di Franco Ricciardiello

DickensRicciardiello.jpgErano i giorni migliori, erano i giorni peggiori, era un’epoca di saggezza, era un’epoca di follia, era un tempo di fede, era un tempo di incredulità, era una stagione di luce, era una stagione buia, era la primavera della speranza, era l’inverno della disperazione, ogni futuro era di fronte a noi, e futuro non avevamo, diretti verso il paradiso, eravamo incamminati nella direzione opposta.
Chiusi la copertina e rimisi il libro senza fare rumore nella borsa di Eugenia. Mi guardai alle spalle: Eugenia era ancora addormentata ai piedi del divano ad angolo, la testa appoggiata sulle braccia e le ginocchia raccolte verso il ventre. Oltre alla carta di identità e una confezione di Prozac con metà blister schiacciati, avevo trovato nella sua borsa A Tale of two Cities, il romanzo di Dickens sulla rivoluzione francese. Le primissime, fulminanti righe della prima pagina mi avevano colpito.

Appoggiai i polpastrelli contro il cristallo freddo della finestra: la tormenta premeva a scatti furiosi contro le imposte, fischiava un urlo inconsapevole sulle tegole appena sotto il davanzale della mansarda. Pensai al senzatetto giù in strada, raggomitolato sotto la sua trapunta bucata davanti alla chiesa, che aveva attirato l’attenzione di Eugenia al nostro arrivo dopo la cena improvvisa al ristorante maghrebino.
Nel sottofondo stereofonico della mia mansarda, Henri Salvador cantava con discrezione la malinconia della pioggia di novembre, accompagnato da pochi accordi di chitarra; qualche piano più sotto in via Po la tormenta non trascinava neve, ma una sottile materia ghiacciata che aveva la consistenza del sale fino e ruotava in mulinelli furiosi della durata di secondi. Per un momento, pensai che quella neve secca e quasi asciutta esistesse al solo scopo di rivelare alla luce dei lampioni i movimenti del vento. Sopra l’orizzonte buio dei tetti dell’isolato di fronte, le lontane luci artificiali non sembravano disturbate dalla tormenta.
Era quasi mezzanotte. Eugenia dormiva ignara, la testa appoggiata sul braccio contro il cuscino del divano. Raggiunsi senza fare rumore la mia camera da letto, mi alzai in punta di piedi e raccolsi una scatola di latta da sopra l’armadio. Ne estrassi un oggetto avvolto in un panno infeltrito; controllai che Eugenia non si fosse svegliata, poi svolsi la pezza e bilanciai nel palmo della mano una 7.65. Annusai il buon odore di olio minerale dell’otturatore, contai sei colpi dalla scatola di cartone. Inserii il caricatore e tornai in soggiorno.
Raccolsi dal pianoforte il pacchetto regalo confezionato da Eugenia quel pomeriggio stesso e lo posai sul tavolo accanto all’arma da fuoco. Lo scartai senza fare rumore con gesti quasi rituali, e levai con le unghie il nastro adesivo alla luce calda delle grosse candele di altezza e dimensioni irregolari al profumo di uvaspina, raccolte in un vassoio al centro del tavolo. Mi ritrovai tra le mani il CD di Marin Marais, ancora sigillato.
Eugenia sospirò nel sonno e aggiustò le gambe; forse stava sognando. Ricordai il momento in cui l’avevo conosciuta, poche ore prima, nel negozio di musica dove lavorava.

