di Sandro Moiso

OteloDeCarvalho.jpgQui le parti precedenti.

Grândola, vila morena

“Grândola, vila morena/ Terra da fraternidade
O povo é quem mais ordena/ Dentro de ti, ó cidade..”
La canzone di José Alfonso, trasmessa da Radio Renascença alle ore 0,21 del 25 aprile 1974, aveva dato il via al colpo di mano dei giovani capitani portoghesi.
Da canzone proibita, che ricordava una sommossa operaia dell’Alentejo, divenne un inno.
Fu la prima canzone portoghese che imparammo a cantare.

In realtà la rivoluzione dei garofani ebbe anime diverse.
Fu fin dall’inizio un misto di bonapartismo e di populismo che, a lungo andare, avrebbe finito col creare una situazione esplosiva. Il suo collante, nel bene e nel male, fu sempre costituito dal MFA.
Alle sue spalle si agitavano le necessità della borghesia portoghese, del proletariato metropolitano e gli interessi politici contrastanti dei partiti di destra e di sinistra.

Era riassumibile in tre verbi il programma del Movimento delle Forze Armate.
Democratizzare, sviluppare, decolonizzare.
Vago e generoso, confuso anche, fu quel movimento nei suoi primi mesi.
Fino a settembre il generale de Spinola si trovò a presiedere il primo governo provvisorio.
Il monocolo e il portamento aristocratico lo distinguevano.

Aveva iniziato la carriera partecipando alla guerra civile spagnola dalla parte dei franchisti.
Poi era stato integrato nelle forze naziste e aveva partecipato all’assedio di Stalingrado.
Infine, sospettato per l’omicidio di Amilcar Cabral (1). Era chiaro che sarebbe durato poco.
Si tradì con l’organizzazione di un’ambigua manifestazione della maggioranza silenziosa che poi lui stesso dovette proibire. Era il 28 settembre 1974.

Due giorni dopo rassegnò le dimissioni promettendo crisi e caos.
Le barricate operaie, che avevano impedito quella iniziativa, aprirono la strada ai soldati rossi.
Ma tutto aveva avuto inizio in Africa.
Anche Otelo Nuno Saraiva de Carvalho era nato là.
In Mozambico, il 31 agosto1936.

L’unica volta che lo vidi distribuiva garofani rossi da un elicottero in volo

L’unica volta che lo vidi distribuiva garofani rossi da un elicottero in volo.
Li lanciava sul pubblico accorso allo stadio per la Giornata dell’Emigrante.
In lui c’era qualcosa dell’attore, un’attitudine che aveva certamente ereditato dal nonno paterno che aveva improvvisamente abbandonato il lavoro alle poste per una vita errante nel teatro itinerante .
Era stato il comandante delle operazioni nella notte del 25 aprile.

Figlio di un funzionario delle poste e di un’impiegata delle ferrovie, al liceo non era stato un allievo brillante e allo studio aveva anteposto lo sport.
Lo spirito sovversivo è stato più spesso alimentato dal rifiuto della disciplina tra i banchi di scuola che dalle conoscenze filosofiche.

Fin da giovane si era nutrito di sogni salgariani.
Sandokan e i pirati della Malesia avevano costituito per lui, come per il Che e molti altri, la prima scuola di anti-imperialismo.
Per il giovane de Carvalho le jungle nere furono costituite dalle foreste angolane, dove prestò servizio .

Il 5 dicembre 1973 si tenne la prima riunione del Movimento dei capitani e Otelo fu eletto nella giunta esecutiva. Ma si discuteva ancora di carriere e di aumenti e le miserie d’Monsù Travèt stentavano a trasformarsi in avventura salgariana.
Soltanto in seguito si pensò al potere e divenne così l’eroe di un golpe incruento.

Come comandante del COPCON e generale al comando della Regione militare di Lisbona ebbe i suoi tigrotti di Mompracem, che costituirono l’anima rossa del radicalismo militare.
Questo non poteva essere ammesso e non fu dimenticato.
Firmò i mandati di cattura per tutti coloro che si opposero al poder popular nel verão quente e minacciò di mandare tutti i controrivoluzionari a riempire gli stadi.

