di Dziga Cacace

sm10a.jpg290-Stranger Than Paradise di Jim Jarmusch, USA 1984

Ed eccoci, finalmente, al tanto decantato capolavoro di Jarmusch. Alle mie perplessità sul regista veniva sempre replicato con “Ma hai visto Stranger Than Paradise?” e io dovevo azzittirmi. Ora no. Dunque, partiamo con le invarianti del regista: Stranger Than Paradise presenta il solito b/n, il solito tema narrativo, la solita camera fissa (preferibilmente il solito grandangolo) e i soliti carrelli laterali lungo le solite strade sporche e i soliti vicoli cadenti. Va da sé che nello spettatore attonito subentri, per tanta originalità messa in campo, un immediato (e solito) turbinio di coglioni. Però, in fondo, provo come un senso di attrazione per il cinema di ‘sto disgraziato… un po’ come la Hilda con De Palma. E poi, come non ammirare la capacità di trasformare in lungometraggi dei plot (dei plot… uno, lo stesso per tutta la carriera) che andrebbero bene per un corto da 4 minuti? Mah.


Innanzitutto: a cosa si ispira Jarmusch? Alla sua vita privata? Ai suoi amici? Ma provate a immaginare la cumpa di Jim: uno stuolo di tronati che gironzolano per casa o fissano inebetiti la televisione e che, in un sussulto di attivismo, talvolta vanno alle corse dei cavalli. E mi chiedo: cosa intriga di ‘sto autore? Perché anch’io guardo i suoi film? Mah. Mettiamo da parte le riserve mentali: del film mi sono piaciute, come al solito, le location e la fotografia. La storia mi ha invece un po’ rotto, ma è chiaro che il giudizio non ha alcun valore, infatti questo è l’originale e sono i film seguenti a essere ripetitivi; comunque è emblematico il dialogo tra Lurie e il suo compare (“Cosa faccio io, qui?”, risposta “Non so”) che esplicita la domanda che lo spettatore va facendosi da almeno mezz’ora. Altri dialoghi sono, invece, premonitori del cinema di Jarmusch che verrà: “Ogni posto sembra uguale agli altri”. Comunque, ecco il guizzo di originalità che non verrà più ripetuto: anche stavolta il regista non si esime dal farci ascoltare una storiellina ma, sorpresa!, Lurie non se ne ricorda il finale. Geniale. (Vhs)

291-La strada della vergogna di Kenji Mizoguchi, Giappone 1956

Bernardo sarebbe orgoglioso di me: finalmente Mizoguchi! Siamo in Giappone nel dopoguerra: mentre in parlamento si dibatte sulla legittimità della prostituzione, assistiamo alla vita che si svolge in una casa di piacere del quartiere Yoshiwara. Il regista delinea una serie di convincenti ritratti: abbiamo le prostitute giovani e ciniche (quarant’anni prima di Vesna) o quelle che rimpiangono il mestiere di una volta (quando le geishe sapevano danzare, comporre i fiori, suonare gli strumenti musicali e fare anche altre cosine, eh, eh), abbiamo quelle anziane che non trovano più clienti e quelle che tentano un’improbabile redenzione sociale con il matrimonio. Oggi possono sembrare figure un po’ stereotipate, ma parliamo di quasi mezzo secolo fa. Mizoguchi indaga la dolorosa condizione dello sfruttamento ma anche della vita difficile fuori “dal giro”; è partecipe del dramma ma non è né pietistico né moralistico. Come direbbe Bernardo è questione di stile e lo stile è un fatto di morale. Regia sobria, ottima sceneggiatura. Molto bello. (Vhs)

