di Kai Zen

P2.jpg1.

“O Cecco, ma tu lo sai, te, che un amico del mi’ cugino, il Vanni, c’è entrato e non l’hanno visto più?”
“Seee!”
“Ti giuro su la mi’ mamma, manco la polizia l’ha cercato. Per farti capire, eh.”
“Su la tu’ mamma?”
“Giuro. Ed era uno grande, sai, mica un cittino. Avrà avuto diciott’anni.”
“Vabbe’.”
“Mentre invece un altro ha provato a passarci la notte e…”
“Scomparso pure lui?”
“Impazzito. L’hanno ritrovato la mattina dopo nei dintorni della villa che non riconosceva la destra dalla sinistra. Ora pare che sta all’ospedale psichiatrico di Firenze.”
“E pure questo me lo giuri su la tu’ mamma.”

“No, questo no.”
“Perché?”
“Perché il mi’ cugino non lo conosce di persona. Il sentito dire non lo si può controllare. Non la rischio, la mi’ mamma. Ma era sempre per farti capire, no?”
“Cioè? Farmi capire cosa, grullo?”
“Che a far la nottata in quella villa lì ci vogliono le palle, cittino.”
“Per me son solo voci.”
“Voci ‘na sega. Ma lo sai chi ci si mette contro? Lo sai di chi è quella villa, no?”
“Lo so sì, se no mica sarebbe una prova di coraggio, giusto?”
“Ma tu lo sai che quello là, a ottant’anni suonati fa le orge e glielo mette in culo alle guardie del corpo, e se quelli protestano li mena pure?”
“Ma non dire…”
“Ma tu lo sai che trent’anni fa si è travestito da secondino e ha portato un caffè col veleno in galera a un tipo che gli rompeva le palle? Ma lo sai che quello là, dopo tutti ‘sti anni, i processi e le condanne che ha avuto, ancora ministri e capi di governo gli leccano i piedi? Che alla villa è tutto un andare e venire quotidiano di politici in cerca di favori? Gente importante, eh, mica sottosegretari!”
“…”
“Ma tu lo sai che quando un giornalista di qui si era messo in testa di fare un servizio sulla sua vita senza la sua autorizzazione, com’è come non è, lo hanno trasferito per direttissima in Culilandia a contare le pecore?”
“Esagerato.”
“Io esagero? Cazzarola c’è chi dice di averlo visto volare. E uno, lo conosco io, che giura che quello là è immortale perché al crocicchio di una strada di campagna in provincia di Pistoia ha fatto un patto con un diavolo nero che strimpellava la chitarra.”
“Evvabbe’ ora abbiamo pure Licio Gelli in versione Pistoia Blues.”
“Zitto per carità, non dire il nome.”
“Ma tu ci vieni o no con me, Dante?”
“Sul serio ci vai?”
“Hai sentito che ho promesso, no? Una notte intera nel parco di Villa Wanda: scavalco il muro di cinta prima di mezzanotte e ci rimango almeno fino alle cinque di mattina. L’hai visto Guido come rideva con quella faccia da cazzo, mentre Bea mi guardava. Io non gliela dò mica vinta, a Guido. Tanto, che ci vuole? Il parco è enorme, entro da dietro e me ne sto buono buono qualche oretta. Che sarà mai, un gioco da ragazzi, mica ci devo entra’ sparando. Poi vediamo se c’ha ancora voglia di ridere, lo sciorno. Alò, ci vieni?”
“…”
“O Dante…”
“Va bene, ci vengo. Però tu con Guido scherza poco. È parente lontano di quello là.”
“Madonnina, sei fissato sei!”

2.

