di Filippo Casaccia

The Derek Trucks Band, Already Free, Sony Music/Victor, 2009

AlbumCoverDTB.jpgChi è Derek Trucks e perché bisogna parlare di lui su Carmilla?
Derek Trucks ha 29 anni ed è ormai un veterano: suona professionalmente da quando ne ha 11 e pubblica ottimi dischi dal 1997. È probabilmente il miglior chitarrista slide dai tempi di Duane Allman e la sua band mescola passato e futuro, soul e rhythm and blues, Miles Davis e John Coltrane, country blues e blues elettrico, influenze pakistane ed africane, tanto che potremmo dire che ha i piedi ben piantati nel Delta: quello del Mississippi, come del Gange o del Niger. È nipote di Butch Trucks, storico batterista degli Allman Brothers (con cui Derek suona stabilmente a ogni reunion annuale), e da loro ha preso la felice tendenza alla jam che ha spesso condiviso con illustri maestri come Dylan, B.B. King, Johnny Winter, Santana e Clapton. Inoltre Derek, erede dello spirito libertario e comunitario dei Grateful Dead e della Allman Brothers Band, consente di registrare e diffondere ogni suo concerto (su www.archive.org; alla domanda diretta se fosse possibile farlo ha risposto con un laconico: yes, go ahead). In un momento in cui il mercato mainstream è agonizzante, la Derek Trucks Band è un esempio di sopravvivenza ai trend, ai direttori di marketing e al pensiero unico di MTV: è una boccata d’ossigeno per chiunque ami la musica.


Il suono di Derek Trucks è prodotto da un bottiglino medicinale in vetro che, sulle corde di una Gibson SG, produce un suono vellutato, dolce, non pungente come se fosse suonata con uno slider metallico, ma piccante e speziato, che vi provocherà la classica “sindrome di Cocker”, Joe Cocker, quella di cui è malato terminale Zucchero: un’irrefrenabile voglia di agitare il corpo all’unisono con la sezione ritmica, mentre le mani disegneranno nell’aria il fraseggio chitarristico.
Il nuovo disco Already Free non è magicamente dispersivo come altre prove della Derek Trucks Band. Arriva dopo quel capolavoro di sintesi tra le differenti influenze prima citate che era Songlines e riporta tutto a casa, in tutti i sensi.
Registrato nello studio di famiglia in Florida, dove vive con la chanteuse blues Susan Tedeschi, Already Free è la summa del lavoro on the road e in studio di questi ultimi dodici anni, asciugato in dodici pezzi che — se amate il rock libero da condizionamenti — vi faranno ballare, sognare e cantare come raramente ormai accade. Se in prove precedenti il lavoro in studio era il trampolino di lancio per improvvisazioni lancinanti o groove epilettici, questa volta Derek e compagni (e amici assortiti) hanno optato per la forma-canzone tradizionale, lasciando all’evoluzione live l’eventuale dilatazione. Ma resta il fatto che ci troviamo di fronte a dodici brani bellissimi, dove si respira il sound delle paludi e dei campi di cotone e un sarod o un flauto ci ricordano che il blues vive in ogni parte del mondo.

Nell’ottobre 2007 Derek Trucks è passato da Milano con la sua band per uno splendido concerto (che potete scaricare legalmente qui) e prima di salire sul palco ho avuto il piacere d’intervistare questo gentiluomo del Sud. Eccovi un estratto della chiacchierata che abbiamo fatto.

Penso che la tua scelta di lasciar registrare i vostri concerti sia condivisibile politicamente ed eticamente, ma forse — a differenza di ciò che pensa chi ha il terrore della condivisione — rappresenta anche un’opportunità economica, no?

Beh, ci aiuta senz’altro a costruire una solida base di fan, perché musica come la nostra non passa nella radio mainstream… e poi noi, sostanzialmente, viviamo di musica dal vivo, non certo grazie alle vendite dei dischi. Per cui aiuta anche a far sapere che ci siamo e che suoniamo a questa maniera. La Sony non ha obiettato nulla: per noi è così da sempre e il punto non è stato neanche discusso. Siamo quel tipo di band, non possiamo cambiare. E poi se ogni concerto finisce in Rete, sei sempre all’erta, sei costretto, ed è come un’esame: ti registrano ogni sera e non puoi permetterti di sbagliare!

Una volta Duane Allman, che era uno hippie libertario, disse: “Mangio una pesca per la pace” (da cui l’album degli ABB Eat a Peach). Cosa si può dire ora, che gli USA sono ancora una volta in guerra?

È un periodo molto brutto. Metà della nostra popolazione si sente impotente, come succede nel resto del mondo. E ti chiedi what the fuck it’s happening?! Come cittadino e artista, come posso cambiare le cose? Secondo me, l’unica è fare al meglio quello che sai fare. Solo così puoi comunicare con chi non la pensa come te. Non è discutendo che convinci questa gente, è più facile fargli vedere la luce in un’altra maniera. Io suono musica indiana classica, musica pakistana. È un’altra cultura, un altro feeling. Suonarla trasmette l’umanità di chi l’ha creata e fa capire qualcosa di una cultura lontana dalla nostra. Ci avvicina e forse farà capire qualcosa che sfugge a chi è favorevole a questa guerra, a chi ci sente diversi e superiori.

Andando in tour per il mondo è cambiata la percezione che sentivate intorno a voi, rispetto agli USA e alla loro politica?

Purtroppo sì, il cambiamento si è sentito chiaramente. La musica — che è stato un cambiamento positivo portato dagli USA al mondo — ci preserva dal brutto che hanno esportato gli altri, i politici, i militari. Quando giri per gli Stati Uniti ti rendi conto che molto gente non sa quello che succede, vive nella sua piccola bolla e c’è un uno per cento che decide per lui. Spero che con le nuove elezioni cambi qualcosa… Io l’ultima volta sono rimasto scioccato. Non pensavo che Bush potesse essere rieletto dopo tutto quello che aveva combinato. Ci sono un milione di teorie su come sia potuto accadere ma credo semplicemente che le ultime due elezioni siano state truccate. Come in Florida: a Jacksonville, dove vivo, ricordo che dopo aver votato con mia moglie sentivamo alla radio che nelle zone della città a maggioranza afroamericana le sezioni elettorali erano state chiuse, impedendo agli elettori di votare. Ma non s’è mai saputo se fosse vero: delle elezioni del 2000 ne hanno scritto Chomski e altri… nel 2004 è rimasto tutto misterioso. Barak Obama mi dà speranza, ma la mia è solo un’impressione. Però credo che non vinceranno i repubblicani. C’è bisogno di positività. E tornando alla musica: è questo il suo potere, è positiva. In fondo, non importa se sei ricco o sei povero, per vivere bene è l’atteggiamento che conta.