di Leandro Piantini

Rosa Matteucci, Tutta mio padre, Bompiani, Milano, 2010, pp. 286, euro 17,50.

2893473.jpgRosa Matteucci si impone con il suo ultimo romanzo come una scrittrice matura, in un libro ambizioso in cui si dispiegano le sue genuine qualità letterarie. Un’ampia narrazione familiare che racconta un mondo, una città (Orvieto), e una famiglia che è di quelle che segnano per sempre il carattere e il destino di una persona.
Quanto a stile la Matteucci ha optato per un racconto di genere bizzarro e picaresco. E una lingua barocca e scoppiettante, quasi una performance rutilante di invenzioni e di exploit a getto continuo connota tutta la narrazione – e infatti qualcuno ha parlato di gaddismo.

Condotta per quasi trecento pagine con scanzonata baldanza la storia tocca vertici di autentico, a volte irresistibile, divertimento. Che culmina nelle pagine dedicate alla vita quotidiana della famiglia posta al centro del racconto. Caduta in miseria dopo i fasti del passato, essa si è ridotta a vivere in una casa miserabile, chiamata il cachot, dopo che ha perso la dimora avita, una villa blasonata immersa nella campagna umbra. Un cachot che cade a pezzi, in cui l’impianto elettrico è “un groviglio di fili unti”.
Rosa MatteucciL’io narrante, “contessina decaduta”, racconta la vita stravagante di una famiglia ridotta sul lastrico, che tira avanti alla meglio e più sfigata di così è difficile immaginare. Tutti vivono di illusioni, di tic, di innocenti manie. Al centro di ogni evento vi è il padre della narratrice, sedicente ingegnere, eterno perdigiorno, con la fissa dell’affare che una buona volta risolleverà le sorti familiari, un bisniss che naturalmente non arriva mai. Ha anche una specie di ufficetto a Roma, si dà da fare come un matto ma non combina nulla di buono. Crede nello spiritismo, nei tarocchi, spera di vincere al lotto, conosce a memoria le centurie di Nostradamus. E soprattutto è tanto amato dalla figlia che lo ha sempre tenuto su un piedistallo e non ha mai una parola ostile contro di lui. Anzi su di lui si è modellata, nonostante le sia ben chiara “la grandiosa incapacità di vivere” di questo genitore inetto e tuttavia sorretto da un ottimismo inguaribile. La madre invece vive un po’ in ombra, non ha inciso sulla vita della figlia, è freddina e legge in continuazione, passando da Heidegger a Musil e ha imposto alla figlia di leggere L’uomo senza qualità in tedesco.
Il padre e la figlia Rosa hanno vissuto un rapporto impossibile di simbiosi, di amore assoluto e di complicità:

”Figlia mia, ora ti racconto come è vissuto tuo padre. Tu lo sai che non ho mai creduto in tutte quelle fregnacce, in quelle superstizioni, lo spiritismo, la magia bianca, la reincarnazione. Tu lo sapevi che erano giochi… Alla fine ci siamo illusi entrambi. Forse mi ha preso la mano. Il problema è che gli altri ci hanno creduto. Ogni tanto nella vita bisogna pur sognare, lasciarsi andare alla fantasia, che male c’era? Se non si sogna almeno un po’, come si fa ad andare avanti? Noi abbiamo sognato insieme… Ricordati, Rosa, che la vita è strana e sublime, perché si può sempre e di nuovo inventare e amare”.

Insomma l’aspetto ludico è dominante in queste pagine, sia pure accompagnato sempre da delusioni, da meraviglie, da imprevisti. E possiamo dire che questo è molto italiano, tipico forse un tempo di un’Italia minore e provinciale, diffuso tra quei ceti rovinati dalla modernizzazione che non hanno saputo stare al passo con i tempi e con quel rampantismo amorale divenuto poi regola generale di vita.
Il racconto della Matteucci è quasi un’enciclopedia di stranezze, di cose preziose e stantiie, di oggetti desueti, epitome di un’aristocrazia decaduta divenuta vittima della propria impotenza. E forse l’autrice ha un po’ troppo diluito la trama del romanzo infittendola di dettagli per cui talora si può avvertire una certa stanchezza.
Il romanzo mescola con struggente felicità inventiva commozione e satira, il pathos dei sentimenti più estremi insiene ad un’inesauribile e talora proterva comicità. Esso si potrebbe anche definire un poema della sfiga, dell’arte di perdere, o meglio dell’arte di sopravvivere a tutte le sconfitte. Che in verità è arte di vivere con un’immersione a 360 gradi nelle passioni, nei tic, nelle ossessioni ma anche nella gioia di vivere. Cose che sono in fondo virtù preclare degli italiani, al di là della diseducazione familiare, delle carenze della scuola, della mancanza insomma di qualcuno che sappia insegnare come si affronta la durezza implacabile della vita. Il libro mette insomma in evidenza i difetti dell’eterno “sistema italiano”, difetti che tuttavia non ce l’hanno fatta a disintegrare completamente un popolo e un paese. Almeno finora…