In seguito nemmeno ciò non gli fu perdonato.
A novembre fu destituito e imprigionato nel gennaio successivo.
Tornato una prima volta in libertà, Otelo fu nuovamente incarcerato nell’ottobre dello stesso anno e, in seguito, sospeso dalla funzione di militare attivo. Liberato, vide riaprirsi le porte della prigione il 20 giugno 1984. I suoi thugs continuavano a inseguirlo.

Era stato individuato come responsabile militare del FP 25 (Forças Populares 25 de Abril), un gruppo armato che realizzò azioni tra il 1980 e il 1987. Fu condannato a diciotto anni di carcere.
Nel 1989 gli venne concessa l’amnistia, mentre il 6 aprile del 2001 quasi tutti i condannati per i fatti attribuiti al FP 25 furono assolti a causa della creatività con cui erano state condotte le indagini.

La contraddizione aveva sempre accompagnato il suo operato.
Si era schierato contro i moderati, la destra e il PCP.
Non molto alto, con i capelli già grigi molto prima dei quarant’anni, non ebbe mai il physique du rôle dell’eroe rivoluzionario.
Ma sono proprio le rivoluzioni a essere contraddittorie.

Il suo volto sapeva illuminarsi di grandi sorrisi infantili e i suoi soldati lo amarono sempre.
Oggi è nonno di tre nipoti e gestisce dal 1991 un’impresa di import — export con l’Africa.
Non ha ancora ottenuto il riconoscimento del suo passato grado di generale.
Anche Yanez e Sandokan devono aver atteso invano una pensione.

La spinta a emigrare era stata forte

La spinta a emigrare era stata forte.
In Portogallo come in Italia.
L’arretratezza delle campagne e le disparità salariali avevano fatto sì che un gran numero di portoghesi fosse spinto ad abbandonare la propria terra.
Poiché le colonie non erano così ricettive, tra il 1960 e il 1973 un gran numero di loro si recò in Francia.

In quegli anni le destinazioni principali degli emigranti italiani furono costituite da Svizzera e Germania. Prima era stata l’America.
Mio nonno era andato giovanissimo a raccogliere arance in California.
Mise da parte appena quanto bastava per tornare in Italia.
Giusto in tempo per la grande guerra.

Fu un “ragazzo del ’99”, arruolato tra gli ultimi.
Passò una notte intera a cercare di accecarsi un occhio con una scheggia per non dover andare all’assalto la mattina successiva.
Le vibrazioni del terreno, causate dai bombardamenti d’artiglieria, glielo impedirono.
Tornato a casa, sposò mia nonna e ripartì per gli Stati Uniti.

Il viaggio per mare durò settimane in condizioni igieniche spaventose.
L’unica norma rispettata prevedeva la rigida separazione tra uomini e donne.
Nella classe degli emigranti, si intende.
Spesso le famiglie, quando non venivano colpite dal tifo o da altre malattie letali, finivano già divise prima di arrivare nella terra promessa.

Il campo per la quarantena di Ellis Island li attendeva al loro arrivo a New York.
Erano gli anni di Sacco e Vanzetti: gli italiani erano stranieri utili, ma indesiderati.
Come sempre lo sono i poveri in giro per il mondo.
Forse avevamo in mente tutto ciò quando di sera, nel 1972 a Ginevra, dopo aver visto gli italiani girare infreddoliti e soli per le vie della città, andammo a pisciare sulle candide ali dei cigni che dormivano in prossimità dell’ Ile Rousseau.

Risvegliati dal loro sonno, i custodi del candore svizzero iniziarono a sbatter le ali, starnazzando.
Anche così si rompeva l’ordine.
Altri emigranti erano già tornati in Italia e nelle officine di Mirafiori avevano rotto la disciplina e l’ordine del lavoro.
Anche qui i custodi dell’ordine starnazzavano.

