Andrea Fumagalli e Sandro Mezzadra (a cura di), Crisi dell’economia globale. Mercati finanziari, lotte sociali e nuovi scenari politici, postfazione di Toni Negri, Verona, Ombre Corte/Uninomade, 2009, pp. 238, € 20.00

crisifin.jpgImmaginate un tale che per essersi sporto troppo dalla terrazza di un piano attico senza parapetto (che strano: non s’era accorto della mancanza del parapetto) comincia a cadere giù da un grattacielo di 80 piani. Per bizzarro che sia, quasi nessuno si accorge che sta cadendo, tranne qualche sparuto inquilino (un paio di scrittori di genere, un analista finanziario dalla fama controversa, i soliti docenti radical di economia in qualche università italiana o svizzera, un polacco emigrato a Londra: gente poco affidabile), che cerca di avvertirlo. Ma ad ogni piano il tale continua a ripetere: fin qui tutto bene. E anche i passanti sul marciapiede sottostante gli danno ragione: non sta succedendo niente, piano dopo piano è ancora vivo e integro. E continua a cadere. E a rimbrottare i pochi che cercano di avvertirlo, correggendo i loro calcoli e accusandoli di falsificare la realtà. L’ultima frase che gli si sente dire, all’altezza del penultimo piano, è: «se per 80 piani non mi è successo nulla, come potere pretendere di avere…»

Questa favola morale, composta in occasione di una discussione originata da Valerio Evangelisti con un suo saggio sulla crisi finanziaria [1 e 2], può servire come antefatto al volume collettivo che viene pubblicato in questi giorni a cura di Sandro Mezzadra e Andrea Fumagalli. È un tentativo di comprensione del presente con lo sguardo rivolto al futuro, come lo sono il già citato saggio di Evangelisti, AmeriKadämmerung di Alan D. Altieri, le collaborazioni di Sbancor [1 e 2]. Di questo nuovo libro anticipiamo l’introduzione di Sandro Mezzadra.
PS: Come? Cosa ne è stato dell’uomo che cadeva? Quello che restava di lui è stato lavato dal marciapiede da un ex-broker ora disoccupato, che ha preso il posto della pulitrice guatemalteca senza permesso di soggiorno. Tanto ormai il permesso di soggiorno non l’ha più neanche il broker. G.D.M.

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Sandro Mezzadra: Introduzione

cade.jpg1. La passione della conoscenza, il desiderio impaziente di capire il mondo per trasformarlo: c’è certo anche molta “ragione” all’interno di UniNomade, e in particolare nel volume che inaugura la sua collana di libri. Ma è la “temperatura emotiva” delle discussioni che animano la rete a costituire il suo principale “valore aggiunto”. Da ormai quattro anni (il primo seminario di UniNomade, dedicato a “guerra e democrazia”, si svolse a Padova il 29 e 30 gennaio del 2005), almeno tre generazioni di ricercatori e attivisti cresciuti nel solco della tradizione dell’operaismo italiano si incontrano periodicamente in seminari a cui hanno partecipato centinaia di persone. L’Europa e le reti, la forma nuova assunta dalla metropoli e la governance, le “istituzioni del comune” e i rapporti tra arte contemporanea e attivismo, le metamorfosi del lavoro e quelle dell’Università sono alcuni dei temi affrontati in questi anni, entro un dialogo continuo con esperienze analoghe che si stanno sviluppando nei cinque continenti.
Il punto di partenza del nostro lavoro è la consapevolezza che viviamo in un’epoca in cui è lo stesso statuto dei saperi a modificarsi radicalmente, imponendo (lo ha mostrato da ultimo in modo straordinariamente efficace lo sviluppo in Italia dell’Onda anomala) di ripensare il rapporto tra la produzione di conoscenza e i luoghi istituzionali classici (accademici e politici) che ne avevano conquistato il monopolio. Quando la conoscenza — non solo quella “tecnica”, ma anche quella “umanistica” — diventa immediatamente forza produttiva, la critica dei saperi non è altra cosa dalla critica dell’economia politica. Quando le università diventano snodi essenziali della produzione metropolitana, a nulla vale attardarsi a difenderne la tradizionale “libertà”. Quando è sul terreno dei saperi che si giocano partite essenziali nello sviluppo della lotta tra le classi, non v’è più partito che possa pretendere un primato nella produzione di teoria. E non vi sono più “intellettuali organici” a cui spetti il privilegio della “battaglia delle idee”.

