di Wu Ming (*)

1. I due corni del falso dilemma
2. Nascita del copyright e censura: contro il “mito delle origini” liberista
3. Google Print e affini: rete, gratuità e battaglie di retroguardia

1. I due corni del falso dilemma

copyleft.gifPartiamo dalla fine: il copyleft si basa sulla necessità di coniugare due esigenze primarie, diremmo due condizioni irrinunciabili del convivere civile. Se smettiamo di lottare perché si soddisfino questi bisogni, smettiamo di auspicarci che il mondo migliori.
Non vi è dubbio che la cultura e i saperi debbano circolare il più liberamente possibile e l’accesso alle idee dev’essere facile e paritario, senza discriminazioni di censo, classe, nazionalità etc. Le “opere dell’ingegno” non sono soltanto prodotte dall’ingegno, devono a loro volta produrne, disseminare idee e concetti, concimare le menti, far nascere nuove piante del pensiero e dell’immaginazione. Questo è il primo caposaldo.
Il secondo è che il lavoro deve essere retribuito, compreso il lavoro dell’artista o del narratore. Chiunque ha il diritto di poter fare dell’arte e della narrazione il proprio mestiere, e ha il diritto di trarne sostentamento in un modo non lesivo della propria dignità. Ovviamente, siamo sempre nel campo delle condizioni auspicabili.
E’ un atteggiamento conservatore pensare a queste due esigenze come ai corni di un dilemma insolubile. “La coperta è corta”, dicono i difensori del copyright come lo abbiamo conosciuto. Libertà di copia, per costoro, può significare solo “pirateria”, “furto”, “plagio”, e tanti saluti alla remunerazione dell’autore. Più l’opera circola gratis, meno copie vende, più soldi perde l’autore. Bizzarro sillogismo, a guardarlo da vicino.

La sequenza più logica sarebbe: l’opera circola gratis, il gradimento si trasforma in passaparola, ne traggono beneficio la celebrità e la reputazione dell’autore, quindi aumenta il suo spazio di manovra all’interno dell’industria culturale e non solo. E’ un circolo virtuoso.
Un autore rinomato viene chiamato più spesso per presentazioni (a rimborso spese) e conferenze (pagate); viene interpellato dai media (gratis ma è tutto grasso che cola); gli si propongono docenze (pagate), consulenze (pagate), corsi di scrittura creativa (pagati); ha la possibilità di dettare agli editori condizioni più vantaggiose. Come può tutto questo… danneggiare le vendite dei suoi libri?
Parliamo ora del musicista/compositore: la musica circola, piace, intriga, intrattiene; chi l’ha scritta o chi la esegue ne ha un “ritorno d’immagine”, e se sa come approfittarne viene chiamato a esibirsi più spesso e in più occasioni (pagato), ha la possibilità di incontrare più persone e quindi più committenti, se “si fa un nome” gli si propongono colonne sonore di film (pagate), serate come DJ (pagate), “sonorizzazioni” (pagate) di eventi, feste, mostre, sfilate; può addirittura trovarsi a dirigere (pagato) un festival, una rassegna annuale, cose del genere; se parliamo di artisti pop, mettiamoci anche i proventi del merchandising, come le T-shirt vendute via web o ai concerti…
Ecco il “dilemma” risolto nei fatti: si sono rispettate le esigenze dei lettori (che hanno avuto accesso a un’opera), degli autori/compositori (che ne hanno avuto ritorni e tornaconti) e di tutto l’indotto della cultura (editori, promoter, istituzioni etc.).
Cos’è successo? Perché il sillogismo è franato in modo tanto repentino sotto i colpi degli esempi? Perché tale sillogismo non mette in conto la complessità e la ricchezza delle reti e degli scambi, il passaparola incessante da un medium all’altro senza soluzione di continuità, le possibilità di diversificazione dell’offerta, il fatto che il “ritorno economico” per l’autore può percorrere diversi tragitti, alcuni (apparentemente) tortuosi.
E’ a causa di questa incapacità di figurarsi la complessità che l’industria culturale (soprattutto quella discografica) ha perso i primi cinquanta treni dell’innovazione telematica, vivendo le nuove opportunità tecnologiche come minacce anziché come sfide, reagendo in modo scomposto a Napster e a tutto quello che è seguito. Cominciano a muoversi adesso, a cavalcare la tigre dopo che Steve Jobs ha dimostrato che si può fare, ma nel frattempo sono andati allo scontro con eserciti di potenziali clienti, la cui fiducia è persa per sempre. Anti-marketing.
Qual è l’ultima cosa che dovrebbe fare uno che produce e vende musica? Sicuramente criminalizzare chi li ascolta, trascinare in tribunale chi la ama etc. Ne valeva la pena? Secondo noi no.
Il “diritto d’autore” (attenzione, però, a non prendere sul serio quest’espressione semi-truffaldina!) come lo abbiamo conosciuto è ormai un freno al mercato.
Al contrario, il copyleft (che non è un movimento né una “ideologia”, è semplicemente il vocabolo-ombrello per una serie di pratiche, istanze e licenze commerciali) incarna tutte le esigenze di riforma e adeguamento delle leggi sul copyright, in direzione di uno “sviluppo sostenibile”. La “pirateria” è endemica, è irreprimibile, è marea montante portata dal vento dell’innovazione tecnologica.
Certo, i potentati dell’industria dell’intrattenimento possono continuare a far finta di niente, come la Casa Bianca ha fatto finta che non ci fossero effetto-serra, riscaldamento globale e sconvolgimenti climatici in corso. In entrambi i casi, chi nega la realtà verrà travolto. Ostìnati a non ratificare il Protocollo di Kyoto, ostìnati a non investire su fonti energetiche rinnovabili e alternative al petrolio, ostìnati a non voler risolvere i problemi ambientali, e prima o poi t’arriva tra capo e collo l’uragano Katrina (e ce n’est qu’un debut!).