292-Il fiore del mio segreto di Pedro Almodòvar, Spagna/Francia 1995

Annunciato in tutti i sensi come un nuovo Almodòvar, Il fiore del mio segreto mantiene parzialmente la promessa di affrancarsi dai consueti canoni narrativi che contraddistinguono lo straripante regista spagnolo. L’impianto è drammatico, ma non mancano le solite brucianti sferzate sarcastiche. A tratti il film funziona sia su un versante che sull’altro (come non ghignare di fronte ai dialoghi tra cameriera e padrona di casa?) ma il risultato complessivo convince molto meno e l’interessante apparato formale (la ricerca cromatica e le inventive scelte di punti di ripresa) aiuta forse a coprire la scarsa vena narrativa, piuttosto che far intravedere una crescita registica. Del resto la partecipazione dell’idolo delle donne Joaquin Cortés, sembra l’amo per pescare nel pubblico più bieco. Seppur lontanissimi dalla magica alchimia che mescolava humour al vetriolo e dramma in Che ho fatto io per meritare questo?!, il film è godibile ma convincente no, proprio no. (Vhs)

293-Edipo re di Pier Paolo Pasolini, Italia 1967

Capolavoro entusiasmante. Pasolini procede alla rilettura del mito di Edipo in una maniera estremamente personale e originale, saltando dall’Italia dei primi del Novecento agli albori della Storia. Utilizzando paesaggi inconsueti (il Marocco e le sue città senza tempo), costumi semplicissimi ma fortemente evocativi e volti intensi e puri, Pasolini rilegge il mito senza rinunciare alla sua ricerca di nuove forme di linguaggio espressivo (la cinepresa a spalla costantemente tremolante, i controluce, i lunghi silenzi, i salti temporali all’inizio e alla fine). Il risultato è un’opera appassionante che mi ha pienamente conquistato. E bravo P.P.P. E pure io, s’intende. (Vhs)

294-Festival di Pupi Avati, Italia 1996

Che dire? Dopo le porcate tipo Bix o L’amico d’infanzia, Avati torna alle piccole storie che predilige: ispirandosi vagamente alla vicenda di Walter Chiari e strizzando l’occhio allo spettatore, ci racconta l’illusione di un attore che tenta il grande rilancio grazie alla rassegna del cinema di Venezia. Quando la Coppa Volpi sembra vinta, la beffa. Il film gioca molto sulla sua ambiguità: in fondo Festival era veramente presente a Venezia e Boldi è veramente un attore da sempre snobbato dalla critica (ah, manigoldi!, disse Massimo, ritirando l’ennesimo assegno per gli incassi del suo film) ma, esattamente come nella storia che racconta, anche Festival è un film mediocre. Sicuramente per chi frequenta il Lido di Venezia il film avrà un sapore particolare, ma tutto sommato le varie gag sui cinéphile, sui critici e sulla stampa divertono per i primi cinque minuti, poi diventano ripetitive e caricaturali. Boldi? Dignitoso, ma il ruolo non gli consentiva di dimostrare qualità particolari. Film piccolo negli intenti e nei risultati. (Cineclub Lumière; 16/11/96)

SM10b.jpg295-¡Que viva Mexico! di Sergej M. Ejzenštejn e Grigorij Aleksandrov, URSS 1973

Straordinario incompiuto che venne ricostruito dal fido aiuto-regia di Ejzenštejn, Aleksandrov, durante i primi anni Settanta, quando finalmente il MOMA restituì ai proprietari morali dell’opera il materiale girato. A detta dei critici l’operazione fu abbastanza rispettosa (e che cacchio ne sapevano? Erano nella testa di Ejzenštejn all’epoca del soggiorno messicano?). Al di là di tutte ‘ste menate sull’opportunità del recupero etc., etc., il film colpisce con una forza visiva sconvolgente e con un ritmo narrativo fluido ed emozionante, a metà tra il documentario antropologico e il gusto di narrare; Tissé fotografa carne e pietra in maniera travolgente, aiutando a costruire un’opera intensissima. Un commento musicale che oscilla tra la cucaracha, Santa Esmeralda e i Tavares raffredda gli entusiasmi, ma di questo Sergej non è responsabile. Un bootleg assolutamente stupendo. (Vhs)