Il mondo nuovo per mio nonno fu il lavoro nelle miniere di Herminie, Pennsylvania.
Mia nonna trasformò in pensione per italiani la casa in cui vivevano.
Nacquero due figli, una femmina e un maschio, che morirono in tenera età.
Poi mia zia e mia madre.
Pensarono di tornare in Italia prima che la terra promessa seppellisse anche quelle due figlie.

Mio nonna riportò a casa una volontà di ferro.
Partorì altri figli e morì a cent’anni.
Mio nonno non smise di sognare vite migliori, con i polmoni segnati dalla miniera e un certo amore per il vino. Morì quaranta giorni prima della mia nascita.
Oltre al nome, riuscì lo stesso a trasmettermi la voglia di sognare un mondo migliore, a occidente.

Eravamo andati in Portogallo per veder sorgere un mondo nuovo

Eravamo andati in Portogallo per veder sorgere un mondo nuovo.
Al di là delle motivazioni di chi ci aveva inviati, quello era stato il movente che ci aveva spinti ad accettare.
Era da diversi anni che ne stavamo spiando la nascita e forse quella sarebbe stata la volta buona.
Ci sentivamo militanti della Rivoluzione. In fin dei conti non importava quale fosse.

Quella rivoluzione aveva il suo cuore a Lisbona e nei centri operai.
Anche i braccianti del sud l’appoggiavano. Speravano nella riforma agraria.
Ma il Nord e grandi aree psico-geografiche del paese rimanevano ancorate al loro passato.
Non solo la grande borghesia, ma vasti settori di piccoli proprietari terrieri e ceti medi ne temevano le conseguenze.

Successe così che a Lisbona fu possibile intravedere l’alba, mentre a Porto e Braga l’oscurità stava scendendo.
Il 13 luglio 1975 era iniziato ad Aveiro un “giro dei vescovi” che avrebbe toccato poi Braga, Coimbra, Viseu, Bragança, Porto e Leiria. Era il risveglio della Chiesa.
Monsignor da Silva, vescovo di Braga, lanciò appelli alla crociata.
Bush è arrivato in ritardo di un quarto di secolo.

L’appello fu accolto.
In meno di sei settimane sessanta sedi del Partito Comunista Portoghese e dell’estrema sinistra, al centro e al nord, furono assaltate, saccheggiate e bruciate.
La scampagnata clericale si fermò solo là dove incontrò la forza delle armi.
Una mitragliatrice pesante installata sulle scale di una sede del PRP-BR (2) convinse i crociati a lasciar perdere le sedi di quel partito.

Alcuni compagni più ingenui, dall’Italia, arrivarono a Porto.
Le indicazioni sul paese più libero del mondo erano piuttosto vaghe e confuse.
Salirono su un camion carico di militanti del partito comunista portoghese.
Pochi incroci dopo furono assaliti da una folla di manifestanti inferociti.
Giunsero poi da noi ancora pesti e sbigottiti. Erano di Pinerolo.

Anche quelli che andarono a dormire nei sacchi a pelo nei parchi di Lisbona dovettero fare i conti con le contraddizioni di una società in trasformazione.
Botte, furto dei portafogli e degli zaini.
Ma in quel caso la crociata non c’entrava. Era la normale routine metropolitana.
Li consigliammo di andare a cercare i loro averi alla Feira da Ladra.

Il mercato della ladra

Il mercato della ladra.
Quella specie di mercato delle pulci fu uno dei pochi posti che visitammo come turisti, in quei mesi, insieme alle lunghe spiagge della Costa da Caparica.
Nel primo ci divertimmo a girovagare tra i cimeli in svendita di un impero coloniale ormai svanito.
Lungo le altre incontrai per la prima volta i cavalloni e le impressionanti maree dell’Oceano Atlantico.

Anche la nostra sede era diventata una meta turistica.
Dalla fine di luglio erano cominciati ad arrivare addirittura dei voli charter dall’Italia.
Tutti volevano vedere “la rivoluzione in diretta”.
Qualcuno a Roma e sul quotidiano del nostro gruppo stava vendendo bene gli avvenimenti portoghesi.

