di Lucio Angelini

(Dedicato a Massimo Cacciari, sindaco di Venezia)

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Della sua infanzia fanese Luchino ricordava solo qualche frammento: un treno che partiva, la testa del suo babbo che sporgeva da un finestrino e rimpiccioliva sempre più in lontananza, e soprattutto una filastrocca: ‘Staccia minaccia’. Gliela cantava sempre sua nonna Celerina, scuotendolo avanti e indietro, dopo averlo preso a cavalluccio sulle ginocchia.

Staccia minaccia
il babbo è andato a caccia

(“Ah, ecco dove è andato con quel treno maledetto!”, esclamava Luchino nella sua testa. “Ma a caccia di che cosa?”, si domandava subito dopo. La filastrocca, purtroppo, non lo chiariva. Il concetto di caccia, anzi, era bruscamente sostituito da quello di acquisto: che la caccia fosse stata infruttuosa?)

“… a comprare l’uva e i fichi
da dare agli amici
”.

(“Bel padre!”, ragionava Luchino, “invece di pensare a me, che sono il suo figliolino, si preoccupa solo dei suoi amici! Perché non è più tornato a casa? E chi sono mai questi misteriosi “amici”?)
La spiegazione tenuta in serbo e presto dispensata dalla filastrocca era tutt’altro che convincente:

gli amici del convento
che pesano cinquecento
“.

(“Cinquecento che cosa? Cinquecento chili? Sono dunque dei giganti gli amici del babbo? Degli energumeni?”)
Inutile sperare di ottenere maggiore soddisfazione dai versi successivi:

Cento cinquanta
la gallina canta:
canta, gallina,
risponde Serafina
.”

(“Perché confondermi le idee in questo modo?”, protestava Luchino mentalmente. “Che c’entra la gallina? E chi è mai questa Serafina che si mette a chiacchierare con le galline? Da dove salta fuori?”)

Serafina sta in finestra
con tre cavalli in testa

proseguiva, implacabile, la filastrocca.
(“Possibile mai che una donna stia in finestra con tre cavalli in testa?”, cominciava a ridacchiare Luchino. “Possibile mai che a noi bambini si debbano raccontare delle baggianate del genere?”)
Esaurita la propria breve rinfilata di demenzialità, la filastrocca accelerava adesso verso il finale:

Testa testòn
farìn el pulentòn
.”

(Il brusco passaggio dall’italiano al dialetto fanese gli suonava piuttosto arbitrario:)

Farìn la crescia dura
da sbatta su le mura;
le mura e le porte
le chiavi dell’orte
.”

(“Oh, inestricabile groviglio!”, fremeva Luchino, pregustando il momento tanto atteso: la vertigine della caduta e la gioia del tempestivo salvamento.)

La chiave del giardìn…
butta giù ma chel fiulìn
!”

La nonna, guardandolo dritto negli occhi, allentava la presa e fingeva di lasciarlo scivolare all’indietro, poi, di colpo, appena in tempo per impedirgli di sbattere violentemente la testa contro il pavimento, lo ritirava su e l’abbracciava stretto stretto. Era un momento di assoluta esaltazione, di divertimento sfrenato e puro, di incontenibile gioia per lo scampato pericolo.

* * *

Erano passate decine d’anni, ormai. Suo padre non aveva più fatto ritorno dal suo stupido viaggio verso l’ignoto. Qualche mese dopo la sua partenza, anzi, era giunta la notizia della sua morte: si era schiantato al suolo con un piccolo aereo da lui stesso pilotato, mentre spargeva pesticidi su certe piantagioni peruviane. La salma non era stata nemmeno rimpatriata e a sua madre erano rimaste montagne di debiti.

* * *

La fanciullezza e l’adolescenza erano state faticosissime. Sua madre ce l’aveva messa tutta a fargli anche da padre, ma lui aveva sentito ugualmente la mancanza di un punto di riferimento maschile. Spesso, segretamente, aveva continuato a sperare che suo padre potesse ricomparire all’improvviso, carico di uva e fichi per lui, questa volta, a risarcimento di tante sofferenze… No, non poteva essere morto davvero! E tuttavia, tra un’illusione e l’altra, non gli era rimasto che continuare a crescere, crescere, crescere. Aveva conosciuto i sette anni, i dieci anni, i quindici anni, i vent’anni… Si era fatto grande, si era trasferito da Fano – città della Fortuna – nell’Italia del Nord. Si era sposato a sua volta e aveva anche messo al mondo dei figli: due, per l’esattezza. A ciascuno di essi, negli anni giusti, aveva ricantato l’antica filastrocca della nonna, prendendoli a cavalluccio sulle ginocchia:

Staccia minaccia,
il babbo è andato a caccia
“.