296-Giulia di Fred Zinneman, USA 1977

Lillian Hellman ricostruisce, ormai anziana, la sua amicizia con Giulia, una ricca aristocratica dedita alla causa socialista. Lillian (interpretata da una bravissima Jane Fonda) è scrittrice e vive con Hammett. Nel momento del suo maggior successo, Giulia (Redgrave) le chiede di portare per lei del denaro nella Berlino nazista: l’operazione riuscirà ma Giulia verrà uccisa. Il racconto è ben costruito e soddisfano le accurate ricostruzioni d’epoca (l’allegro cenone di Capodanno con i genitori di Giulia) e la tensione narrativa che raggiunge il suo culmine nel viaggio nella Germania nazista. Un film di impianto classico, decisamente piacevole. (Vhs)

297/298-Il castello di Vogelod e Il campo del diavolo di Friedrich Wilhelm Murnau, Germania 1921 e 1922

Double feature al Lumière con due rare pellicole del maestro teutonico: il Dio del cinema (Bertolucci, n.d.A.) renda merito a Claudio ed Enrico per l’eroica iniziativa che vede abitualmente presenti dieci/quindici persone in sala. Il primo film è un’originale variazione “gialla” che non rinuncia però a una sorprendente (per i tempi) analisi psicologica dei personaggi. La trama è complicata e riserva alcuni colpi di scena. Tra le cose notevoli i sogni dei protagonisti, in uno dei quali appare minacciosa una mano con lunghe unghie che anticipa Nosferatu. Il secondo film è ancora più interessante. In valore assoluto è quello che mi è forse piaciuto di più nella meritoria rassegna. Un’intricata trama permette al regista di sfoderare un apparato formale assolutamente superbo. La fotografia è eccezionale, così come la scelta e la composizione delle inquadrature. Le scenografie, i motivi architettonici, i giochi di luci e ombre e le soluzioni di montaggio sono esaltanti. Anche narrativamente, seppur in un ambito melodrammatico che costringe i personaggi, ci sono molti spunti originali: il rapporto con la terra, l’avidità borghese, il rapporto di rivalità tra madre e figlia. Insomma, Murnau è un genietto. Bravo Lumière. (Cineclub Lumière; 20/11/96)

299-Il ladro di bambini di Gianni Amelio, Italia/Francia 1992

In ritardo di quattro anni buoni, vedo finalmente l’acclamato film di Amelio e rimango conquistato dall’intensissima semplicità, formale e narrativa. Ci sono due o tre cadute di gusto (come la stretta di mano in primo piano) ma nessuno è perfetto (e poi, Amelio, affrontiamo con più dignità il problema della calvizie, via!) e in più di un momento mi commuovo come un lattante. Bello. (Vhs)

300-Ieri, oggi, domani di Vittorio De Sica, Italia/Francia 1963

Film a episodi di clamoroso successo, con la Loren e Mastroianni a farla da padroni. Il primo episodio, Adelina, sceneggiato da De Filippo e ambientato in una Forcella da cartolina con tutti gli stereotipi della napoletanità, è divertente e gradevole. Gli altri due, scritti da uno Zavattini in clamoroso ribasso, sono invece deludenti: Anna, da un racconto di Moravia, non vale proprio niente, mentre Mara, se non altro, contiene la celeberrima sequenza dello spogliarello di Sofia davanti all’arrapatissimo Marcello (se devo però dire, oggi, eros dal sapore necrofilo). Film decente. (Cineclub Lumière; 10/12/96)

301-Tabù di Friedrich Wilhelm Murnau, USA 1931

Dall’insolita collaborazione tra Murnau e Flaherty nasce un capolavoro struggente. L’amore tra due innocenti isolani di Bora-Bora, Reri e Matahani, deve interrompersi perché lei viene dichiarata sacra e tabù dall’anziano capo spirituale della comunità, un vecchio babbione senza cuore. Un’effimera fuga non eviterà il tragico finale. Molto bello (e fotografia notevole). (Cineclub Lumière; 11/12/96)

