di Fabrizio Lorusso

SoldatoMessicano.jpgNel 2007, il Presidente del Messico, Felipe Calderón (del conservatore PAN, Partido Acción Nacional), stabilì come priorità per il suo Governo la lotta al crimine organizzato su cui sarebbero ricaduti “tutto il peso e la forza dello Stato”. L’ambizione presidenziale era quella di poter ridurre significativamente i cosiddetti delitti contro la salute, cioè, fuori dalla terminologia giuridica, le attività di spaccio e commercio di sostanze stupefacenti illegali, soprattutto cocaina, droghe sintetiche e marijuana.
Storicamente il fenomeno del narcotraffico cominciò ad apparire nel Messico del boom economico degli anni sessanta (periodo del desarrollo estabilizador) e settanta (periodo del desarrollo compartido) nel contesto di una relazione perversa e occulta con lo Stato.

Grazie alle risorse generate dall’industria petrolifera e dalla crescita economica oltre che al sistema di governo autoritario centrato sul PRI come partito egemonico a tutti i livelli, il potere politico riuscì a imporre certe regole di condotta che vietavano al crimine organizzato la partecipazione nella gestione politica, proibivano l’introduzione massiccia di droghe nel mercato interno mentre tolleravano l’esportazione e, infine, esigevano una certa obbedienza alla volontà statale.
Negli ultimi 10 anni, l’indebolimento dello Stato, l’alternanza nel potere politico e la crescente, anche se non completa, democratizzazione delle istituzioni a livello nazionale e regionale hanno condotto alla rottura delle precedenti reti fiduciarie tra la politica e il mondo del narco. In un sistema federale come quello messicano, il progressivo aumento delle competenze dei governatori locali, eletti direttamente dai cittadini in ogni singolo stato, ha favorito l’ulteriore frammentazione dei livelli di gestione della relazione con il crimine organizzato che ha spinto verso l’incremento del consumo locale e la violenza come metodo di intimidazione contro la popolazione, le forze dell’ordine e i politici non graditi.
Ad ingigantire il potere strategico, già alto per la vicinanza agli USA, dei cartelli del narcotraffico messicano (1) è stata anche la lenta ma costante ritirata dei loro omologhi colombiani che, dopo la morte di Pablo Escobar e la dissoluzione del potente cartello di Medellin nel 1993, hanno perso il monopolio della distribuzione verso il mercato statunitense, il più grande del mondo per tanti prodotti tra cui gli stupefacenti. Inoltre, il controverso Plan Colombia, implementato nel 2000 dall’allora Presidente colombiano Andrés Pastrana. Questo piano è stato poi ripreso, insieme ad altre durissime e costose operazioni militari, spesso alternate e confuse con l’antiguerriglia, anche dall’attuale Capo di Stato Alvaro Uribe e ha comportato un impegno economico, tecnico e militare diretto degli Stati Uniti in Colombia che ha costretto alla difensiva i signori della droga anche se non ha fermato la violenza e il commercio illecito.
Sul fronte messicano, per combattere il narcotraffico il Presidente ha ordinato un anno fa il dispiegamento di quasi 30mila soldati inizialmente nel suo Stato natio, il Michoacan, e poi in altri 7 stati dominati dai cartelli della droga, soprattutto nel nord del paese. Poi in realtà gli uomini inviati nei territori dell’operazione sono stati circa 10mila e la loro distribuzione è risultata abbastanza arbitraria e ha generato risultati tuttora in discussione ed evoluzione. Le politiche di controllo della domanda e del consumo nazionale, le ipotesi di liberalizzazione parziale oppure la sensibilizzazione dei think tanks e dei decisori statunitensi sul medesimo tema sono tutti elementi poco considerati e troppo spesso rinviati indefinitamente dalla classe politica e dalla stessa società civile (e non solo in Messico…).
