di Valerio Evangelisti

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Sabato 3 marzo un sacrosanto corteo di varie migliaia di persone si è mosso in direzione del CPT (centro di permanenza temporanea) di Bologna, per chiederne la chiusura. E’ stato violentemente caricato, di sicuro si preparano denunce a carico di alcuni dei manifestanti. Prevedibile il plauso di chi vuole che l’ordine, nella città ex rossa (oggi color cacca), sia mantenuto a tutti i costi.
Ma quale “ordine”? Quello di carceri vergognose riservate a innocenti, colpevoli di fuggire dalla sorte di miseria e guerra cui il potere mondiale “liberale” ha condannato i loro paesi, e continenti interi?
Se tacere di fronte a un simile scandalo significa “legalità”, vuole dire che “legalità” è una parolaccia.

Capiamoci bene. Stiamo parlando di uomini e donne senza colpa ingabbiati perché la povertà li ha spinti là dove speravano di poter condurre un’esistenza decente. Quanti di loro non sono morti nel tentativo, si sono trovati esposti, in quanto poveri, alle peggiori umiliazioni, tra cui il carcere.
E’ ora che termini questa porcheria, questa persecuzione contro i più deboli. Non vedo colpe in chiunque manifesti il proprio sdegno, in tutte le forme, contro l’iniquità. Gli altri, i “legalitari”, i “liberali”, coloro che istigano la repressione stanno dalla parte del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale, della Nato. Sono loro che creano il “problema” che poi sperano di annullare con la forza.
Muoiano i CPT con tutti i filistei (si chiamino anche “centrosinistra” o – mi scappa da ridere – “partito democratico”).

Con l’occasione, propongo qua una mia recensione al libro di Marco Rovelli Lager italiani (BUR, 2006, pp. 290, € 9,80), scritta per il manifesto e mai pubblicata.