Sono trasformazioni portentose e complesse quelle a cui qui, schematicamente e problematicamente, alludiamo. Non abbiamo soluzioni semplici da proporre, solo il senso di un’urgenza. E la certezza che occorra inventare nuovi luoghi, nuove istituzioni, al cui interno sperimentare inediti rapporti tra produzione di conoscenza, pratiche politiche e sviluppo delle lotte. UniNomade è un primo tentativo in questo senso: la partecipazione ai seminari e al lavoro di costruzione del progetto, non come soggetti “da formare” ma come protagonisti a pieno titolo, di centinaia di attivisti/e di movimento è dunque un elemento qualificante dell’esperienza che abbiamo vissuto in questi anni e che ci proponiamo di continuare a far vivere, ad approfondire e a rendere sempre più efficace nel prossimo futuro. Una collana, quella che questo libro inaugura, è il primo strumento di cui ci dotiamo per allargare l’ambito della nostra discussione, per entrare in modo più diretto e incisivo nel dibattito pubblico. Per cercare interlocutori e alleati.
Veniamo, come si diceva, dalla grande tradizione dell’operaismo rivoluzionario italiano, e il nostro lavoro si colloca all’interno di quello a cui ormai, nel dibattito internazionale, ci si riferisce con la formula, certo insoddisfacente ma non priva di efficacia, di post-operaismo. Avvertiamo tuttavia forte l’esigenza di mettere in discussione i nostri stessi strumenti teorici, di aprirci a una discussione con altre correnti, con altre pratiche teoriche che in questi anni hanno contribuito alla comprensione critica del presente: dagli studi postcoloniali agli sviluppi più recenti del femminismo, dalla riflessione sui nuovi media alle nuove frontiere della filosofia politica, per limitarci a qualche esempio. Anche sotto il profilo politico, la nostra proposta di discussione è a tutto campo. Abbiamo cara la scienza — e dunque la ragionevolezza — della sovversione, e non esitiamo a definirci, ancora e sempre, rivoluzionari. Ma non è certo di vuote formule che si nutre il nostro lavoro teorico e politico. Ci interessano le lotte e i soggetti che vivono, soffrono, costruiscono gioia e cooperazione dentro le lotte. È a questi soggetti, senza chiedere documenti di identità, che ci rivolgiamo. Solo chi nulla ha da dire sul presente si accapiglia attorno a presunte gloriose eredità del passato: non è il nostro caso.

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Krah.JPG2. Alla crisi globale in cui viviamo non poteva che essere dedicato il primo libro della collana di UniNomade. Due seminari lo hanno preparato, il primo svoltosi a Bologna, presso il Dipartimento di Politica, Istituzioni e Storia e presso il centro sociale TPO, il 12 e 13 settembre del 2008, e il secondo svoltosi a Roma, presso la Facoltà di Filosofia della Sapienza e presso l’atelier occupato ESC, il 31 gennaio e il primo febbraio di quest’anno. Ma questo volume non presenta gli atti dei due seminari: è molto di più, è l’esito di una discussione collettiva che si è protratta per mesi, attraverso la nostra lista di discussione e una serie di altri incontri in Italia, in Spagna, in Svezia, in Brasile e in Francia, coinvolgendo — oltre agli autori dei contributi qui pubblicati — decine e decine di compagni e compagne. Una riflessione corale, dunque, solo in parte sintetizzata nelle 10 tesi che concludono il volume.
Una convinzione di fondo ha guidato il nostro lavoro in questi mesi, sotto l’incalzare della cronaca della crisi: quella che stiamo vivendo è una crisi di tipo nuovo, che investe la figura complessiva del capitalismo uscito rinnovato dalla grande crisi degli anni Settanta — a partire da quella dichiarazione dell’inconvertibilità del dollaro che, inaugurando nell’agosto del 1971 il regime dei cambi flessibili, si proponeva essenzialmente di sganciare il sistema monetario dalle lotte sul salario dell’operaio massa multinazionale. Sappiamo bene — lo abbiamo imparato da Fernand Braudel e dai teorici della world system theory — che la “finanziarizzazione” non è un fenomeno nuovo. Conosciamo ad esempio l’importanza dell’espansione finanziaria che ebbe come sua sede principale l’enclave capitalistica dell’Italia settentrionale tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo, in cui “si formarono gli agenti del primo ciclo sistemico di accumulazione e si prefigurarono le principali caratteristiche di tutte le successive espansioni finanziarie” [1].