E alla fine, puntualmente, giù a ridere anche loro, eccitati dal brivido della finta caduta al suolo. Solo una volta, per una specie di distrazione, il signor Luchino aveva farfugliato un po’ confuso:

Staccia minaccia
il babbo torna dalla caccia
ti prende tra le braccia
e non ti lascia più
.”

“Papà, ma che significa ‘Staccia minaccia’?”
“Non lo so. Stacciare, di per sé, vuol dire passare allo staccio…. ”
“E che cos’è questo staccio?”
“Una sorta di arnese rotondo con cui si separa la farina dalla crusca: un telaio di legno a cui è fissato un reticolato. Lo si muove avanti e indietro, o meglio, lo muovevano avanti e indietro le nostre bisnonne, al tempo in cui erano costrette a fare il pane in casa… ”
“È lo stesso movimento che ci fai fare tu, allora, quando giochiamo a ‘Staccia minaccia’!”
“Hai ragione, vi faccio dondolare avanti e indietro, minacciandovi ogni volta di farvi cadere, ma poi, per vostra fortuna, vi risollevo in tempo.”
“Chi ti ha insegnato questo gioco, papà?”
“La mia povera nonna Celerina.”
“Non il tuo babbo?”
“No, il mio babbo era emigrato in America per lavoro. Non ebbe mai modo di giocare con me.”
“È quello che morì cadendo con l’aereo?”
“Sì, lui.”
“E non ti ha mai preso in braccio?”
“Be’, sì… Ricordo, anzi, che spesso mi issava sulle spalle, quando ero piccolo piccolo, e mi scorrazzava in giro per la casa facendomi dominare il mondo dall’alto. Era bellissimo stare lassù, così vicino ai soffitti! Mi sentivo il re del mondo.”

* * *

Per i suoi figli, tutto sommato, l’infanzia era stata facile. Non li aveva abbandonati un solo giorno, non era mai salito su alcun treno verso l’ignoto, non era mai andato a caccia a comprare l’uva e i fichi per alcun amico. Aveva fatto sentire costantemente loro la propria vicinanza affettuosa e rassicurante. Il suo babbo, invece, non era tornato più, l’aveva piantato in asso per sempre.

* * *

Da una ventina d’anni, ormai, viveva a Venezia. In quel periodo era sindaco della città il filosofo Massimo Cacciari, dalla folta barba nera e dagli occhi duri e dolci a un tempo, vero prototipo di “padre” (benché non avesse figli).
Un pomeriggio d’agosto, mentre sedeva davanti al computer oppresso dall’afa, il signor Luchino prese a digitare per scherzo la seguente lettera:

Caro sindaco Cacciari,
ascolti la mia storia e veda se può soddisfare un mio segreto (e mai sopito) desiderio: rimasi orfano di padre all’età di cinque anni, conobbi le durezze del collegio eccetera ma, malgrado tutto, riuscii a trovare un mio equilibrio e a diventare grande. Purtroppo, nei recessi della mia psiche, il desiderio inconscio di un papà ha continuato a lacerarmi, affiorando di tanto in tanto. Benché mi sia sposato e abbia messo al mondo due figli, vorrei – per una volta – realizzare un sogno inconfessato: poter di nuovo chiamare qualcuno ‘papà’ ed essere issato a cavalluccio sulle sue spalle (peso solo 85 chili). Visto che Lei è così buono, potrebbe prestarsi alla bisogna? Suvvia, mi inviti a Ca’ Farsetti e mi scorrazzi in giro per le sale consigliari mentre grido felice: ‘Arri, arri, papà Cacciari!’. Gliene sarei grato per sempre. Ardo dal desiderio di gettarLe le braccine… ehm, le braccione!… al collo e di farmi tirare su. É vero che ho compiuto da poco cinquantuno anni e che, anagraficamente, Lei NON potrebbe essere mio padre (ha solo tre o quattro anni più di me), ma con quella Sua barba austera, quei Suoi occhi duri e dolci a un tempo, incarna alla perfezione il mio ideale paterno e io sarei solo FIERO di avere un papà così giovane.
Confidando in una Sua sollecita risposta, Le porgo i miei più distinti saluti

Luchino A***

Divertito dall’assurdità della lettera (non meno scombinata della filastrocca “Staccia Minaccia”), aggiunse un ironico post-scriptum:

Se proprio non vuole incontrarmi, mi ADOTTI almeno A DISTANZA!”

Non ancora appagato, spinse il proprio insensato gioco estivo alle estreme conseguenze: inserì la missiva nel Fax e la trasmise al Gabinetto del Sindaco (trovò il numero sull’elenco telefonico).

