempre più rigida e storta e comunque perfetta. La trama, soprattutto all’inizio, è scandita con lentezza, poi cresce verso il finale quando i due piani narrativi diventano più concitati, con l’alternarsi delle due vicende che dà ritmo dove non ce ne sarebbe. Storia in cui, alla fine, non trovo una morale precisa (le donne vittime della società maschilista, ieri e oggi, possono solo ribellarsi violentemente?) né la cerco perché ho il cervello piccolo. Ma il film m’è piaciuto sensorialmente, ormai ragiono come un animale: mangiare, dormire, trombare, vedere un film su cui non farsi domande. E poi quali film oggi danno messaggi? Sono necessari i film con messaggio? Cos’è un film necessario? Era una domanda che mi sono posto l’anno passato, credo, e non ho ancora trovato la risposta. O non ci ho pensato. Il mistero dell’acqua l’ho visto al Colosseo: buona proiezione e accensione delle luci appena s’intuisce che la vicenda s’è conclusa. È un’usanza barbara, come quelli che ti sparecchiano la tavola mentre stai mangiando. Non si fa. (Cinema Colosseo, Milano; 6/5/01)

(Continua — 10)