di Daniela Bandini

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Antonio Moresco, Scritti di viaggio, di combattimento e di sogno, Fanucci, 2005, pp. 215, € 15,00.

Ho divorato questo saggio di Antonio Moresco, a ogni pagina un sobbalzo, un intimo compiacimento, la certezza di aderire al pensiero più profondo e più vero dello sgomento quotidiano e trovare un’anima (mi si passi il termine, meno obsoleto di quanto vorrebbero farci credere) così affine alla mia e, credo, a quella di tanti altri. Questi tempi sembrano imprigionarci in tante singole gabbie, racchiudenti personalità condannate all’autismo e alla deprivazione sensoriale, così quando riconosciamo l’altro come nostro simile ciò ci appare un evento capace di spezzare le catene del dominio, del controllo totale. Culturale, fisico, oggettivo, e relazionale. Forse in quei casi ci lasciamo andare, forse allentiamo la corda dell’autocontrollo che ci imponiamo per reggere il carico di responsabilità civile cui questo sistema ci costringe per non impazzire, per non perdere quelle coordinate che, sole, ti salvano dalla minaccia dell’isolamento.

Tutto questo per dirvi che questi Scritti di viaggio, di combattimento e di sogno sono un coltello affondato nel presente, e che lascia la sua traccia, la sua ferita non superficiale. Moresco si trovava a Mosca nei giorni della cattura degli ostaggi al teatro Dubrovka. Di Mosca ci suggestionano le immagini di una paese spaccato tra vecchie icone e nuove mafie rampanti, tra vecchi militari con file di medaglie sul petto e ragazze con minigonne vertiginose in compagnia di boss georgiani dagli addomi prominenti. La dolcezza quasi infantile, come i loro tratti, degli abitanti, le metropolitane dagli enormi lampadari simili a “navate di cattedrali inghiottite”, gruppi di ragazzi ubriachi, una città di dodici milioni di abitanti, tra cui moltissimi clandestini, piena di traffici, di business, di capitalismo immaturo e sfrontato, feste da ballo con ragazze in abito sa sera, palloncini colorati, e d’un tratto la visione del teatro con i corpi immobilizzati dal gas, spettatori che guardano altri protagonisti di uno spettacolo ormai alla fine.
Moresco si chiederà “In quale allucinazione sono finito?”, “Cosa succederà nel futuro a questo potente gigante umiliato, spezzato, che si distende attraverso due continenti? Dove andrà a finire una simile lacerazione all’interno della lacerazione più grande che ci sta attraversando sempre di più? Dove andremo a finire tutti quanti, in questo continente, su questo pianeta?”
Moresco dice che bisogna andare lontano dall’Italia per vedere l’Italia. Favignana, una scogliera dalla quale si scorge la Sicilia lontana, e gli accadimenti della storia, pensando al Risorgimento italiano, a come possano popolazioni intere insorgere, creare movimenti, slanci ideologici, inauditi eroismi per poi ripiombare nell’asservimento inebetito per altrettanti secoli. Moresco pensa alla sollevazione del popolo di Milano nel ’48, pensa che sta attraversando le stesse strade che videro la cacciata degli austriaci, pensa alle barricate di allora, “le strade ingombre di mobili sfondati, mura crivellate di cannonate, cadaveri stesi”.
Il viaggio continua, lascia impressioni indelebili. La visita a un convento di clausura nelle Marche. La promessa di un’intervista mai concessa prima, la delicatezza nell’affrontare gli argomenti, anche quelli più leciti, che hanno portato queste donne a scegliere (ma fino a che punto?) una vita scissa così drasticamente. E la delusione, o forse no, delle risposte. E poi c’è l’Argentina. L’Argentina della piena crisi dei bond, per intenderci. Uno spettacolo che colpisce allo stomaco perché sembra di essere in un’Italia del passato remoto o del futuro prossimo, così piena di immigrati italiani dell’immigrazione oggi elitaria, che si contrappone a quella cilena, ecuadoriana e boliviana dei pezzenti, e di contraddizioni stridenti.
“Camminiamo verso il centro, imbocchiamo una lunga via pedonale gremita di corpi, ballerini e ballerine di tango che si esibiscono in mezzo alla strada, su una pedana di legno, e poi chiedono l’elemosina, lui col vestito pesante e il cappello di feltro nonostante il caldo, lei scosciata con le calze a rete, le mutande visibili sotto la gonna tagliata. E poi ci sono bambini che tendono la mano, una donna con un improbabile camice da infermiera che ferma un passante tentando di misurargli la pressione, le grandi banche completamente sigillate in armature di spessa lamiera tempestate di colpi e di buchi e piene di rattoppi…” Un tale tasso di criminalità che il governo ha deciso di tappezzare Buenos Aires con manifesti che cercano di convincere che i turisti portano benessere e ricchezze, che bisogna trattarli bene.
Moresco continua il suo itinerario con delle riflessioni spietate sulla letteratura contemporanea, neanche tanto per colpa degli scrittori, ma del contesto nel quale sono costretti a lavorare per vivere, sopravvivere o semplicemente pubblicare.
Il penultimo capitolo, Pensieri neri, rappresenta il fulcro della riflessione di Moresco. Non è pessimismo, è realismo, c’è una bellissima “lettera agli americani”, dove esplicita il suo pensiero, riassumibile, e non solo per colpa egli americani, in “Questi furibondi cretini ci porteranno tutti quanti alla rovina”. L’ultimissimo capitolo, Diario dalla fine del mondo, parla di Ushuaia, la città più australe del pianeta Terra, a seicento chilometri dall’Antartide. Perché comunque rimangono i pinguini, metà uccelli e metà pesci, i leoni marini, il loro affannoso prendersi e accoppiarsi, le loro peregrinazioni per covare, figliare, lottare e morire, e come noi, nella vita vista da lontano, la terra là in fondo che ruota serena e immutata, flagellata da stragi, avidità, passioni personali, torturatori, dominata da una razza che si sta rivelando incapace di reggere il confronto con la memoria. Ma è l’unica vita che possediamo, e l’unica epoca che possiamo vivere, e a volte la sua bellezza ci strugge…