di Mauro Gervasini (da Film TV n.9, 2008)

Rec.jpg[Di norma, Carmilla pubblica solo materiali inediti, oppure rielaborati. Ci possono essere eccezioni, tipo questo articolo del nostro critico cinematografico “ufficiale” Mauro Gervasini, apparso su Film TV. Purtroppo il settimanale non ha un archivio on line, e pezzi interessanti hanno vita brevissima.] (V.E.)

Diciamolo, è un gran casino. Si va al cinema senza sapere (più) cosa si guarda. Documentario o finzione? Paratelevisione o reality show? Ben tre film in circolazione ripropongono antichi dilemmi e nuove ricerche espressive: qual è lo stile migliore per catturare la realtà o almeno per restituirne l’illusione?

Cloverfield, prodotto da J. J. Abrams, figliol prodigio (non è un refuso) della serialità Tv, racconta una storiella da grindhouse, dimenticabile appena accese le luci in sala, condendola con “extra” preventivi: un rimando alle paure del dopo 11 settembre, una strategia di (viral) marketing geniale e molto trendy, una messa in scena da cortometraggio fatto in casa. Diceva Coppola che magari, in una sperduta landa del Minnesota, una bambina di dieci anni con il Super8 dello zio stava girando il capolavoro della storia del cinema e mai nessuno l’avrebbe scoperto. Ora non è più così. Tutti provano a girare un capolavoro con la videocamera di famiglia.

Nella comunicazione di massa, nessun fenomeno come quello del “film dilettantesco” è cresciuto in modo così esponenziale dall’inizio del millennio. La tecnologia (digitale) aiuta; il cinema (quello su grande schermo) si adegua. Secondo titolo Diary of the Dead di George A. Romero (in Italia esce probabilmente ad aprile). Un gruppo di studenti gira un film su una mummia finta, con tanto di professore al seguito, e si ritrova a filmare un’invasione di morti viventi veri. Senza stacco. Finché una fanciulla superstite, in camera di montaggio, non cercherà di dare senso ad una cosa che senso non ne ha.
Terzo titolo Rec (come l’iconcina rossa delle camere digitali indicativa della registrazione in atto) dei catalani Jaume Balagueró e Paco Plaza, storia di una troupe televisiva che gira uno speciale sui pompieri e li segue nel classico intervento di routine. I vigili del fuoco, nel cuore della notte, raggiungono un palazzo dove un’anziana signora dà fuori di matto. La polizia ha bisogno di qualcuno che sfondi la porta. Operatore e anchorgirl sbarazzina seguono le operazioni, ma c’è qualcosa che non quadra. La vecchia sbrana la faccia di uno sbirro. L’esercito mette in quarantena il palazzo. Un contagio si diffonde tra gli inquilini. Tutto ripreso in tempo reale, documentato dalla troupe.

Rec è uno dei più spaventosi, formidabili horror degli ultimi anni. Ed è anche la chiave di volta teorica di tutto il discorso. Il documentario racconta la realtà da un’ottica parziale (quella dei realizzatori) ma utilizzando materiali inconfutabili (d’archivio o di evidenza oggettiva). Il mockumentary (tipo Death of a President) è semplicemente una variabile della finzione alla quale si dà parvenza documentaristica per avvalorare un’ideologia della visione (come dire: nonostante tutto, ti mostro il vero). Cloverfield (in modo furbastro), Rec e Diary of the Dead (dall’alto della loro consapevolezza) rappresentano semplicemente il paradosso di un cinema fantastico che (si) racconta attraverso la forma più vicina, oggi, alla riproduzione del reale, quella del digitale, la vera camera stylo. Non sono finti documentari e non giocano su questa ambiguità (come Blair Witch Project; ma tutti sappiamo benissimo che il vero capostipite del filone è italiano, Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato). Non nascondono i propri riferimenti (lo spunto di Rec è lo stesso di una puntata di X-Files della settima stagione, intitolata X-Cops) e pur con le sacrosante intenzioni d’autore (vedi Romero) non tradiscono la vocazione all’exploitation, al contrario di altri esperimenti più velleitari (quale, secondo noi, Il cameraman e l’assassino).

Esiste una morale in tutto ciò? Forse sì. Magari un liceale animato solo da intuizioni primitive e conoscenza tecnica gira un capolavoro con la microcamera del cellulare, ma sarebbe l’eccezione che conferma la regola. Mettete nelle stesse condizioni un artista con qualcosa da dire, e avrete comunque vero cinema.