di Serge Quadruppani. Trad. di Maruzza Loria.

SarkoNapo.jpg[Il presente articolo è apparso su Il manifesto in versione mutila. Ne proponiamo il testo integrale.]

Forse non è indifferente che, con l’avvicinarsi di una settimana di scioperi e di movimenti sociali che dovrebbe decidere sulle possibilità di riuscita della restaurazione sarkoziana, nel momento in cui risorgerebbe lo spettro del grande sciopero dei trasporti del 1995 di cui Pierre Bourdieu s’era fatto portavoce, e che vide una buona parte della popolazione francese riscoprire il piacere dell’assemblea generale e dello slogan “tutti insieme”, i media dominanti da quella parte delle Alpi abbiano intanto sostenuto con una insistenza e una unanimità nord-coreana la campagna di promozione dell’ultimo libro di un “pensatore” del jet-set (1), prima di dare abbondantemente la parola a un autore che ha preso Bourdieu come bersaglio (2).

La moda anti-Bourdieu

Fare fuoco sul sociologo della dominazione è d’altronde diventata una scorciatoia molto frequentata verso la consacrazione mediatica. Appena tre anni fa, la stampa dominante si era già innamorata di un altro libro che denunciava gli attacchi di Bourdieu contro… la stampa dominante (3). In questa occasione, un giornalista di Le Monde, rendendo conto dell’opera, aveva spinto il processo alle intenzioni un po’ lontano: “Sotto l’apparenza di versare carrettate di offese sui giornalisti, accusati di essere i servi dei potenti, potrebbe proprio succedere che qualcosa come l’ordine stesso della libertà venga rimesso in questione da queste critiche”. E di concludere con uno strano accostamento tra le critiche attuali contro i media dominanti (che vengono da Bourdieu, da Serge Halimi di Le Monde diplomatique, o dal filosofo Jacques Bouveresse), e le critiche del XIX secolo e dell’inizio del XX contro la stampa che “sposano un altro fenomeno: l’antisemitismo (4).
In quel caso, l’accusa era rimasta indiretta e al condizionale. Non lo fu in una trasmissione-faro di France Culture dove Jean-Claude Milner, linguista, assicurava che una delle opere più celebri di Bourdieu, Les héritiers (I delfini, Guaraldi), era antisemita — perché, in effetti, quando Bourdieu se la prendeva con “i delfini” (i figli delle classi dirigenti che, per le loro origini, dispongono di un capitale culturale e relazionale che permette loro di accedere molto più agevolmente a delle posizioni di potere), era agli ebrei che pensava! Come diceva, in reazione a queste dichiarazioni, una petizione firmata da grandi nomi dell’università: “ Queste frasi non meriterebbero che le si rilevi tanto sono assurde e ridicole. Ma, a forza di maneggiare l’offesa così come viene, sono gli atti e le parole realmente antisemite o razziste che si banalizzano”(5).
L’avvertimento potrebbe essere utilmente esteso a Bernard Henry-Lévy: a dar retta alla nostra starlette nazionale, è l’estrema sinistra e tutti gli autori o uomini politici che lui vi collega che possono essere tacciati di anti-americanismo e d’antisemitismo. Il ridicolo e l’assurdità delle sue accuse non hanno impedito l’automatico concerto di elogi. Inoltre, il suddetto concerto questa volta ha ricevuto il rinforzo dei tenori di quella corrente del Partito socialista decisa a imboccare una via blairista-veltroniana, che vi hanno visto un’occasione per attaccarsi a tutto ciò che, da vicino o da lontano, somiglia a una critica del capitalismo come tale. Che si tratti del bombardamento a tappeto di un BHL su tutto ciò che gli sembra di estrema sinistra o dei tiri concentrati contro Bourdieu presentato come icona del radicalismo (6), si scorge, nei partigiani di un neo-liberalismo pure in posizione egemonica, una punta di disagio. Gli ideologi dominanti sono infastiditi da questo incredibile “ritardo” francese: la persistenza, malgrado il trionfo sarkoziano (sarkozista), di mentalità e di idee, di autori e di militanti anticapitalisti.