E tuttavia siamo convinti che nel nostro tempo, indipendentemente da quanto se ne possa pensare a proposito del passato, non valga più la tesi, centrale ad esempio nel lavoro di Giovanni Arrighi, secondo cui i “cicli sistemici di accumulazione” sono costituiti da fasi di “espansione finanziaria” che seguono le fasi di “espansione materiale” [2]. Quel che ci appare evidente, e che in particolare i saggi di Christian Marazzi e Andrea Fumagalli argomentano in dettaglio, è il carattere pervasivo della finanza all’interno di un capitalismo che ha assunto negli ultimi decenni caratteri radicalmente nuovi. Al punto che la stessa distinzione tra “economia reale” ed “economia finanziaria” (tra “espansione materiale” ed “espansione finanziaria”) si trova oggi a essere destituita di fondamento in primo luogo sotto il profilo analitico.
È un problema che riguarda la nostra comprensione storica di quello che il modo di produzione capitalistico è stato ed è. Abbiamo ormai appreso, sulla base di un’ampia mole di studi storiografici, che è esistito un capitalismo prima della rivoluzione industriale, un capitalismo “pre”-industriale, a base essenzialmente commerciale. Ne risulta evidente la possibilità che esista un capitalismo “post”-industriale, che alcuni dei contributi pubblicati in questo volume propongono provvisoriamente di definire con formule quali “capitalismo cognitivo” o “bio-capitalismo”. Più importante della pertinenza di queste formule, tuttavia, è il problema che esse pongono, in particolare in riferimento al ruolo della finanza. In un libro fondamentale, pubblicato nel 1909, Rudolf Hilferding analizzava sulla base di due fenomeni chiave del suo tempo (lo sviluppo delle società per azioni e della banca mista, di credito industriale alla tedesca) le trasformazioni che stavano investendo la finanza al culmine del processo inaugurato proprio dalla Rivoluzione industriale, da quella cesura storica a partire dalla quale il capitalismo si era fatto appunto industriale [3]. Nostra convinzione è che la finanza debba essere indagata oggi nella stessa prospettiva di metodo, considerando cioè le trasformazioni che la hanno investita negli ultimi decenni come sintomi di un’analoga cesura epocale.

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help.jpg3. È bene intendersi, una volta per tutte. Quando parliamo di una trasformazione radicale del modo di produzione capitalistico, di un capitalismo che non è più “industriale”, siamo ben lungi dal negare l’importanza (per certi aspetti perfino crescente) che produzione e lavoro industriale continuano ad avere a livello globale, nonché nei nostri stessi territori. Insistiamo piuttosto sul fatto che anche questa produzione e questo lavoro vengono progressivamente “articolati” in (e comandati da) processi di valorizzazione e accumulazione del capitale che funzionano secondo logiche diverse da quelle appunto “industriali”. E richiamiamo l’attenzione sul fatto che questi processi vengono sempre più distendendosi sullo sfondo dello sfruttamento e della “cattura” della produttività di potenze astratte e comuni — dal sapere al bios, dalla cooperazione sociale a quella che Carlo Vercellone definisce la “produzione dell’uomo per l’uomo”. L’ibridazione tra capitale finanziario e socialità del web 2.0 descritta da Tiziana Terranova nel suo saggio rappresenta un’esemplificazione straordinariamente suggestiva di questa nuova condizione. Ed è su questa base, del resto, che deve essere letta la tesi del “divenire rendita del profitto”, presentata nel volume dallo stesso Vercellone e, nella postfazione, da Antonio Negri.