Cecco andò a prendere Dante a casa, altrimenti c’era il rischio si tirasse indietro. In motorino non dissero una parola per tutto il tragitto. L’aria di collina era fresca e il borbottio del motore era l’unico rumore nel giro di chilometri. Dante, dietro, reggeva una scala estraibile d’alluminio e ogni tanto, fra la salita e lo squilibrio dovuto al peso, il motorino sbandava un po’. In prossimità della villa deviarono per non passare davanti al cancello piantonato sempre da una volante, fecero il giro largo e si fermarono dal lato opposto del parco. Guido, Bea e altri due amici erano già lì.
I due scesero dal motorino, Cecco lo assicurò con una catena, poi si diressero al muro. Fecero appena un cenno della testa al gruppetto e presero ad armeggiare con la scala, allungandola e appoggiandola in modo da non farla scivolare.
“Piantatela per benino ‘sta scala. Non vorrei che vi faceste male prima ancora che vi prendano a calci in culo.” Guido non si fece scappare l’occasione per un’ultima dose di sarcasmo, ma il tono non era più sicuro come il giorno prima. Sembrava subire anche lui l’influenza nefasta di quello là, come lo chiamava sempre Dante. Tutto quel timore reverenziale Cecco non lo capiva proprio. Suo padre gli aveva pur spiegato che il Gelli era stato un intrallazzone di prima categoria, a capo di una loggia segreta tipo Rotary ma molto più segreta e molto più potente, gli aveva raccontato per sommi capi la vicenda del Banco Ambrosiano e di un tizio impiccato a Londra, sotto il Big Ben gli sembrava d’aver capito. Ma in fondo era roba vecchia e quello era un vecchio, fatto e finito, mica Bin Laden. Quando Cecco lo aveva visto dal vivo, l’unica volta in vita sua, gli aveva dato pure l’impressione di essere simpatico. E poi c’erano gli occhi di Bea, scuri, grandi e umidi come quelli di una cerbiatta. Anche adesso lo stavano guardando, quegli occhi, mentre saliva sui pioli, e per loro il muro lo avrebbe scavalcato anche se ad attenderlo oltre ci fosse stato davvero Bin Laden.
Cecco si mise a cavalcioni del muro, attese che anche Dante, più titubante, arrivasse in cima, poi tirò su la scala, appoggiandola al lato interno, in modo da assicurarsi una via d’uscita. Un cenno d’intesa col compagno e un ultimo sguardo a Bea. Ci voleva un’uscita di scena romantica e ironica, degna del suo gesto sprezzante. Si baciò le punte delle dita e ci soffiò sopra in direzione di lei, sorridendo. Poi saltò giù.

3.

Dante, rimasto solo in cima, cominciò a sentire l’ansia sfarfallare nelle budella. Brancicò la scala e scese, scivolando un paio di volte sui pioli. Che cazzo gli era venuto in mente a Cecco di saltare giù da tre metri e passa? Voleva dare ragione al Guido rompendosi una gamba prima di cominciare? Non appena i piedi toccarono terra, si guardò intorno. Cecco non si vedeva più. Era mezzanotte meno un minuto.
“Ceccooo” Chiamò a bassa voce, senza ottenere risposta. Si passò una mano sulla fronte per detergere il sudore ma non fece altro che sporcarsi la fronte di grasso. Le mani gli si erano impregnate quando le aveva appoggiate sul parapetto del muro di cinta, che ne era ricoperto. Bestemmiò e si avviò verso gli alberi. Cecco si era di certo addentrato nel boschetto per togliersi dalla vista. Una volta in mezzo agli alberi, si guardò attorno, proseguendo per qualche metro, ma dell’amico non c’era traccia.
Dante udì un rumore di rami spezzati e una specie di respiro lontano, un flebile latrato. La sua mente formulò un pensiero che finora non lo aveva nemmeno sfiorato: cani. Solo uno stupido non lo avrebbe previsto. E lui si sentiva terribilmente stupido. Al diavolo pure Cecco, ora sarebbe tornato alla scala e se la sarebbe data a gambe. Si voltò verso il muro, ma quello che vide gli tagliò il respiro: la scala non c’era più.
Cominciò a sudare freddo e gli tremarono le gambe. In un secondo valutò la possibilità di scavalcare senza l’aiuto della scala, ma ci sarebbe voluto Goku di Dragon Ball per un’impresa simile, non certo Dante Bombardini da Cortona. Nei successivi due secondi si immaginò mentre andava a denunciarsi al grande vecchio chiedendogli pietà. Doveva ricordarsi come cavolo lo chiamavano i suoi adepti, eccellenza, maestro, sua serendipità? No, venerabile, ecco, venerabile.
Era ancora perso nella fantasia autopunitiva, quando qualcuno gli toccò la spalla. Fece un balzo in avanti e cacciò un urlo soffocato, prima di mettere a fuoco la sagoma di Cecco. Anche lui con il viso sporco di grasso. Sembravano due marine improvvisati.
“Calmo, cittino oh.”
“Macheccazzofaimaremmaimbruttita!” Dante si trattenne a stento dal gridare, ma l’affanno gli faceva saltare le pause. Indicò il muro dove c’era la scala. Cecco annuì.
“L’ho messa via io, nascosta fra gli alberi. Vuoi mai che fanno una ronda di controllo e ci beccano per una bischerata così.”
“Chi fa una ronda di controllo?” Dante era al limite della sopportazione nervosa.
“E che ne so? Loro… qualcuno. Non si sa mai, no?” Cecco appariva invece in pieno controllo, anzi quasi spavaldo, sovreccitato. “La scala è laggiù,appoggiata a quel platano. Ora ci piazziamo qui, buonini, e ci rilassiamo per qualche ora. Te lo dicevo che era una passeggiata.”
“E i cani?”
“Quali cani?” Cecco non appariva affatto turbato. “Rilassati,” Cecco lo fece sedere per terra, forzandolo un po’. “Respira profondo, uno due tre, così, bravo. Prenditi una mentina, dai, eccotene una delle mie. Tranquillo. E ora dimmi, hai visto cani?”
“No, in effetti no, ma prima, quando ti sei allontanato, ho sentito come un respiro lungo, lontano. Non umano.”
“Magari ero io” concluse Cecco, sistemandosi con la schiena appoggiata alle radici esposte di un tronco. E quest’ultima affermazione, chissà perché, fece crescere ancora l’ansia di Dante.