302-Blue in the Face di Wayne Wang e Paul Auster, USA 1995

Avrei potuto scrivere questo commento anche senza vedere il film ma, siccome io sono un critico serio, ho diligentemente affrontato gli evanescenti novanta minuti di questo divertissement che diverte molto gli autori ma straccia le palle agli spettatori. Lou Reed, Jim Jarmusch e Michael J. Fox offrono delle comparsate gradevoli (per me; per mio padre, che non li conosce, erano interventi senza senso), ma tutto il resto annoia e l’idea di raccontare Brooklyn attraverso delle brevi interviste ai suoi abitanti affonda miseramente in commenti inconsistenti e punto interessanti. Chiaramente all’uscita del film si parlò di un’opera carina, intelligente, ben scritta (Earl Grey Ennio e con lui l’unanime critica giornalistica, incredibilmente retribuita per dire fregnacce) e tante altre balle. Il film non è nient’altro che una serie di sketch girati in quattro giorni, con la pellicola avanzata da Smoke e con un po’ di amici. Per cui è una cacchiatina esile, a tratti sfiziosa ma perlopiù inutile. Lo sapevo già e il giudizio favorevole di Ennio, che ne discettava in piazza a Champoluc, mi aveva ulteriormente convinto di aver ragione. L’avevo. (Vhs)

303-L’altro delitto di Kenneth Branagh, USA 1991

Non so quale sia il “primo delitto”, ma è indubbio che l’orrendo titolo italiano si attagli perfettamente al film in questione. Non ho mai avuto particolare attrazione per il cinema di Branagh: Tanto rumore per nulla mi aveva sinceramente tediato, mentre per il film ambientato nel …gelido inverno (non ricordo il titolo) mi era bastato il deprimente trailer che passava al Lumière. Branagh ha una faccia simpatica, ma si prende un po’ troppo sul serio sia come regista che come attore: L’altro delitto è un giallo caotico dove si mescolano atmosfere hitchcockiane, recitazioni amatoriali (la Thompson era un cane!), un b/n ricercatissimo, inquadrature originali e banalità da serial televisivo. La trama fa ricorso a reincarnazioni, karma e altre amenità simili, per rendere credibile un soggetto farsesco. Il finale, circa cinque minuti di rallenti nel momento che in teoria dovrebbe essere il più thrilling, è decisamente in tema con quest’opera sconclusionata e irritante. Branagh è un bel cane, incredibilmente adorato dalla critica. Vai a capire. (Vhs)

304/305-Le retour à la raison e Emak Bakia di Man Ray, Francia 1923 e 1926

Immersione surrealista per mettere una pezza alle mie gravissime lacune. Si parte con le due opere più importanti di Man Ray per toccare finalmente con mano i vari esperimenti di cui ci aveva parlato due anni fa Christian Lebrat. Le retour… è un “cortissimo” che assembla con misteriosa logica una serie di fotogrammi astratti (positivi e negativi) e scene naturalistiche: la pellicola sembra impressionata nei modi più strani e riconosciamo le sagome di viti, molle, chiodi e puntine. Queste immagini sono alternate alle tracce di luce che vengono disegnate nella notte dalla giostra di un lunapark. La sequenza conclusiva mostra un nudo di donna sulla cui pelle ondeggiano delle tenui ombre, quasi a disegnare un impercettibile pizzo o un caotico tatuaggio in movimento. Inquietante e bellissimo! Emak Bakia, programmaticamente sottotitolato cinépoème, inizia con alcuni fotogrammi di Le retour… per poi distaccarsene completamente: la materia visiva è più vasta e sembra organizzata in modo più coerente. La cinepresa indaga le possibilità compositive date dai riflessi nell’acqua e nei prismi di vetro o dalle immagini caleidoscopiche che ne derivano, alternando le suggestioni formali delle figure astratte a soggetti naturalistici. Vediamo così, con una ripresa basculante, immagini sottomarine o il movimento dell’acqua sulla rena. Come leitmotiv, a più riprese tornano insistenti immagini di occhi e il film si chiude (nuovamente in modo inquietante) su di una donna che ha degli occhi disegnati sulle palpebre a simboleggiare un metaforico sogno a occhi aperti. Film folli e geniali, molto suggestivi. (Vhs)