Ne risultano problemi enormi per la definizione di quella che è oggi, sul livello globale su cui si determinano valorizzazione e accumulazione del capitale, la composizione di classe. Mentre molti contributi riprendono a questo proposito la categoria di “moltitudine”, Karl Heinz Roth, in un testo originariamente pubblicato nel sito della rivista tedesca wildcat, propone di ragionare attorno alla formula di “multiverso, in continua trasformazione, della classe operaia mondiale”. Ci pare una proposta di grande interesse tanto sotto il profilo analitico quanto sotto quello politico: in questa sede ci limitiamo a sottolineare come essa emerga tra l’altro da un produttivo confronto con quella “global labor history” che ha modificato in profondità, negli ultimi anni, gli studi storici su proletariato e classe operaia. Una prospettiva di lungo periodo, capace al tempo stesso — come scrive Roth — di emanciparsi dalle ristrettezze di un punto di vista “nazionale ed eurocentrico”, consente in particolare di ridefinire i dibattiti sulla “precarietà” e la “flessibilità” del lavoro. E di liberarli dall’ipoteca di un’immagine del “rapporto lavorativo normale” (a tempo indeterminato e corredato di una serie di “diritti sociali”) che appare in realtà costruita sulle caratteristiche del “fordismo” in Occidente. E che, qualora la si consideri dall’interno della lunga storia globale del modo di produzione capitalistico, appare assai più “eccezionale” che “normale”. È appena il caso di notare, ancora una volta, come si tratti di una questione fondamentale dal punto di vista politico non meno che da quello storico e analitico.
È d’altro canto una questione, come molte altre sollevate nel volume, che interpella problematicamente alcuni concetti fondamentali forgiati nello stesso laboratorio teorico dell’operaismo italiano. Lo abbiamo accennato in altra sede a proposito del rapporto tra “sussunzione formale” e “sussunzione reale” del lavoro al capitale, nonché tra “plusvalore assoluto” e “plusvalore relativo” (e Antonio Negri riprende qui la questione, svolgendola sul terreno dell’analisi della rendita). Più in generale, è un rapporto determinato tra lotte e sviluppo, nonché tra ciclo e crisi, che non sembra più tenere laddove si prenda seriamente il discorso di Carlo Vercellone a proposito dell’esaurimento delle virtù progressive del capitale. E lo stesso metodo della tendenza, certo tra le eredità più preziose dell’operaismo storico, deve essere conseguentemente ricalibrato sui ritmi di uno sviluppo capitalistico che pare ormai inscriversi nella crisi come proprio orizzonte definitivo.

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bkeaton.jpg4. Anche qui sarà bene spiegarsi. Lungi da noi l’idea di riesumare ipotesi “crolliste”. Il capitale è crisi, e nella crisi può sopravvivere per secoli… Né è scontato che dopo il capitalismo venga qualcosa di meglio. Siamo in ogni caso propensi a pensare, con Walter Benjamin, che “il capitalismo non morirà di morte naturale” [4]. Quello su cui ragioniamo è un mutamento delle “coordinate temporali” del capitalismo (il che significa, in primo luogo, del modo in cui il capitale tenta di organizzare il tempo e la vita delle donne e degli uomini che sono sottoposti al suo comando e che vivono la realtà dello sfruttamento) non meno radicale di quello che ha investito le sue “coordinate spaziali” nel presente globale. E tentiamo in particolare di derivarne alcune conseguenze sotto il profilo delle categorie politiche con cui la crisi deve essere letta. Se Andrea Fumagalli sottolinea in questo senso la problematicità di ogni stabilizzazione “riformistica” dello sviluppo capitalistico contemporaneo, Christian Marazzi e Bernard Paulré, avviando un dialogo produttivo con le recenti letture della crisi avanzate in seno alla scuola della regolazione francese, si soffermano sulle torsioni a cui è sottoposta, nella crisi, la categoria di governance.