4.

Passò la prima mezz’ora. I due non parlavano e le chiome ondeggianti degli alberi contro il cielo notturno incombevano sulle loro teste. Sembravano mani, mani gigantesche pronte ad afferrarli, sempre più vicine, sempre più minacciose. Dante sentiva freddo, un freddo strano, interiore. Anche lui era appoggiato alle radici di un albero, e a un tratto gli sembrò si muovessero come tentacoli. Fece per alzarsi ma senza riuscirci. Immobilizzato e inerme. Un respiro gli si avvicinò da dietro, sempre più pressante e famelico. Dante chiuse gli occhi e pregò fosse Cecco. Non ci sono cani, niente cani. Fa che sia Cecco fa che sia Cecco fa che sia… Aprì gli occhi e si voltò: accanto a lui c’era proprio l’amico, inginocchiato, gli occhi chiusi. Dante tirò un sospiro di sollievo, poi Cecco aprì gli occhi: pupille e iridi erano scomparse per lasciare posto alla sclera. Aveva gli occhi bianchi. E sorrideva.
Dante urlò a squarciagola senza emettere alcun suono. E continuò a gridare muto anche quando Cecco gli strisciò vicino alla faccia e aprì la bocca su un’impressionante chiostra di denti aguzzi. Poi Dante si svegliò. Cecco lo stava scuotendo: “Che cazzo c’hai da piagnucola’ in quel modo, o grullo? Pari un cagnolino scannato.”
Dante grondava sudore acido, il cuore come un rullante e in bocca polvere. Si guardò attorno, ma tutto appariva normale. Gli alberi erano alberi, Cecco era sempre Cecco.
Le ombre della notte avevano perso quell’aura minacciosa del sogno e non si muovevano più. O forse no. Cos’erano quelle figure nere e smilze che schizzavano fra gli alberi?
“Che roba è quella, Cecco?”
“Cosa?”
“Quelli là, Cecco sono…”
“Tranquillo, solo illusioni ottiche. Sono le quattro meno venti, abbiamo quasi fatto. Sei troppo impressionabile tu.” Cecco stava per mettersi a ridere, ma non gli fu possibile.

5.