306-Anémic cinéma di Marcel Duchamp, Francia 1926

Esperimento cinematografico contemporaneo a quelli di Man Ray: vediamo semplicemente le immagini di alcune spirali che roteano in un ipnotico movimento, alternate a brevi poesie surrealiste (“…la cure d’azote sur la cote d’azur…”), anch’esse rotanti. L’idea è carina, ma il film è il meno interessante della mia personale mini rassegna. (Vhs)

307-L’armata a cavallo di Miklòs Jancsò, Ungheria/URSS 1967

Purtroppo non ne sono rimasto impressionato come avrei voluto. Avevo voglia di qualcosa che mi desse una scossa profonda e la fama del film e del regista facevano ben sperare. L’armata a cavallo è un’opera raffinata e ostica che sicuramente ritornerà su dopo la digestione: in un’ora e mezza di proiezione ci vengono presentate ininterrottamente scene della cruenta guerra civile russa. Non esistono una trama, un particolare punto di vista o una specifica storia da seguire. Assistiamo a rappresaglie, fucilazioni, tentativi di fuga e combattimenti, avendo come unica, sottilissima traccia i microdestini individuali di alcuni soldati ungheresi, volontari per i “rossi”. Il film non ricorre a espedienti patetici: l’orrore della guerra è fotografato con occhio impassibile e, anche se prevale la rappresentazione della bestialità dell’esercito dei “bianchi”, anche i “rossi” non sembrano propriamente umanissimi. Mancando quasi totalmente il dialogo la narrazione è costellata da molti elementi simbolici (la nudità degradante su tutto) e da un uso della macchina da presa immediatamente esaltante: Jancsò articola il film in lunghissimi piani-sequenza nei quali la cinepresa danza letteralmente tra i personaggi in un ininterrotto sinuoso cinematismo. Insomma un bel film ma un po’ freddo per provarne immediata passione. (Vhs)

308-Le ballet mécanique di Fernand Léger, Francia 1924

Uno dei primi esperimenti di cinema d’avanguardia. In un montaggio concitato confluiscono animazioni di disegni cubisti, fotogrammi rovesciati di una donna che dondola su un’altalena, riflessi in una boccia di metallo che oscilla verso l’operatore cinematografico, caleidoscopi di sorrisi enigmatici, d’inquietanti cappelli di paglia e di occhi, pulegge meccaniche in movimento, combinazioni di figure geometriche elementari e il fascino della composizione formale di pentolame, posate e ramaioli (Ho scritto RAMAIOLI: quale altro critico può vantarsene, eh?). Le curiose suggestioni fotografiche innescano (credo, perché me ne rendo conto solo a tratti) inquietanti associazioni mentali e producono senso. Irriferibile, ovviamente. Filmetto assolutamente schizzato e originale. (Vhs)

SM10c.jpg309-Andrej Rublëv di Andrej Tarkovskij, URSS 1969

La vita del famoso monaco e pittore di icone, raccontata attraverso alcuni episodi della sua vita. Ma non si tratta di una semplice ricostruzione storica (peraltro molto accurata e ricercata formalmente): tutti gli episodi sono motivo per il regista per indagare il complesso rapporto di Rublëv con la fede e l’arte. Il film è percorso da un insistente clima minaccioso: la caducità dell’uomo (il basso medioevo russo sembra un’epoca invivibile tra furori religiosi, recrudescenze pagane e tartari poco frequentabili), i suoi peccati e l’immortalità dell’arte sono indagati da una cinepresa inventiva in lunghi piani sequenza e con una fotografia scintillante. Pesante (soprattutto per la forzata visione sul piccolo schermo) ma soddisfacente. (Vhs)