Ed è proprio in questa carenza che sta il nucleo del problema: s’è adottata una strategia aggressiva basata sull’induzione del terrore nella gente via spot radiofonici e TV e sull’estirpazione dell’offerta attraverso l’intervento militare massiccio, maggiori controlli doganali e distruzione di coltivazioni come in Colombia. Il risultato è che s’è demonizzato il narco come fosse un nemico esterno alla società, un cancro che nulla a che vedere, per esempio, con il “buon messicano” padre di famiglia o con lo studente, target principali del bombardamento mediatico in corso, e s’è ignorato il lato importantissimo del consumo interno e delle politiche per ridurre la domanda anche negli USA. Dagli anni ottanta, quando Ronald Reagan dichiarò guerra alle droghe nel suo paese (e nel resto del mondo), l’azione repressiva è stata rivolta quasi solo contro l’offerta nei paesi produttori tra cui spiccavano la Colombia, il Messico, il Perù e la Bolivia. Questa prospettiva, osteggiata da una parte del mondo accademico e dagli anti-proibizionisti, implicava una sorta di diritto naturale d’ingerenza negli affari interni di numerosi paesi latinoamericani da parte della potenza del nord tramite l’imposizione di finanziamenti discrezionali, somministrazione di “assistenza tecnica”, istruzione e presenza effettiva di tipo militare. Perciò, mentre cadeva il muro di Berlino e la URSS collassava, la lotta alle droghe stava diventando uno dei nuovi pilastri che, insieme alla migrazione e al terrorismo, avrebbero sostituito il “pericolo comunista” e legittimato discorsi e azioni degli USA negli anni a venire.
Ora, un po’ più a sud al di là del Rio Bravo (il fiume di confine chiamato dagli statunitensi Rio Grande, n.d.r.), dopo un sessennio perduto in cui l’ex Presidente Vicente Fox ha lasciato mano libera alla delinquenza, i costi delle principali droghe sono diminuiti drasticamente nel mercato interno e le esportazioni verso gli USA sono cresciute. Oggi un grammo di cocaina costa solamente 2 dollari in Colombia e 7,8 in Messico mentre la marijuana costa rispettivamente 80 e 40 centesimi di dollaro per ogni 10 grammi. Secondo uno studio della Universidad Nacional Autonoma de Mexico, il business totale legato al narcotraffico coinvolge circa 250mila persone e raggiunge la cifra di 15 miliardi di dollari ai quali possono sommarsi ragionevolmente i 9 miliardi di dollari prodotti dal traffico di armi e controllati in gran parte dagli stessi cartelli della droga. E’ chiaro che le dimensioni mastodontiche di questo giro d’affari sono l’aspetto evidente e quantitativo di un sottofondo culturale più nascosto, complesso e qualitativo che è fatto di proibizionismo, bigottismo, compartecipazione ai guadagni e connivenza da parte del potere, difficili scelte di vita della gente comune e di gruppi criminali che sono “Stati nello Stato”.
In risposta a tutto ciò, s’è deciso di militarizzare il conflitto e seguire, così, il tipo di lotta promosso, senza grandi risultati, da Reagan oltre vent’anni fa e dal colombiano Uribe ancora oggi. L’iniziativa del presidente messicano, denominata inizialmente “Operativo Michoacan”, ha portato a risultati discutibili sul piano pratico anche se la propaganda ufficiale s’è sforzata di giustificarla e di promuoverne gli eventuali vantaggi per la società intera: quello che importa è l’aspetto quantitativo e le cifre da sfoggiare sul sequestro della droga e gli arresti mentre non interessa molto se i processi non si concludono e se i politici coinvolti non hanno sanzioni. Per esempio, si diffondono abbondantemente i dati incoraggianti sulle oltre 50 tonnellate di cocaina sottratte al mercato e sui circa 100 capi mafiosi estradati negli USA ma si tralasciano gli aumenti nei consumi interni e il record di 2360 esecuzioni (500 in più rispetto al 2006) registrate nell’ultimo anno e che sono legate, in gran parte, al narcotraffico e alla diffusione illegale delle armi da fuoco (2).