* * *

I giorni successivi trascorsero in una ridda di rimorsi, autorimproveri (“Brutto cretino, che figuraccia!”, si insultava) e trepidanti speranze. “Magari il sindaco Cacciari troverà spiritosissimo il mio fax e starà al gioco!”, si ripeteva di tanto in tanto, per rincuorarsi. “Forse avrà anche lui i suoi cedimenti, i suoi umanissimi chicchi di pazzia, accanto a tutta quella mostruosa intelligenza… ”
Finalmente, dopo parecchie settimane di inutile attesa, il signor Luchino capì che avrebbe fatto bene a rassegnarsi: la lettera doveva essere stata senz’altro cestinata. Tutto occupato a fare il Sindaco e a scrivere libri di filosofia, quel bruttocattivo di Cacciari si era guardato bene dal rispondergli. Non doveva, anzi, aver degnato di un solo ghigno, e ancora meno di un sorriso, il suo accorato appello generato dall’afa…

* * *

In compenso, qualche notte dopo, il sindaco Cacciari andò a trovarlo in sogno. Dapprima qualcuno suonò alla porta: il signor Luchino andò ad aprire e un messo comunale gli consegnò un grosso cesto di uva e fichi. Sopra la frutta splendeva un biglietto:

Caro signor Luchino,

ho capito il Suo impulso e apprezzato la Sua audacia. L’aspetto oggi pomeriggio a Ca’ Farsetti dopo le cinque. Non Le prometto di scorrazzarLa in giro per le sale consigliari issato sulle mie spalle (come sa, sono piuttosto mingherlino e i Suoi ottantacinque chili mi spaventano un po’). Sono, tuttavia, disposto a prenderLa a cavalluccio sulle ginocchia e a dondolarLa in un inebriante ‘Staccia Minaccia’: conosce il gioco? Mi auguro vivamente, dopo averLa fatta scivolare verso il basso, di riuscire a tirarLa su in tempo.
Il sindaco
Massimo Cacciari

A quel punto il sogno si ingarbugliò, scombinandosi in un vortichio di immagini che poco avevano a che fare con l’amministrazione comunale. C’era un treno che partiva verso l’ignoto, un signore affacciato a un finestrino che gridava “Tornerò, tornerò presto da te, aspettami!”, un piccolo aereo che si schiantava al suolo, una giovane signora in lacrime, una vecchietta che stacciava alacre un mucchietto di farina e gli sorrideva in segno di incoraggiamento, un via vai di gondole veneziane traboccanti di uva e fichi… Poi, di colpo, anche quello sfarfallio si dissolse, il sindaco Cacciari ricomparve, lo prese a cavalluccio sulle ginocchia, scandì divertito le parole “Butta giù ma chel fiulìn!” e iniziò a farlo scivolare con un sorriso sornione verso il basso. Il signor Luchino fremeva di gioia, sicurissimo che il sindaco l’avrebbe tirato su perfettamente in tempo prima che potesse sbattere la testa contro il pavimento. Invece, sul più bello, quel brutto scimunito scoppiò in una risata fragorosa e irrefrenabile, mollò la presa e, nel sogno, lo lasciò precipitare rovinosamente a terra, facendogli assaggiare la durezza del pavimento. “Ben Le sta!”, gridò infine, appena si fu riavuto dal proprio accesso di ilarità. “Così impara a mandarmi certe lettere cretine! A cinquant’anni suonati non ha ancora capito che bisogna chiudere con il passato, per quanto doloroso o insoddisfacente possa essere stato? Se suo papà morì e le fece mancare uva e fichi, che cosa vuole farci più, ormai? E che cosa pretende che possa farci io, soprattutto? Sono ben altri i problemi di cui devo occuparmi: l’acqua alta, l’escavo dei rii, il moto ondoso, la decongestione dei flussi turistici e via discorrendo. Pensi piuttosto a essere lei un papà decente per i suoi figli, oggi… a non far mai mancare loro uva e fichi!”
La cosa più bizzarra fu che, svegliatosi di soprassalto, il signor Luchino avvertì un inequivocabile dolore al cranio, come dopo una effettiva caduta a testa in giù.
“E lei… e lei, allora?”, balbettò sconcertato. “Perché non si è sposato? Perché non ha messo al mondo dei figli, con quella sua perfetta faccia da Barbapapà?”
Non ci fu risposta, naturalmente: il sogno era finito e il sindaco Cacciari si era presto dileguato con esso.

(Da Lucio Angelini, Quel bruttocattivo di papà Cacciari!, Edizioni Libri Molto Speciali, Venezia)