310-L’elemento del crimine di Lars von Trier, Danimarca 1984

Opera d’esordio dell’allora ventottenne Von Trier. Un detective ricostruisce attraverso l’ipnosi una vicenda accadutagli tredici anni prima: il tema è un po’ già sentito (l’identificazione con l’assassino, per poterlo scoprire) ma è trattato formalmente e narrativamente in maniera molto originale. Ogni inquadratura è ricercata con gusto e la fotografia (tutto il film è virato su tonalità giallo-rosse) è molto interessante. All’uscita, il film venne criticato proprio per questa estetizzante ricerca formale, perdendo di vista altre notevoli idee come la particolare ambientazione (un futuro prossimo incombente e piovoso, in un’Europa disastrata) o la rivisitazione del mito del detective alla Hammett (anche se Blade Runner, nonostante non fosse intenzione di Gilliam, aveva già proceduto in questo senso). Interessante, ma bisogna vederlo di buon umore e senza sonno arretrato. (Cineclub Lumière; 18/12/96)

311-Blood Brothers di Ernie Fritz, USA 1996

Non si sa se per obblighi contrattuali, per crisi creativa o manie di grandezza, Springsteen licenzia questo bel prodottino che nulla aggiunge alla sua storia se non una giustificata nostalgia per gli spartani e veraci anni che furono. Intendiamoci: il film, al di là del deprecabile senso agiografico dell’operazione, è ben girato e interessante ma, francamente, nessuno ne sentiva il bisogno (a parte i fan a livello putrefazione). Il rockumentary segue le session d’inizio 1995 che hanno visto la E Street Band riunirsi al Boss dopo uno iato di sette anni: l’aspetto più interessante è la documentazione del processo creativo e produttivo. Assistiamo alla nascita e all’incisione di canzoni inedite (alcune finite sul Greatest Hits, altre, niente di particolare, edite qui per la prima volta) e alla produzione del (bel) video di Murder Inc., con la regia di Jonathan Demme. In fondo passabile (lingua originale mooolto difficoltosa) ma incontrovertibilmente superfluo. (Vhs)

312-Belva di guerra di Kevin Reynolds, USA 1988

Estemporanea visione di un “Magnifico” di TMC. Attirato dalle belle immagini paesaggistiche mi soffermo sul filmetto in questione per qualche minuto, poi decido che può valerne la pena e me lo scoppio nella sua interezza. Un tank sovietico rimane imbottigliato in una valle afgana: la comunicazione interpersonale dei membri dell’equipaggio non è propriamente compassata e Konstantin viene legato a un pietrone e lasciato in pasto agli avvoltoi. I mujaheddin che lo trovano non lo uccidono e lui, per sdebitarsi, li aiuta a distruggere il tank e a vendicarsi del cattivo ufficiale, sovietico e ottuso, che lo aveva abbandonato. Decisamente propagandistico e non particolarmente approfondito dal punto di vista psicologico, il film gioca le sue carte migliori dosando la suspense con intelligenza. Un discreto filmaccio d’azione. (Diretta TV su TMC; 23/12/96)

313-Luci della città di Charlie Chaplin, USA 1931

Ho preferito altre cose di Chaplin ma ho comunque apprezzato. Il Vagabondo s’innamora di una fioraia cieca e dopo innumerevoli peripezie (le gag durante le feste e l’incontro di boxe sono assolutamente esilaranti) trova i soldi necessari all’operazione che potrà renderle la vista. Una volta incontratisi di nuovo lei lo riconosce stringendogli le mani. Il finale è sospeso: non c’è un immediato e poco credibile happy end ma un momento di grande dolcezza che forse prelude a una furiosa chiavata. No, scherzo: Chaplin lascia il dubbio e in questo interrogativo risiede il fascino di quest’ultima scena. L’ho visto la notte di Natale, come quando ero bambino e c’erano le comiche di Charlot in TV. (Vhs; 24/12/96)