I gruppi arrivavano e volevano assistere a discussioni e incontrare i soldati.
Noi organizzavamo il tutto.
Anche una sorta di mercato delle pulci dove i turisti della rivoluzione potevano comperare il materiale di propaganda che MFA e COPCON ci avevano messo gratuitamente a disposizione.
Eravamo diventati una succursale della Feira da Ladra.

Donato si presentava come operaio FIAT ed ex-partigiano.
Si inventò una battaglia di Torino che avrebbe visto il Po diventare rosso per il sangue.
In realtà a quell’epoca doveva avere all’incirca dieci anni.
Noi ridevamo sotto i baffi, il pubblico andava in estasi.
Per dimenticare i nostri peccati ci ubriacavamo ogni giorno di vinho verde.

Decenni dopo il gestore dell’osteria dove eravamo soliti andare si ricordava ancora di noi.
All’epoca ci aveva scambiati per attori. Forse lo eravamo.
Le performance di Donato erano inarrivabili.
Spezzò pure qualche cuore.
Non dormì mai con noi, ma sempre a casa di qualche compagna portoghese.

I soldati non erano da meno, soprattutto quelli del Genio.
Quando organizzammo una grande cena nel refettorio della loro caserma, gli autieri, per stupire le bionde turiste, diedero vita a un folle carosello di autosnodati, adibiti al trasporto di carri armati e pontoni, nel cortile.
Luci lampeggianti e sirene dispiegate: anche loro condividevano l’estetica del rock’n’roll.

La rivoluzione non aveva migliorato la qualità del rancio

La rivoluzione non aveva migliorato la qualità del rancio.
Lo aveva democratizzato però, nel senso che ufficiali di ogni grado e soldati di truppa facevano la fila dinanzi agli stessi pentoloni e ne condividevano il contenuto.
In genere si trattava di caldo verde con l’aggiunta di carni indefinite.
Inutile dire che gli inviti a mangiare in caserma non erano la parte di collettivizzazione che ci entusiasmasse di più.

Donato ne andava pazzo.
Fieuj, capisse gnente. Vojàutri seve nen cosa veul dì fé da mangé par mila përsone. A l’é bonissim!
Certamente, in quel campo, era il più rivoluzionario.
La cuoca di Lenin sarebbe stata entusiasta di lui.
Presso i militari la sua figura finì con l’oscurare quella dei nostri leader locali.

D’altra parte né Franchino, né Carlo seppero mai organizzare una spaghettata come quella che il nostro falegname preparò nel giardino retrostante alla sede.
Eravamo una sessantina, sulle scale che scendevano ad anfiteatro, a osservarlo mentre si dava dare tra due enormi pentole.
Una per la pasta e l’altra per il sugo.

Fé nen i picio” ci redarguì “vnì an belessì a déme na man!
La militanza culinaria ci chiamava.
Come compagni di Torino dovemmo rispondere all’appello.
Forse fu il vino, forse la bravura di Donato, ma gli spaghetti riuscirono benissimo.
Ci abbracciammo tutti e cantammo.

Anche al mattino, ogni tanto, complicavamo la vita al nostro capomastro.
Poiché dormiva fuori ed era solito arrivare prestissimo per condurre i lavori di miglioramento dell’edificio, ci svegliava tirando violentemente la catena della campanella situata nell’androne.
Una mattina la riempimmo di cotone e gli rimase la catenella in mano a forza di tirare.
Ci svegliò lo stesso cristonando in piemontese e chiamando a squarciagola il mio nome.

Non so che fine hanno fatto molti dei soldati presenti la sera della spaghettata..
Conosco la fine di Donato.
Per lui non ci furono più rivoluzioni e battaglie di Torino.
Morì nel ’94, lo stesso anno di mio padre.
Anche lui distrutto dal cuore malato e dal cancro.