Arrivarono da dietro, in silenzio, come fossero sempre stati nascosti dietro i tronchi ai quali i due ragazzi si erano appoggiati. Dante si sentì trascinare sulla schiena, ma era quasi del tutto insensibile. Non provava dolore e non riusciva a vedere nulla attorno a sé. Sentiva solo i rumori del suo corpo e di quello dell’amico che venivano trascinati. Fino a una radura. Qualcuno armeggiò attorno alle sue braccia e alle gambe, poi più nulla. Passarono minuti interminabili. Cercò di mettersi seduto, per sentirsi meno inerme ed esposto, ma non ci riuscì. Dovevano avergli assicurato polsi, caviglie, gomiti e ginocchia al terreno. Spalmato come marmellata sul pane. Per quel che poteva vedere dalla sua posizione, alzando appena la testa, anche Cecco si trovava nelle stesse condizioni, a pochi metri da lui. Provò a chiamarlo. Ma una luce accecante spazzò via la notte e lui apparve. Seduto su una sedia con braccioli imponenti, un trono nel mezzo del prato, proprio fra Dante e Cecco. Seduto ma più in alto di loro, più forte di loro. E più calmo. Vestito di bianco. Giacca, pantaloni, gilet, camicia e cravatta. Bianchi. Scarpe. Bianche.
Guardò i due ragazzi attraverso le lenti dalla montatura leggerissima. Annuì sorridendo. E cominciò a parlare. “A questo dunque sono ridotto? A un giochino trasgressivo per adolescenti? La casa stregata di Arezzo?” Una pausa, come aspettasse una risposta, ma Cecco taceva e Dante non aveva fiato nemmeno per respirare. Si stava pisciando addosso.
“Venite qui, da un povero vecchio che vorrebbe ormai solo oblio e poesia. Venite qui, con la vostra arroganza, strafottenza, con la vostra ignoranza. Nutriti e pasciuti con i generi di conforto che quelli come me hanno combattuto per assicurarvi. E vi mettete a giocare a Mezzanotte è suonata nel mio giardino. Non è tanto per la violazione di
domicilio, sapete. È la mancanza di rispetto che fa male. È constatare che la vostra generazione manca di volontà, di punti di riferimento. Manca di spiritualità, ecco… di spiritualità.”
Dante capiva appena le parole del venerabile, gli ronzavano le orecchie, era confuso, ma il tono dell’uomo in bianco era penetrante.
“Non è che non vi perdoni. Certo che vi perdono, bambini, miei piccoli trucioli di sogno, frammenti di stelle. Ma il perdono senza l’esempio è inutile, come un aratro senza la bestia che lo tira.” Il venerabile si alzò in piedi e Dante lo vide circonfuso da una luce candida, i contorni del corpo resi incerti e tremolanti dal riverbero. Si avvicinò a Dante. Rapido e lieve, come se i piedi non toccassero terra. Un fantasma chinato sul suo volto mentre la luce continuava a fluire dal corpo. Portò le mani agli occhi di Dante, e queste si riempirono all’improvviso di un gigantesco cuore insanguinato. Ancora brulicante di vita, pulsava e si muoveva. Il venerabile lo strinse appena e quello sussultò, come sussultava il cuore nel petto di Dante. “Dio mette nelle mani del giusto il cuore che batte nel petto degli uomini valorosi. Sii valoroso, giovane Dante, e terrò il tuo cuore sempre in palmo di mano.” La luce tornò ancora più forte, inghiottì tutto il corpo del venerabile, lo fece pulsare proprio come un cuore, lo innalzò a parecchi metri da terra, e poi lo spense, cancellandolo dal cielo notturno.
Dante si ritrovò libero nella radura ormai buia, dove sembrava non fosse successo nulla. L’amico accanto a lui, l’espressione sconvolta.
“Hai… hai visto anche tu?” Chiese Dante.
Cecco rispose solo: “Maremma.”
All’unisono voltarono la testa al muro di cinta: la scala era lì ad attenderli. Non si chiesero né come, né perché. Corsero solo come pazzi, si arrampicarono e saltarono giù. Erano le cinque e tre minuti.
Guido era già andato a dormire, ma gli altri erano ancora lì. Dante cominciò a raccontare mentre Cecco stava zitto limitandosi ad annuire.

6.

Cecco attende seduto su una poltrona di velluto verde. È la seconda volta che varca la soglia di quel salottino, uno dei tanti della villa.
L’uomo entra con passo sicuro, vestito nero, poco più di quarant’anni.
“Lo zio?” chiede Cecco.
“Lo zio è impegnato, puoi dire a me.”
“Tutto alla grande. Dante sta raccontando in giro. Lo ha visto decollare, addirittura. Che roba c’era in quella mentina?”
L’uomo fa solo segno di sì con la testa. “Bene.” Gli porge una busta spessa. Cecco la apre e conta le banconote.
L’uomo prosegue. “E di’ a tuo padre che per quell’affare può stare tranquillo.” Fa per andarsene, ma Cecco lo trattiene. “Come avete fatto il trucco della luce?”
“Fosforo sugli abiti. E un mantello nero al momento di farlo sparire.”
“Posso sapere perché?”
L’uomo sorride: “Le storie sono importanti, Cecco. L’America non l’hanno fatta grande i cowboy, ma i film sui cowboy.”