2. Nascita del copyright e censura: contro il “mito delle origini” liberista

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Torniamo all’ABC, mettendo in fila fatti noti e più volte ricordati. La storia del copyright comincia in Inghilterra nel XVI° secolo. La diffusione della stampa, la possibilità di distribuire tante copie di uno scritto, galvanizza chiunque abbia qualcosa da dire, soprattutto di politico. C’è un boom di pamphlet e giornali. La Corona teme la diffusione di idee sovversive e decide di affidare a qualcuno il controllo di quel che si stampa.
Nel 1556 nasce l’ordine degli Stationers [editori-tipografi-librai], casta professionale a cui viene concesso in esclusiva il “diritto di copia” [copy right], quindi ha il monopolio delle tecnologie di stampa. Chiunque voglia stampare qualcosa deve passare al loro vaglio. Fino a quel momento era diverso, chiunque poteva farsi stampare copie di un’opera letteraria o teatrale, l’autore non si preoccupava perché non deteneva i diritti (che non esistevano), la cosa importante era che le opere circolassero e aumentassero la fama dell’autore, che in quel modo avrebbe intercettato i desideri di più committenti (mecenati privati, enti culturali di vario genere come teatri etc.) Da lì in poi, invece, un’opera potrà andare in stampa solo se otterrà il visto (in pratica, il placet della censura di stato) e sarà segnata sul registro ufficiale – attenzione a questo dettaglio! – a nome di uno stationer. Quest’ultimo diverrà il proprietario dell’opera nell’interesse dello stato.
Tutta la mitologia “liberista” sul copyright come diritto naturale, che nasce spontaneamente grazie alla crescita e alle dinamiche del mercato… sono tutte fandonie! L’origine remota del copyright sta nella censura preventiva e nella necessità di restringere l’accesso ai mezzi di produzione della cultura (leggi: restringere la circolazione delle idee).
Trascorre un secolo e mezzo e in questo periodo l’autorità della Corona subisce attacchi inauditi: la ribellione scozzese del 1638, la “Grande Rimostranza” parlamentare del 1641, lo scoppio della guerra civile nell’anno successivo, la rivoluzione di Cromwell con tanto di decapitazione del re… Alla fine degli anni cinquanta del XVII° secolo nel Paese torna la monarchia, ma la situazione rimane instabile e finalmente il Parlamento riesce a imporre alla Corona una Dichiarazione dei diritti. Da quel momento, la monarchia inglese sarà una “monarchia costituzionale”.
Era necessario elencare questi eventi per far capire quanto si modifichi, in centocinquant’anni, l’atteggiamento nei confronti del sovrano, quindi anche della censura preventiva, e di conseguenza anche del potere degli stationers. Nei confronti di questi ultimi c’è sempre più insofferenza, così si decide di abolire il monopolio sul diritto di stampa.