* * *

Di solito per i miei acquisti scelgo negozi del centro storico, ma mi trovavo in periferia per un ultimo appuntamento di lavoro prima delle vacanze di fine anno e dovevo ancora comprare il regalo di natale per papà.
Era già buio. Fuori dall’ingresso del superstore di musica c’era un tamil con una sciarpa sul mento e la bocca.
— Ciao, — disse senza convinzione, e mi allungò una rosa rossa scurita dal freddo. — Per tua moglie.
Il marciapiede era affollato di gente che passeggiava con la sciarpa avvolta intorno al collo. Mi ritrovai con il fiore in mano perché non mi andava di rivelare a un immigrato che non c’era nessuna moglie. Entrai frettolosamente nel superstore; l’impatto con il riscaldamento eccessivo mi stordì. Per fortuna ero il solo cliente nel reparto musica classica: la scelta del regalo di natale per papà è un rito da officiare in solitudine. Con la rosa nella sinistra, schiumante di rancore perché era un mese esatto che mia moglie si era convertita all’induismo e trasferita a vivere a Chennai, passai in rassegna l’espositore della musica strumentale alla ricerca di qualcosa che potesse piacere a papà.
Arcangelo Corelli. Tomaso Albinoni. Marin Marais. Ero indeciso. In quel momento una commessa mi sfiorò passandomi accanto; portava un cartellino con il nome « EUGENIA » e il logo del negozio appeso al collo con un nastro rosso. Osservò con un sorriso malinconico la rosa nuda nella mia mano.
— Albinoni. Marais. Corelli, — dissi roteando il fiore tra le dita come una bacchetta magica. — Quale regalerebbe a suo padre?
— A mio padre regalerei Frank Zappa, — rispose lei, e proseguì verso la cassa.
La seguii al banco del computer.
— Da ventidue anni regalo a mio padre solo musica composta tra il Seicento e il Settecento — dissi, e ripetei: — Albinoni, Marais o Corelli?
— Cosa fa suo padre? — domandò mentre si levava i capelli dagli occhi.
— Il magistrato.
— Allora Marais, decisamente.
— E perché Marais? Perché non Pergolesi? Henry Purcell? Respighi? E ha qualcosa contro Baldassarre Galuppi, per caso?
— Marin Marais, — confermò lei. Per sottolineare che era il suo consiglio definitivo, posò un fascio di carta regalo sul piano della cassa, accanto alla tastiera. — Ascolti il suono di quel basso di viola a sette corde, è uno strumento originale del XVII secolo. E se non ricordo male quel CD è una registrazione dal vivo il 29 gennaio di un anno che non ricordo.
Controllai la custodia del CD, l’esecutore suonava davvero un basso di viola Barak Norman costruito a Londra nel 1697.
— Ritiene che le onde sonore siano più nitide il 29 gennaio? — domandai.
Alzò il viso per guardarmi come se mi vedesse per la prima volta. Indossava un dolcevita nero e una minigonna di lana gialla e rosa.
— Non saprei, — rispose come se la mia domanda fosse seria. — Però è il giorno del mio compleanno.
— Registrato il 29 gennaio e il 1 febbraio 2003 nella Collegiale del castello di Cardona, — lessi. Posai il CD vicino alla sua mano. — Conosce la data di registrazione di tutta la musica che vendete qui nel reparto?
— Se è un regalo lo incarto.
— Per favore. Ha anche un bigliettino di auguri?
Mentre lei sigillava con gesti esperti il CD in una busta di carta azzurro e oro, estrassi la stilografica dal taschino e scrissi sul biglietto bordato di vischio. “Per Eugenia — viene a cena con me stasera?
Quando mi consegnò il CD le allungai la rosa insieme al bigliettino.
— Oops, — disse appena letto il messaggio. — Ma stasera è la vigilia di natale.
— Che disdetta. Cena in famiglia?
— No, intendevo dire: non c’è giorno più triste di natale. Se fumassi mi divertirei a bucare le palle colorate sugli alberi con una sigaretta accesa.
— Quando nessuno mi vede io spezzo la testa dei pastori nel presepe con uno schiaccianoci. Comunque, c’è qualcosa più triste del giorno di natale: per esempio, passare il giorno di natale insieme a gente che si diverte.
Da quel momento fu come se non fosse la prima volta che ci incontravamo. Accettò di uscire a cena con me, il che non mi sorprese perché prima di lei avevo fatto conoscenza con tante altre donne nello stesso modo semplice e sbrigativo. Una volta fatta l’abitudine, è come recitare un copione già pronto. Signore, stasera si recita a soggetto.