314-L’uomo che sapeva troppo di Alfred Hitchcock, USA 1956

Mah! Io mi sono rotto un po’ le palle. La vicenda è contemporaneamente complicata e semplicissima, nel senso che l’intreccio è banale ma i motivi che stanno dietro a tutto il casino che accade sono francamente poco comprensibili. In realtà poco importa: al regista interessa avere del buon materiale thrilling per mostrarci l’ennesimo Stewart, cittadino comune, in mezzo ad accadimenti più grossi di lui. E chi ne esce bene (stranamente, vista la sottile misoginia del regista) è Doris Day, decisamente più furba del marito. Decente, con qualche lampo (bellissimo il percorso per fotogrammi all’interno dell’ambasciata per mostrare il nascondiglio dov’è tenuto il figlio rapito) e tanto mestiere. O forse non capisco io. Visto a Brisino, al calduccio. (Diretta TV; 26/12/96)

315-Ultracorpi – L’invasione continua di Abel Ferrara, USA 1993

Opera indubbiamente di gusto atroce. Ferrara è realmente un sovversivo: mi aspettavo un bel prodottino (secondo la definizione della cugina Alessandra) ma mai questa porcata di serie zeta. Ogni tanto qualche movimento di camera fa sperare in una resurrezione del geniaccio di Ferrara, invece il pastrocchio paratelevisivo possiede un’unità stilistica incorruttibile. È tutto una porcata, senza nessuna oscillazione. Nessuna ironia né alcuna caduta talmente kitsch da far assumere valore proprio all’opera: soltanto un triste pastone televisivo per i rimbecilliti yankee. Certo, la storia (l’ennesimo rifacimento de L’invasione degli ultracorpi) non consente grandi margini d’inventiva ma, forse perché avevo tredici anni, Terrore dallo spazio profondo mi era piaciuto molto di più. Grande Ferrara, realmente imprevedibile o più probabilmente posseduto da un baccellone. (Diretta TV; 27/12/96)

SM10d.jpg316/317-Toro scatenato di Martin Scorsese, USA 1980

La mia prima visione di Toro Scatenato risale ad almeno 11 anni fa e il giudizio non cambia. Per me Toro scatenato rimane un capolavoro assoluto, con un posto assicurato per l’eternità nella mia personalissima Top Ten. Il film racconta la storia della vita di Jake La Motta, il pugile italoamericano che nel dopoguerra arrivò alla vittoria nel campionato del mondo di boxe. Il racconto parte dal primo incontro che lo vide perdente e si dipana, tra alti e bassi, alternando accadimenti privati e vicissitudini sportive. La Motta è incapace di gestire i suoi rapporti affettivi, improntati come la sua carriera agonistica a una violenza insopprimibile. Il logorarsi dei rapporti con le due mogli e il fratello segnano la sua sconfitta più bruciante: rimasto solo, sfatto fisicamente e moralmente, sbarca il lunario recitando poesie (“So gimme a stage ‘n’ let the bull can rage”) in infimi locali. Recitato in maniera superba dal camaleontico De Niro e da un sottovalutato ma eccezionale Joe Pesci, il film presenta un apparato tecnico assolutamente clamoroso, specialmente nelle incredibili sequenze degli incontri di pugilato: la violenza dei colpi è proposta con un montaggio (sonoro e visuale) che aggredisce lo spettatore come una raffica di pugni. Stupendi fotografia e movimenti di camera, fluidi e avvolgenti. Visto due volte nel giro di una settimana, mi rammarico di non poter minimamente rendere l’emozione che mi ha accompagnato durante la visione di questo capolavoro: c’ero arrivato vicino nella prima recensione, poi il computer l’ha fagocitata e allora ho scritto ‘sta fetenzia. Succede. (Vhs)