Altre considerazioni si potrebbero aggiungere dal punto di vista delle trasformazioni dei concetti e dei problemi politici che emergono dall’analisi della crisi. Si potrebbe ad esempio ragionare a lungo sulle avventure di un concetto classico della politica moderna, quello di “opinione pubblica”, che quanto meno a partire dal XII capitolo della General Theory di John Maynard Keynes [5] abbiamo imparato a indagare sul terreno dei mercati borsistici. Qual è il ruolo dell’opinione in una situazione in cui, quasi a evocare una crisi di “leggibilità” (l’incapacità del capitale di leggere la composizione del lavoro del cui sfruttamento vive), l’opinione si trova a operare all’interno di quella che Tiziana Terranova definisce una “nebbia di dati”? Ma ancora, per accennare soltanto stenograficamente a un tema fondamentale, affrontato nel volume da Stefano Lucarelli e Federico Chicchi: come definire in modo rigoroso le metamorfosi del potere e della figura stessa della soggettività che alle trasformazioni descritte corrispondono?
Quello su cui vorremmo conclusivamente soffermarci è tuttavia un altro punto: ovvero il senso preciso, che emerge complessivamente da questo libro, dei rischi e delle opportunità che la crisi presenta. L’attacco (esplicitamente razzista) alla condizione dei migranti, che abbiamo conosciuto in questi mesi in Italia, è un primo assaggio di questi rischi, di cui si potrebbero trovare precisi riscontri in altri Paesi del mondo [6]. Sullo sfondo, poi, vi sono le grandi tensioni geopolitiche e monetarie descritte da Christian Marazzi, con lo spettro della guerra (di quelle in corso e di quelle che si preparano) sempre presente nel nostro orizzonte. Ma, nel loro insieme, i contributi che qui presentiamo indicano terreni fondamentali di lotta che proprio nella crisi si aprono e che mostrano intera la possibilità di lavorare a un’uscita in avanti da essa. Di un’uscita dalla crisi, cioè, nella direzione di quella costruzione di un nuovo terreno comune, su cui reinventare l’uguaglianza e la libertà, che del percorso di UniNomade costituisce, e continuerà a costituire, il vero e proprio filo rosso: le lotte sul reddito e sul salario e le lotte sul welfare, in particolare, si presentano completamente riqualificate dentro la crisi. E costituiscono il campo privilegiato in cui sperimentare quella sintesi di uso spregiudicato del riformismo, nella consapevolezza dei suoi limiti strutturali, e riapertura di una prospettiva rivoluzionaria a cui ci invitano a pensare, con linguaggi diversi ma in ultima istanza convergenti, tanto il saggio di Karl Heinz Roth quanto la postfazione di Antonio Negri.

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Note

[1] Giovanni Arrighi, Il lungo Ventesimo secolo. Denaro, potere, e le origini del nostro tempo, trad. it. Il Saggiatore, Milano, 1996, p. 124.
[2] Ibidem. Ricco di spunti innovativi è del resto, anche da questo punto di vista, il recente, importante lavoro di Giovanni Arrighi, Adam Smith a Pechino. Genealogie del Ventunesimo secolo, trad. it. Feltrinelli, Milano, 2008.
[3] Rudolf Hilferding, Il capitale finanziario, ed. it. a cura di G. Pietranera, Feltrinelli, Milano, 1961.
[4] Walter Benjamin, Parigi capitale del XIX secolo, trad. it. Einaudi, Torino, 1986, p. 848 (X, 11a, 3).
[5] John Maynard Keynes, Occupazione, interesse e moneta. Teoria generale, trad. it. Utet, Torino, 1947, pp. 129-143. Scrive tra l’altro Keynes: «una valutazione convenzionale, che è il risultato della psicologia collettiva di un gran numero di individui ignoranti, è soggetta a variazioni violente in seguito a un’improvvisa fluttuazione dell’opinione, dovuta a fattori che in realtà non esercitano una grande influenza sul rendimento prospettivo» (p. 135).
[6] Le ripercussioni della crisi sul lavoro migrante, in una situazione in cui la mobilità è un elemento chiave nella definizione della composizione del lavoro vivo a livello globale, sono un tema fondamentale di analisi e di intervento politico, qui solo accennato. Per tacere del fatto che, all’inizio di dicembre dello scorso anno, Vladimir Putin ha praticamente annunciato in diretta TV l’intenzione di espellere dalla Russia un paio di milioni di migranti provenienti in buona parte dalle repubbliche ex-sovietiche, ci limitiamo a due esempi. Entrambi sono tratti dalla cronaca recente e si riferiscono alle migrazioni interne che hanno rappresentato uno dei volani essenziali dello sviluppo economico cinese degli ultimi anni e ai migranti indiani nei Paesi del Golfo: Simon Rabinovitch, Economic crisis reverses flood of migrants in China, in “International Herald Tribune”, December 30, 2008, e N. Raghuraman, Indians Flee Dubai as Dreams Crash – Fall out of Economic Crisis, in “daijiworld.com”, January 14, 2009 (qui).