* * *

La tormenta batté con insistenza sui vetri. Eugenia riaprì gli occhi e si accorse subito che non ero più seduto accanto a lei. Vide la luce riflessa nei vetri della mansarda e il moto browniano della neve polverizzata, ogni particella di materia illuminata per una frazione di secondo dalla fiamma delle candele, sospesa nel buio assurdo del cielo.
Nascosi senza fretta la pistola nel cassetto del tavolo.
— Il regalo di tuo padre, — Eugenia sorrise perché vide il CD di Marin Marais nelle mie mani.
Aveva ragione, era il regalo per papà; ma mentre osservavo la tormenta fuori dalla finestra avevo deciso che avrei cambiato regalo.
Tornai a sedere sul parquet fra le sue gambe e il mio bicchiere di Laphroaig senza ghiaccio. Eugenia si strinse nel dolcevita di lana come se avesse freddo e mi sorrise con grazia.
— Da tempo non passavo un natale meno squallido, — disse. — Grazie. Peccato solo che non hai uno schiaccianoci e un presepe.
Cercai di portarmi più vicino a lei, compressa nell’angolo retto dei cuscini. Mi prese il bicchiere dalle mani per annusare l’aroma torbato del liquore, ma senza bere. La sua istintiva confidenza mi stuzzicava.
— Non hai bisogno di dimostrare di essere un vero uomo, — disse. Incrociò le caviglie e mi restituì il whisky. — Ti rivelo un segreto: è più facile che una donna ami un uomo per la sua sofferenza che per la sua forza.
Posai la mano aperta sul suo ginocchio, sentii il calore della pelle sotto la consistenza di nylon dei collant. Ricordai il momento in cui avevo visto per la prima volta le sue gambe, mentre si inginocchiava davanti al senzatetto sdraiato sotto una trapunta logora, davanti al portone della chiesa, a pochi metri dall’entrata di casa mia.

* * *

Era successo forse meno di un’ora prima, appena arrivati con i piedi gelati dal ristorante, ancora avvolti dall’aroma di menta selvatica e zucchero del tè marocchino; mentre io infilavo le chiavi nel portone di casa, il senzatetto sotto la coperta mi riconobbe, o forse aveva semplicemente imparato a distinguere il suono metallico delle mie chiavi sull’ottone della serratura. Aprì gli occhi e emise un lamento che conoscevo bene.
Eugenia ebbe una reazione sorpresa, come se si fosse resa conto che non si trattava di un involto di stracci abbandonato davanti all’entrata della chiesa. Si avvicinò al clochard semicongelato, si inginocchiò a fatica sui tacchi alti per scostare dal volto dell’uomo un lembo della trapunta incrostata di nero. La tormenta non era ancora arrivata, ma si sentiva già nell’aria come un presagio statistico, un’annunciazione o una crisi coniugale. L’uomo non guardava Eugenia, teneva come al solito gli occhi fissi nei miei. Sollevò una mano e tese il palmo, io entrai nel portone senza guardarlo.
Eugenia mi raggiunse dopo un minuto.
— Hai riconosciuto quell’uomo? — domandò mentre mi seguiva nell’ascensore.
— Si è stabilito davanti al portone di casa da parecchi mesi, — risposi evasivo. Mi domandai per quale ragione dovessi conoscerlo.
— Ma l’hai riconosciuto? Sai chi è?
Ricambiai stupito il suo sguardo, con l’impressione di essermi lasciato sfuggire qualche particolare di importanza fondamentale.
La cabina dell’ascensore si fermò al piano.