L’attività di operatori turistici e carpentieri ci attirava sempre meno

L’attività di operatori turistici e carpentieri ci attirava sempre di meno.
Preferivamo fiondarci nelle strade, davanti alle fabbriche occupate, ai cantieri della Lisnave, ovunque si manifestasse il movimento reale.
I soldati lo capivano e venivano a cercarci.
Avevamo la stessa loro età.

Cominciammo a farci anche dei nemici.
I marxisti-leninisti, filo-cinesi, del MRPP (3) ci vedevano come il fumo negli occhi.
Ci chiamavano “scimmie filo-sovietiche”.
Vendevano agli angoli delle strade un giornaletto: O grito do povo.
“Aaaarrgh!!” urlavamo a squarciagola ogni volta che li incrociavamo.

I soldati non erano mai stati teneri con loro.
Le infelici disquisizioni sulla natura proletaria o meno della rivoluzione portoghese, portate avanti dal Grido del Popolo, non interessavano davvero nessuno.
E non portarono mai da nessuna parte se non tra le braccia della controrivoluzione.
La strada per l’inferno è lastricata di cazzate.

Imparai rapidamente il portoghese.
Firmammo qualche volantino distribuito ai cancelli delle fabbriche e sulle piazze.
Anche noi vendevamo il nostro giornale.
La gente iniziò a riconoscerci e a farsi un’idea sicuramente esagerata della forza della nostra organizzazione. Ma “A luta contínua” funzionava benissimo come slogan.

Ogni mattina ci recavamo sulla Praça de Dom Pedro IV, il Rossio.
Il cuore della città dove convergevano le strade del commercio e quelle provenienti dal Bairro Alto, a pochi metri dalla stazione centrale e dalle vie che salivano verso il castello posto a sorvegliare il quartiere di Alfama.
Per noi era il centro del mondo.

Le discussioni animate, il passaggio di cortei e colonne di camionette militari, lo stupore dei turisti e dei benpensanti si fondevano in un caleidoscopio dai mille suoni e dai mille colori.
La democrazia vera cresceva dal basso.
Era creata e difesa dalle lotte.
Non esisteva per decreto, ma di fatto.

La terra aveva già tremato in maniera devastante a Lisbona.
Nel 1755, quando più di diecimila case della città erano state rase al suolo.
Sebastião José Carvalho e Melo diresse la ricostruzione della città e per quel merito fu elevato al rango dell’alta nobiltà. In seguito avrebbe ristrutturato, in chiave moderna, la monarchia portoghese.
Il Rossio era figlio di quel terremoto e del marchese di Pombal.

Oggi il cielo portoghese è rimasto uguale.
L’azzurro è sempre intenso e le nuvole passano veloci trascinate dal vento dell’Atlantico.
La pioggia come allora può arrivare improvvisa e poi altrettanto improvvisamente andarsene.
Come sempre le cose del cielo sono estranee agli uomini.
Le voci sul Rossio ormai tacciono o mormorano inviti all’acquisto di droghe.

Dalle finestre della mia stanza era possibile vedere le nuvole correre sul Tago

Dalle finestre della mia stanza era possibile vedere le nuvole correre sul Tago.
Le osservavo al mattino, prima di alzarmi.
Correvano sempre nella stessa direzione, da ovest e nord-ovest verso est e sud-est.
La ricerca di un cielo mosso dal vento mi spinse, molti anni dopo, a trasferirmi su un’isola.
L’aria ristagnante mi era divenuta insopportabile.

Fin dai primi giorni avevo condiviso quella camera con la compagna dell’ERP.
Ci eravamo riconosciuti subito, l’uno nell’altra.
Condividemmo in quei mesi le passioni, il letto e i nostri corpi.
Passione politica e amore giovanile. Non riuscirò mai più a scindere l’una dall’altra.
Impeto ed Eros ci trascinarono con loro.