318-Darkman di Sam Raimi, USA 1990

Quarto film di uno dei miei beniamini. Raimi sfodera tanta intelligenza ma la svende anche, per girare filmettini gustosi ma mai pienamente appaganti. Si apprezzano le notevoli invenzioni nel muovere la cinepresa e i tanti lampi di genio (esempio: l’iride che si dilata mentre avviene un’esplosione), ma non so… Come un genitore apprensivo per un figlio, prediletto e geniale ma un po’ inconcludente, auspico un futuro in cui finalmente Raimi metta la testa a posto e ci sforni un film per grandi, un po’ come i Coen, suoi meno svogliati compagni di banco. (Vhs)

319-New York, New York di Martin Scorsese, USA 1977

Jimmy, un sassofonista affascinato dalle nuove tendenze be-bop, e Francine, cantante jazz potente e raffinata, si conoscono alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Suonano nella stessa big band e, come prevedibile, s’innamorano. La loro contrastata storia d’amore conosce alti e bassi sino all’inevitabile separazione. Partecipe storia di due destini individuali, divisi da diverse scelte musicali (che in un modo o nell’altro portano ambedue al successo) e conseguenti scelte di vita, New York, New York è un commosso omaggio alla musica del primo dopoguerra (la fine delle big band, la nascita del cool, etc.) attraverso scelte cinematografiche anch’esse all’insegna di un’intelligente nostalgia. Scorsese gira quasi sempre in studio, adottando una fotografia volutamente antinaturalistica. Recitato superbamente (De Niro e la Minnelli) e girato in modo più misurato rispetto allo straordinario Toro scatenato, è comunque molto bello e appagante. E c’è pure Clarence Clemons della E Street Band. (Vhs; 30/12/96)

320-Aurora di Friedrich Wilhelm Murnau, USA 1927

Proseguo il recupero dei film che purtroppo non ho potuto vedere al Lumière e per fortuna mi ha aiutato RaiTre trasmettendo questo stupendo film. Devo dire che mi è impossibile fare una classificazione delle cose migliori di Murnau perché praticamente tutto il suo cinema è letteralmente fantastico e , di sorpresa in sorpresa, mi trovo a contare qualcosa come 5/6 capolavori assoluti. Aurora è uno di questi. Spinto a uccidere la moglie da una peccaminosa Donna di Città, un contadino arriva alle soglie della follia, ma in un impeto di lucidità si ravvede e rinunzia all’assassinio. La moglie gli sfugge e lui la insegue nella città che, da luogo di perdizione, vizi, caos e peccato (secondo gli allettanti racconti dell’amante) si trasforma, attraverso la visita in chiesa, dal fotografo, dal barbiere, al Luna Park e nella dance hall, in luogo di rappacificazione: tale è la forza dell’amore che un bacio riesce a fermare l’infernale traffico. Al ritorno però la tragedia. Una tempesta rovescia la barca dei due sposi e, ironia della sorte, si attua il piano iniziale: infatti la moglie scompare tra i flutti abbracciata alle frasche che avrebbero invece dovuto salvare il marito in caso di naufragio simulato. Disperazione! Le ricerche sembrano assolutamente vane ma infine la moglie è ritrovata, e mentre sorge l’aurora e l’amante diabolica torna in città, il film si conclude. Narrativamente il film è gestito con assoluta maestria: senza mai far cadere il ritmo, Murnau alterna con grande consapevolezza scene drammatiche a scene assolutamente divertenti e pungenti (la gag della spallina che cade, lo stupore alcolico del maialino, la statuetta del fotografo con la pallina al posto della testa) e, soprattutto, asseconda il “genere” con una padronanza tecnica straordinaria. Carrelli, piani sequenza e sovrimpressioni sono gestiti magistralmente e le luci e la composizione formale dell’inquadratura sono a livelli strepitosi. Forse il migliore Murnau? Boh, mi aspettano ancora Il tartufo, L’ultima risata e Phantom. Chissà. Eccezionale. E adesso, capodanno con Pietro e Irina! (Vhs; 31/12/96)

(10 — CONTINUA)