Un altro elemento da considerare è la dissoluzione progressiva delle reti sociali comunitarie e degli usi e costumi (sociali, giuridici e politici) dei villaggi rurali che vengono intimiditi dalla presenza militare e osteggiati nello svolgimento naturale delle loro pratiche abituali con il fine d’imporre unilateralmente lo Stato di diritto e la legge ordinaria a scapito delle tradizioni. La caccia alle streghe lanciata contro qualunque cosa che odori di “protesta sociale” o, sull’altro fronte, di narco, così come l’incarcerazione indiscriminata (tanto per far numero) hanno condotto a una serie di abusi correlati e discriminazioni sofferte dalle mogli, dai figli e, in generale, dalle famiglie e comunità dei presunti colpevoli di delitti contro la salute oppure, ed è il caso di Atenco e Oaxaca nel 2006 (3), dei simpatizzanti dei movimenti sociali i quali subiscono gli eccessi di un sistema basato sulla cultura giuridica della “presunzione di colpevolezza” (4). In questo modo il discorso di George Bush sulla “sicurezza nazionale statunitense” si trasforma, in Messico, nella retorica anti-narco e anti-dissenso sociale mascherata dagli slogan della lotta al terrorismo, includendo in questa definizione un gran numero di fattispecie interpretabili con una flessibilità giuridica piuttosto pericolosa che non garantisce i diritti del cittadino (5).
In mezzo a mille polemiche, nell’ottobre scorso è stata infine suggellata la strategia governativa grazie all’approvazione di un aiuto straordinario, incluso nel cosiddetto Plan Mérida, di 1,4 miliardi di dollari per 4 anni da parte del Parlamento USA affinché il Messico compri, da imprese statunitensi, materiali bellici, mezzi di trasporto e attrezzature varie per la lotta contro i narcos e riceva, altresì, assistenza tecnica per il loro impiego. Il sospetto, non ingiustificato, di una parte della società messicana è che l’intervento, seppur indiretto, di un paese straniero come gli Stati Uniti, così interessato al destino della cocaina in transito nel Messico ma così poco attento, per esempio, alle esigenze dei suoi migranti, possa costituire una parziale restrizione alla sovranità nazionale nel momento in cui gli aiuti finanziari e tecnici vengano subordinati all’adozione di politiche interne prestabilite oppure all’ingresso di personale militare straniero. Calderón ha garantito che non avverrà nulla di quanto vaticinato dall’opposizione, ma i dubbi restano tra chi ha ribattezzato il Plan Mérida con il nome di Plan Mexico, in analogia con il più contestato e ormai decennale Plan Colombia (6). Nonostante gli sforzi fatti e alcuni risultati, quantitativamente significativi, i sette cartelli che operano nel paese hanno intensificato le loro reazioni e i loro avvertimenti perpetrando omicidi e decapitazioni intimidatorie tanto di agenti delle forze dell’ordine come di giornalisti e membri di bande rivali in quasi tutte le 30 entità statali (sulle 32 del Messico) in cui sono presenti.
Rimangono le incertezze rispetto all’evoluzione futura del conflitto interno che il paese vive silenziosamente da decenni e che è esploso rumorosamente alla fine del governo Fox: l’applicazione dal 2008 degli aiuti USA con il Plan Mérida, il rispetto dei diritti umani, la situazione delle carceri, il ruolo dell’esercito nella sicurezza interna, le connessioni narco — politica, la riforma della giustizia (approvata pochi giorni fa dalla Camera) e l’auspicabile formulazione di proposte integrali e incrociate USA—Messico e domanda—offerta per inquadrare il problema in modo coerente e rispettoso delle differenti esigenze nazionali.

(1) Cartel de Tijuana dei fratelli Arellano Felix, Cartel de Colima degli Amezcua Contreras, il Cartel de Juarez fondato da Amado Carrello Fuentes, il Cartel de Sinaloa del Chapo Guzman e del Guero Palma, il Cartel del Golfo, quello di Oaxaca e quello del Millennio dei Valencia. Vedi qui.
(2) Cfr. Carmilla e El almanaque mexicano 2008 di Sergio Agauyo Quezada, p. 167.
(3) Vedi qui.
(4) Sulla discriminazione delle famiglie dei narcos e presunti tali, cfr. il libro di Corina Giacomello, “Rompiendo la zona del silenzio”, ed. Amazonas, 2007.
(5) Vedi La Jornada del 12 maggio 2007.
(6) Vedi La Jornada del 23 ottobre 2007.