Aveva capelli neri dai riflessi bluastri, una carnagione scura e occhi da india.
I denti bianchissimi illuminavano indimenticabili sorrisi.
Una parte della famiglia veniva dall’Austria, l’altra dal profondo del continente latino-americano.
Venne la madre a trovarla. Da molto tempo non si vedevano.
Videla e i suoi compari dovevano ancora dare inizio alla carneficina, ma per lei in Argentina già non era più aria.

Andammo insieme sulle spiagge dell’Atlantico.
Il rumore delle onde e lo stridere dei gabbiani forse già ci avvisarono delle separazioni e delle delusioni che si preparavano.
L’Oceano ispira sempre tristezza e solitudine.
Ci vedemmo per l’ultima volta a Rimini, un anno dopo.

Sulle rive di un mare grigio e melmoso finirono i nostri sogni.
Morì qualcosa a cui avevamo donato anni ed energie.
Non morì ancora la nostra speranza.
Ridemmo delle pagliacciate che avvenivano sul palco.
Ci attendevano anni di febbre, furia e fiele.

Spesso tornammo tardi la sera

Spesso tornammo tardi la sera.
Qualche volta a quattro zampe.
Le nostre spedizioni serali nei quartieri operai alle spalle della LISNAVE finivano spesso in baldorie, vino e canzoni.
Anche l’ultima sera la passai là, con quelli che erano rimasti

In quelle vie scoprimmo la cucina portoghese.
Seduti a lunghe tavole comuni, la cordialità di quei lavoratori.
A ogni canzone corrispondeva un giro di bevute offerte da qualcuno degli astanti.
In una serata si possono cantare molte canzoni.
Il vinho verde e il porto scorrevano paralleli al Tago.

Andare in quei quartieri significava lasciarsi alle spalle la Lisbona ufficiale.
Da Praça do Comércio era possibile raggiungere i moli lungo i quali erano ormeggiate le piccole imbarcazioni destinate ad attraversare lentamente il Tago.
Ci si allontanava lentamente da quella riva e dal fiume l’opera scenografica di Pombal appariva in tutta la sua maestosità.

Dall’altra ci attendevano case più umili.
Sicuramente l’unica scenografia era rappresentata dalle alte gru della LISNAVE.
Eppure quei vicoli e quelle trattorie con i tavoli sulla strada non erano meno belli da vedere per i nostri occhi.
L’odore di bacalhau e di sardinhas dominava su tutti gli altri.

I pesci dell’Atlantico, le lulas, l’açorda de marisco e le omelette di camarões facevano sembrare principesche quelle tavolate.
Non le avremmo cambiate con nessun altro cibo al mondo.
La testa dei pesci più grossi ci veniva offerta in segno di rispetto.
Non mancammo mai di far onore a chi cucinava quelle bontà.

Scoprimmo presto che il carattere portoghese, apparentemente riservato e scontroso, nascondeva una grande gentilezza.
I visi scuri si aprivano poi in sorrisi autentici e gentili.
La grazia era insita nella lingua parlata dalle donne e nei loro gesti.
Le mani dure degli uomini porgevano boccali e si prestavano all’applauso.

Sfoderammo una sera tutto il repertorio di canzoni che conoscevamo.
La risposta fu entusiasmante e conobbi così la logica bianca di cui aveva scritto Jack London.
A dir la verità la mia compagna di allora temette che arrivassi a conoscere anche l’abisso purpureo.
Mi riportò a letto dopo avermi fatto bere un intruglio di caffè, sale e limone, sperando di farmi liberare dal sovrappiù.

Dormii invece un sonno profondo e al mattino, come al solito, fui svegliato da Donato.

1) Amilcar Cabral, fondatore con Agostino Nieto del Partito della indipendenza della Guinea e del Capo Verde (PAIGC), assassinato da agenti della polizia segreta portoghese pochi mesi prima della dichiarazione di indipendenza della Guinea Bissau.
2) PRP — BR: Partido Revolucionário do Proletariado — Brigadas Revolucionárias.
3) Movimento per la riorganizzazione del partito del proletariato, maoista.

(3-CONTINUA)