di Giulia Gadaleta

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Patrick Chamoiseau, Il vecchio schiavo e il molosso, trad. di P. Ghinelli, ed. Il Maestrale, Nuoro, 2005, pp. 147, € 10.

Patrick Chamoiseau ha dedicato tutta la sua narrativa alla città: ha scritto, in Texaco, l’epopea dell’inurbamento, senza risparmiarci bruttezza e precarietà, mancanza di fognature e sgomberi. Ha raccontato il mito fondativo della città attraverso la conquista di un agglomerato di baracche e catapecchie del rango di quartiere. Sebbene urbanizzazione abbia significato inurbamento caotico, l’abbandono delle campagne ha rappresentato la liberazione dall’economia della piantagione. La sua narrativa della città è insomma una poetica e una politica.

Tant’è che tornando a temi, diciamo, classici della narrativa caraibica, Chamoiseau parte proprio dal legame inscindibile tra campagna e schiavitù. Il vecchio schiavo e il molosso ne contiene i luoghi più comuni: la piantagione, la Casagrande, i bekè, il marronage, lo zucchero. E’ impossibile parlare di questo lungo racconto senza immedesimarsi nella narrazione, seguirne le evoluzioni, gli scarti, gli stop improvvisi. L’abilità affabulatoria sopravvive incredibilmente alla traduzione, che riescie a creolizzare l’italiano reinventando una lingua che, insieme al vecchio schiavo e alla sua fuga, è la protagonista incontrastata.
Nell’incipit la schiavitù è uno stato di sospensione, di immobilità stregata. Il vecchio schiavo è quieto, silenzioso, invisibile ai più. Gli uni (gli altri schiavi) gli attribuiscono poteri e conoscenze della terra di là (l’Africa), l’altro (il padrone) lo considera innocuo e non ne ricorda un solo gesto di sfida. Però, inspiegabilmente, contro ogni buon senso, proprio lui viene colto da una scarica, una sorta di possessione, improvvisa, incomprensibile, che lo porta a fuggire dalla piantagione. E’ una fuga evidentemente senza speranza, irrazionale, folle, perchè al suo inseguimento viene lanciato il molosso, il mostro, anche lui arrivato per mare come gli schiavi della piantagione, addestrato alla caccia ai fuggitivi (i marròn) attraverso la foresta. Nella fuga a perdifiato il vecchio corpo viene portato all’estremo della sopportazione, i patimenti fisici sembrano risvegliare l’anima dallo stato di zombi, man mano che la carcassa di schiavo avanza l’anima si risveglia, e la fuga diviene un viaggio allucinato, visionario, reso attraverso una lingua menzognera e deforme, orfica, che si ibrida, procede per innesti, parole che si fondono in una sola, mostri di parole, parole creole.
A un certo punto della sua inspiegabile fuga, il vecchio schiavo passa dall’egli all’io, inzia in quel punto la sua presa di coscienza: rinomina come in un inventario cose, piante, animali. Potere della parola: nominarli, crearli, ricrearli, con lui i grandiboschi rinascono a una nuova coscienza, a una nuova esistenza. La fuga procede in un crescendo, la corsa del cane è altrettanto veloce, la sua fame come un destino ineluttabile, ma lo schiavo si ferma: decide d’emblée di andargli incontro, accetta la sfida da guerriero.
Il suo viaggio è divenuto così un avvicinarsi vertiginoso e pericoloso alla consapevolezza di sè. Non importa se la lotta con il molosso sarà impari, nemmeno possiamo dirvi se il vecchio schiavo sopravviverà, ma possiamo ben dire che quel che conquista il vecchio schiavo è la dignità e il diritto alla memoria.
Possibile immaginare un messaggio più universale?