* * *

Un nuovo colpo d’aria si insinuò dagli angoli della finestra e agitò per un secondo la fiamma verticale delle candele. Rabbrividii e sollevai la mano dal ginocchio di Eugenia, stupito della mancanza di tensione erotica in quel gesto. Addebitai la colpa a quello che stavo per fare.
Come ogni volta che mi trovavo nella stessa situazione con una donna, mi domandai se il segreto del desiderio di un uomo non risieda piuttosto in qualche atout estetico in autonomia dal corpo femminile, come per esempio il conflitto diagonale dell’orlo di una gonna con la curva delle gambe.
— Tieni sempre un libro di Dickens nella borsa? — domandai a voce bassa. Era il momento di metterla con le spalle al muro.
— Solo quando prevedo di dovermi difendere, — rispose enigmaticamente Eugenia dopo un attimo di smarrimento.
— Difendere da chi?
— Da chi fruga nelle borse delle ragazze al primo appuntamento.
— Allora è per difenderti che hai mentito sulla tua data di nascita? Ho visto i tuoi documenti nella borsa.
— “Mentire” è una parola impegnativa. Diciamo che ho applicato una tecnica di autodifesa femminile meno letale del kung fu.
Pensai con tenerezza che anche lei aveva un lato debole. Doveva dimostrare di essere forte, soprattutto a se stessa. Mi domandai cosa le ricordasse il 29 gennaio che mi aveva indicato come data di nascita: probabilmente il compleanno di un uomo che si era convertito al buddismo e trasferito a vivere a Dharamsala.
— Non pensavo fossi il tipo da frugare nella borsa. Sei un ossessivo-compulsivo? Un cleptomane? O solo un feticista dei presepi?
Chiusi gli occhi e sorrisi. Mi resi conto di stare bene; mi sentivo distaccato e felice, soddisfatto della serata. Mi sembrò di sentire l’odore di olio minerale che filtrava dal cassetto dove avevo riposto la 7.65. Mi piaceva quella donna disillusa e divertente. Mi sentivo a mio agio in quella notte di luce e tormenta: una notte che, lo sapevo, avrei ricordato a lungo nella mia vita.

* * *

Qualche ora più tardi, mentre Eugenia dormiva esausta sotto il piumone del mio letto, vestita solo di un paio di orecchini turchese, scivolai fuori e mi infilai pantaloni e maglione nel freddo intenso della notte di natale.
La tormenta era passata. Osservai dalla finestra i portici deserti, poi lacerai in silenzio la plastica del CD di Marin Marais e lo misi a volume bassissimo. Sentivo il profumo di Eugenia sulla pelle. Presi l’arma dal cassetto; era ancora scheggiata sul calcio e graffiata di fianco all’otturatore come quando l’avevo trovata dietro il pneumatico di una 127 a diversi metri di distanza dall’auto di papà. L’assassino doveva averla lasciata cadere sull’asfalto mentre si allontanava prima che arrivasse la polizia.
Papà era venuto a prendermi come ogni giorno all’uscita dal liceo; il commando di due uomini in motocicletta con casco integrale si era avvicinato un attimo prima che suonasse la campanella di fine lezione, e gli aveva sparato attraverso il finestrino aperto per fumare. Quando ero uscito insieme ai compagni di classe, si sentivano già le sirene della polizia e i genitori mi guardavano con occhi sbarrati come fossi un extraterrestre. Il sangue di papà aveva spruzzato il volante, il sedile, il cruscotto, le buste di cartone dei dischi; il mozzicone di sigaretta non aveva ancora finito di bruciare sull’asfalto, accanto al pneumatico. Ricordo che stringevo al ventre i libri di scuola per difendermi, e che mi allontanai come uno zombi per cercare di fermare mamma prima che vedesse quella scena da macelleria. Il diario mi cadde di mano, mi curvai per raccoglierlo e vidi l’arma accanto alla ruota della 127 parcheggiata. Era ancora calda.
Non avevo mai consegnato la pistola agli inquirenti che indagavano sul caso. L’avevo conservata come una reliquia.

* * *

Le candele erano completamente consumate. Nel buio assoluto, ascoltai un’allemande e poi una suite di danze: courante, sarabande, sarabande à l’espagnol. Il suono del basso di viola era doloroso, funereo, un lamento simile a una voce umana. Ripensai ai dischi di musica rinascimentale con le buste di cartone spruzzate di sangue, sul sedile accanto al cadavere di papà. “The Age of Baroque”. “Il Barocco italiano”. “Invito al Barocco”. A partite da quel giorno, ogni anno a natale per venti anni di seguito avevo comprato musica del Seicento da regalare a lui.
Ascoltai le suites di danze di Marin Marais nel silenzio di una notte di pieno inverno; quando la musica finì, presi la 7.65 che era ancora nel cassetto. Estrassi il caricatore, controllai che il grilletto e il percussore funzionassero azionando a vuoto. Sentii lo scatto metallico secco, la vibrazione nel palmo. Rimisi a posto le munizioni e il colpo in canna.
Mi affacciai in punta di piedi alla soglia della camera da letto, per ascoltare al buio il respiro quieto di Eugenia.
Quando una donna prova una violenta estasi sessuale al primo appuntamento con un uomo, è quasi certo che la loro relazione sarà di breve durata: per questo mi ero impegnato per dare il meglio di me stesso quella notte di natale. Perché era l’inverno della disperazione, e qualunque cosa facessimo eravamo incamminati nella direzione opposta.