Badiou

Non soltanto queste persone e queste idee ci sono sempre, ma sono molto vive. Lo testimonia il successo editoriale di un Alain Badiou. Benché beneficiato da un battage infinitamente minore delle operette della starlette, il suo libro, De quoi Sarkozy est-il le nom?, appena uscito, ha dovuto essere ristampato. Scritto a partire dai suoi seminari all’École normale supérieure, che si sono svolti durante e dopo le elezioni presidenziali del maggio 2007, egli prende in contropiede il “feticismo parlamentare che abbiamo al posto della democrazia” e la depressione che seguì l’elezione di Sarkozy. Questi, spiega, incarna la riapparizione di un “trascendente francese”, così definito : “… con le persone dei paesi privilegiati, si crea di sana pianta la paura, interna ed esterna, della guerra, perché la guerra è allo stesso tempo presente (da lontano) e no (da noi), in un rapporto problematico tra il locale e il mondiale. (…) Questa questione ha in Francia una storia particolare. Il nome tipico di questa combinazione di guerra e di paura da noi è: ‘pétainismo’.” Un po’ più avanti, precisa: “Il pétainismo presenta gli abominii soggettivi del fascismo (paura, delazione, disprezzo degli altri) senza il suo slancio vitale”. Questa definizione è interessante nella misura in cui, alla luce di ciò che è successo recentemente intorno ad alcune categorie di stranieri in Danimarca o in Italia, si potrebbe dire che il pétainismo è diventato un fenomeno internazionale, o almeno europeo.
Ma Badiou insiste sulla sua specificità francese, spingendosi fino a dire che c’è, in Francia, “una tradizione nazionale del pétainismo molto anteriore a Pétain” che vede ricomparire in tre momenti della storia: la Restaurazione del 1815, il pétainismo propriamente detto nel 1940, e l’era Sarkozy. Egli definisce questa tradizione secondo cinque criteri: “Primo, in questo tipo di situazione, (…) la capitolazione e il servilismo si presentano come invenzione, rivoluzione, rigenerazione”. “Secondo, … il motivo della ‘crisi’, della ‘crisi morale’ (…) giustifica le misure prese in nome della rigenerazione”. Terzo, “la funzione paradigmatica delle esperienze straniere (…) Nei paesi stranieri ‘buoni’, ai demoralizzatori gli si è fatta la festa! Tocca a noi finalmente fare lo stesso”. Quarto, “la propaganda secondo cui, cristallizzando e peggiorando la crisi morale, è successo, da poco, qualcosa di nefasto”. Quinto, “le diverse varianti della superiorità della nostra civilizzazione su alcune popolazioni straniere (gli Africani, per esempio), ma anche su delle ‘minoranze’ interne (i giovani Arabi, per esempio)”. Ci permetteremo qui di insistere: questi criteri sembrano applicarsi altrettanto bene all’Italia di oggi. Basterà rimpiazzare Arabi con Rumeni e “risituare” l’”elemento nefasto” nel suo contesto nazionale (giugno ’36 per Pétain, Maggio ’68 per Sarkozy, gli anni ’70 per Veltroni-Berlusconi).
Difficile non essere sedotti dallo stile di Badiou, un felice miscuglio di una lingua quasi sempre limpida, di rigore filosofico e di divertente inventiva polemica (per esempio i passaggi in cui, definendo i recenti alleati di Sarkozy come dei topi — in ragione della loro rapidità ad abbandonare la nave socialista – arriva a trovare per il nuovo presidente un soprannome che gli va come un guanto: “l’uomo dei topi”). Difficile anche non essere toccati dalla sua riabilitazione di questa bella parola: comunismo. Difficile, infine, non trovare molta forza nella sua proposta di una ”alleanza dei senza paura” per definire alcuni “punti da sostenere”, tra cui questo: “Per quanto riguarda l’esistenza nel nostro paese di migliaia di stranieri, ci sono tre obiettivi: opporsi all’integrazione persecutoria; limitare la chiusura comunitaria e le tendenze nichiliste che essa trasmette; sviluppare le virtualità universali delle identità. L’articolazione concreta di questi tre obiettivi definisce ciò che c’è di più importante oggi in politica”. Difficile infine, comunque, non notare i buchi neri del suo pensiero, e in particolare l’assimilazione che confonde il maggio ’68 e la Rivoluzione culturale maoista, questo sanguinoso apogeo della manipolazione delle masse da parte di frazioni della burocrazia. La sofferenza infinita di milioni di deportati e di affamati, la regressione intellettuale e umana, l’umiliazione del sogno di miliardi di esseri umani, tutti i crimini di cui si sono resi colpevoli lo stalinismo e la sua variabile cinese rendono inaccettabili le debolezze di Badiou nei loro confronti. Lo preferiamo, e di molto, in veste di profeta armato (dalle armi della critica) della fine dell’Occidente:
“La massa degli operai stranieri e dei loro figli testimonia, nei nostri vecchi stanchi paesi, la giovinezza del mondo, la sua estensione, la sua infinita varietà. E’ con loro che s’inventa la politica che verrà. Senza di loro, noi sprofonderemmo nel consumo nichilista e nell’ordine poliziesco. Che gli stranieri ci insegnino almeno a diventare stranieri a noi stessi, abbastanza per non essere più prigionieri di questa lunga storia occidentale e bianca che volge al termine, e di cui noi non abbiamo più nulla da attenderci se non la sterilità e la guerra. Contro questa attesa catastrofica, sicuritaria e nichilista, salutiamo l’estraneità del mattino” (7).