I LAGER DI CASA NOSTRA

Si stanno moltiplicando i reportages che hanno il sapore e il valore di un’opera letteraria. Non c’è nulla di nuovo, in questo, e stupisce lo scandalo di alcuni, timorosi di improbabili contaminazioni. Sono due secoli e passa che scrittori di primo piano si mescolano a eventi del loro tempo e, accanto alla pura narrativa, forniscono resoconti di esperienze, di viaggi, di imprese politico-militari, di esplorazioni dei lati meno vistosi del loro presente.
Semmai, la novità è che alcune opere recenti manifestano un forte impegno sociale. Forse è questo che stupisce, in un’epoca che vorrebbe messa al bando la scelta politica netta e gli interrogativi troppo profondi. Ciò che era lecito a Friedrich Engels, a Jack London, a George Orwell (immergersi negli inferni di Inghilterra, Francia e Stati Uniti, cogliere dal vivo la vita dolorosa di operai, minatori, emarginati), non lo sarebbe per giovani scrittori italiani odierni, che attenterebbero alla purezza dell’ “oggetto letterario”.
Tutte sciocchezze, è chiaro. Il rimprovero che sottostà alla condanna è semplicemente quello di coltivare la visione di una società stratificata, con dominanti e dominati, in un momento in cui l’asettico termine di “imprenditori” ha sostituito il desueto “padroni”, e in cui i “proletari” di un tempo sono divenuti “impiegati”, “collaboratori” o quant’altro. Una “sinistra moderna”, in equilibrio con una destra sempre uguale a se stessa ma che per misteriose ragioni appare nuova, ha fatto da battistrada a innovazioni lessicali capaci di spegnere ab origine ogni possibile conflitto troppo acuto. Dato il quadro, un autore che scoperchi la pentola e mostri la sussistenza di un “sistema” tanto potente quanto criminale non può che riuscire sgradito.
E’ il caso di Marco Rovelli, autore di Lager italiani. La provocazione è presente fin dal titolo. In un paese in cui, ufficialmente, si seguita a negare una memoria appesantita da lager per etiopi e slavi, da stragi di massa, da eccidi anche recenti (in Iraq, per esempio), e nel quale gli unici lager ammissibili storicamente sono quelli nazisti, parlare di campi di concentramento italiani contemporanei non può che destare scandalo.
Eppure Rovelli ce lo dimostra. Al centro del suo lavoro sono i CPT: i Centri di permanenza temporanea che l’Italia, non unica in Europa, ha allestito per detenervi chi giunga clandestinamente ai suoi confini. Un’invenzione del penultimo centrosinistra, che il centrodestra ha appena un po’ aggravato facendo dell’ingresso nel nostro paese una sorta di reato, da debellare con la massima durezza.
Rovelli è andato a interrogare i reclusi o ex reclusi dei CPT, raccogliendone le storie individuali. Siamo abituati a considerarli una massa unica, guidata da magnifiche sorti e progressive — la società multietnica a venire — oppure spinti da un torbido progetto di invasione. Nessuna delle due visioni è quella vera. Se interpellati uno a uno, coloro che abbiamo recluso in carceri assurde, inumane, narrano storie individuali diversissime, travagliate, in cui la costante è il dolore. Sfuggiti agli inferni voluti dalla macroeconomia — o, non è raro, dal desiderio assai comprensibile di “conoscere il mondo” — si trovano incarcerati senza avere commesso alcun crimine riconosciuto come tale.
Vengono ingabbiati, umiliati, costretti a promiscuità non volute (non solo tra sessi, ma anche tra etnie), sottoposti a oltraggi sessuali. Per quanto non sia un giudizio generalizzabile, oggi polizia, carabinieri e agenti di custodia, in larga percentuale, non sono diversi da quelli di Bolzaneto. Ci sono le eccezioni, certo, e nel libro risaltano. Ma risalta anche la tendenza, diffusa nell’assieme della società, a considerare il perdente colpevole delle sue miserie, con licenza di infierire su di lui ai massimi gradi di crudeltà.
Le vittime sono magrebini, slavi, sudamericani, asiatici. Provengono da parti del mondo costrette, in condizioni di miseria estrema, ad adottare l’ultraliberismo proposto dal Fondo Monetario Internazionale e a ridurre al minimo i servizi sociali. Così l’economia si risolleverà, così si ridurrà il peso (inestinguibile) del debito. Poco importano i destini individuali di chi è travolto dal meccanismo. Cercherà di sfuggire alla sua sorte. Si ritroverà in una gabbia italiana in cui i secondini le sbavano addosso, se è donna, o lo picchiano al minimo pretesto, se è uomo.
Il libro di Marco Rovelli — sia reportage o romanzo, chissenefrega — denuncia un’ingiustizia ai limiti del tollerabile. Regole economiche pazzesche, coltivate sbirciando continuamente l’andamento dei titoli di borsa, producono ondate migratorie. Quelle stesse ondate, quando si credevano in salvo su coste “democratiche”, si ritrovano fra le sbarre, a sperimentare le poche sofferenze non patite fino a quel momento. Per sopravvivere, a parte lo sfruttamento, una sola soluzione: l’illegalità. Ciò garantisce nuove sbarre, prima o poi.
Va notata l’evoluzione, in questo senso, di una componente del centrodestra: la Lega Nord. Prima ce l’aveva con i meridionali italiani. Poi passa ai magrebini. Successivamente ai neri in generale. Ed ecco che arrivano gli slavi: biondi, altissimi. Non rientrano nello schema. Allora diciamo che una parte minoritaria di loro sono musulmani. La guerra è contro l’Islam…
A parte la schizofrenia costante della Lega Nord, tutto il centrodestra, incluse le ali che si autodefiniscono “liberali”, sul tema dell’immigrazione e dei CPT è compattamente fascista. Peccato che i CPT siano creazione del centrosinistra, come Rovelli spiega bene, in appendice, nelle sue “Note deperibili”…
Ho idea che la radice del male risieda nella parola “centro”. Nucleo di moralisti capaci di sbattere poveri diavoli in un lager, nel nome di una presunta sicurezza sociale, e lasciare che fascisti dichiarati gestiscano il seguito. Pare inevitabile portarsi addosso questi figuri. Fortuna che un Marco Revelli ci fa avere, per un attimo, qualche brivido circa gli esiti della manovra.