* * *

Più tardi, mancavano forse due ore all’alba, infilai il cappotto con le mani in tasca e l’arma stretta in pugno e scesi in strada. Non c’era nessuno in circolazione, i portici erano deserti, ma da sotto la coperta l’uomo mi guardava con un sorriso come se mi aspettasse insonne.
Aveva sempre saputo chi fossi, fino da quando si era stabilito con i suoi fogli di cartone sotto i portici davanti alla chiesa. Mi riempii i polmoni dell’aria ghiacciata e calpestai il velo di neve secca. Si avvolse le spalle nella trapunta per mettersi a sedere in modo che nella caduta il suo corpo rimanesse nascosto sotto la coperta, così da dare l’impressione di dormire.
Rialzai il bavero del cappotto, mi inginocchiai davanti a lui come un buon samaritano. Gli afferrai il braccio: non stava tremando per il freddo, non sorrideva. Si sentiva pronto anche lui. Entrambi sapevamo che quello era il regalo di natale per papà.
Scrutai i suoi lineamenti nascosti da una barba disordinata.
— Ma l’hai riconosciuto? — mi aveva domandato Eugenia in ascensore. — C’era la sua foto su tutti i giornali quando l’hanno rilasciato, due mesi fa. È l’uomo che ha ucciso quel giudice che indagava sul terrorismo.
Ma io non leggo mai i giornali. Infilai la mano sotto l’husky lacero dell’uomo, con la pistola all’interno della manica del cappotto. Quando sentì la canna contro il cuore ebbe un sussulto, come se avesse riconosciuto attraverso la stoffa l’arma con cui venti anni prima aveva sparato a papà.
Levai la sicura con l’unghia del pollice. Era un’epoca di saggezza, era un’epoca di follia. Ogni futuro era di fronte a noi, e futuro non avevamo. Immaginai l’esplosione sorda contro la tempia di papà, il frattale di sangue schizzato a raggiera sul parabrezza, il volante, i dischi di musica barocca sul sedile accanto.

* * *

Quando tornai in casa, Eugenia mi aspettava in soggiorno; si era infilata il girocollo nero e aveva acceso i moccoli di candela mezzi liquefatti; mi sembrò che osservasse ipnotizzata la fiamma, sorreggendo il mento sulle mani a coppa, poi mi accorsi che aveva appoggiato sul tavolo A Tale of two Cities aperto alla prima pagina.
Il romanzo di Dickens ambientato durante la rivoluzione francese. Era un’epoca di saggezza, era un’epoca di follia, come i nostri anni di piombo. Pensai all’uomo davanti al portone della chiesa, alle sue illusioni di venti anni prima. Era una stagione di luce, era una stagione buia. Una stagione in cui si poteva anche pensare che uccidere un magistrato inquirente davanti alla scuola del figlio potesse affrettare l’inevitabile dissoluzione del capitalismo.
L’estasi erotica dura due, forse tre settimane; la passione qualche mese; l’amore al massimo tre anni. Passai alle spalle di Eugenia per leggere Dickens insieme a lei.
Erano i giorni migliori, erano i giorni peggiori, era un’epoca di saggezza, era un’epoca di follia, era un tempo di fede, era un tempo di incredulità, era una stagione di luce, era una stagione buia, era la primavera della speranza, era l’inverno della disperazione, ogni futuro era di fronte a noi, e futuro non avevamo, diretti verso il paradiso, eravamo incamminati nella direzione opposta.
Il mattino sorse troppo presto, dopo una notte di parole a bassa voce davanti alle candele di uvaspina che andavano lentamente in fumo. Quando accompagnai Eugenia alla fermata dell’autobus era ancora buio.