(1) Bisogna solo menzionare l’esistenza della vecchia starlette delle idee francesi in un testo che vuol essere un minimo serio? E’ da trent’anni che la questione dovrebbe essere risolta, da quando con il lancio del gadget della “nouvelle philosophie”, alcuni autori veri come Pierre Vidal-Naquet e Cornélius Castoriadis hanno mostrato la vacuità delle idee e l’ignoranza buffonesca del suo principale portaparola. E ciononostante, da trent’anni ogni nuovo libro di BHL si traduce in una occupazione egemonica dei media. Si avrà un’idea dell’ampiezza del fenomeno e delle ragioni della sua longevità leggendo in particolare Serge Halimi, “L’oligarchie, le Parti socialiste et Bernard-Henri Lévy”, Le Monde Diplomatique, novembre 2007, così come l’eccellente sito di critica dei media Acrimed: Mathias Reymond, “BHL, évidemment”.
(2) Nathalie Heinich, Pourquoi Bourdieu, Gallimard, 2007
(3) Géraldine Muhlmann, Du journalisme en démocratie, Payot, 2004
(4)Nicolas Weil, “Le journalisme au-delà du mépris”, Le Monde, 2 aprile 2004
(5) “Après Bourdieu, à qui le tour ?” di Jacques Bouveresse, Jean-Pierre Changeux, Christophe Charle, Roger Chartier, Françoise Héritier e altri 28 , Libération, giovedì 8 febbraio 2007
(6) Presentazione largamente abusiva. Se la cassetta degli attrezzi degli scritti di Bourdieu è assai utile per chi vuole pensare al superamento delle categorie di pensiero del capitalismo, lui stesso non ha preteso, con le sue posizioni politiche, di andare al di là del sostegno ai sindacati e della critica dell’ultraliberalismo e non si è mai inscritto in un modo di procedere radicale, di rottura con il capitalismo. Ciò che rende tanto più grottesca la dichiarazione di N. Heinich, che accusa Bourdieu di essere caduto alla fine della sua vita nella radicalità, la quale sarebbe, secondo una definizione di quest’ultima, “il cammino più sofisticato verso la stupidità”. Definizione radicalmente stupida ma adatta al tono di totalitarismo centrista, il cammino più semplice verso l’accettazzione beata dell’esistente.
(7) Tutte le citazioni di Badiou sono prese da De quoi Sarkozy est-il le nom? Circonstances, 4 Lignes, 2007.

(1 – CONTINUA)