Gli stationers verrebbero colpiti dove fa più male, cioè nel portafogli, quindi reagiscono con rabbia. Iniziano a fare pressioni perché l’imminente nuova legge riconosca i loro legittimi interessi e si volga comunque a loro vantaggio. Ecco la nuova argomentazione: il copyright appartiene all’autore; l’autore, però, non possiede macchine tipografiche; tali macchine le possiede lo stationer; ergo: l’autore deve comunque passare attraverso lo stationer. Come regolare tale “passaggio”? Semplice semplice: l’autore, nel proprio interesse a che l’opera venga stampata, cederà il copyright allo stationer per un periodo da stabilirsi.
Alla foce, la situazione resta più o meno invariata. A cambiare è la sorgente, il presupposto giuridico. La giustificazione ideologica non si basa più sulla censura, ma sulle necessità del mercato. Tutte le conseguenti mitologie sul diritto d’autore derivano dallo stratagemma argomentativo della lobby degli stationers: l’autore è di fatto costretto a cedere i diritti, ma è costretto… per il proprio bene.
I contraccolpi psicologici saranno devastanti, si arriverà a una variante della “Sindrome di Stoccolma” (l’amore del sequestrato per il proprio rapitore), autori che si mobilitano in difesa di uno statu quo che si fonda sul loro stare ai piedi del tavolo in attesa degli avanzi e di una carezza sulla testa, pat! pat! wuf!
La legge è il celebre “Statute of Anne” – capostipite di tutte le leggi e gli accordi internazionali sul diritto d’autore, fino alla Convenzione di Berna del 1971, al Digital Millennium Copyright Act, al Decreto Urbani et cetera – ed entra in vigore nel 1710. E’ la prima definizione legale del copyright come si è continuato a intenderlo fino a oggi, o meglio, fino a stamattina, perché dopo mezzogiorno qualcuno ha cominciato ad avere dei dubbi.
I dubbi derivano dal fatto che oggi la “copia” è possibile a molte più persone, forse a quasi tutti.
Buona parte di noi ha in casa gli eredi domestici delle tecnologie di cui gli stationers avevano il monopolio. Per fare la copia di un’opera non è più necessario passare attraverso un ordine professionale. Gli eredi degli stationers vengono scalzati dalla rivoluzione microelettronica iniziata negli anni Settanta, dall’avvento del digitale, dalla “democratizzazione” dell’accesso al computing. Prima la fotocopiatrice e l’audiocassetta, poi il videoregistratore e il campionatore, poi il masterizzatore cd e il peer-to-peer, infine le memorie portatili tipo i-Pod… Come si può pensare che sia ancora valida la giustificazione ideologica del copyright, quella che diede forma allo Statute of Anne?
E’ chiaro che va tutto rivisto, questo processo cambia faccia, cervello e cuore dell’intera industria culturale! Occorrono nuove definizioni dei diritti di chi crea, di chi produce, di chi mette a disposizione.
Se una “opera dell’ingegno” può giungere al pubblico senza la mediazione di un editore, di un discografico, di produttori televisivi o cinematografici, sono questi ultimi a dover interrogarsi su come proseguire, a dover inventarsi qualcosa, a dover ridefinire il proprio ruolo imprenditoriale e la propria ragione sociale. Cercare di mantenere con la minaccia della galera un monopolio che non ha più basi significa imbucarsi in un vicolo cieco, è un comportamento da Ancien Régime, da autocrazia zarista. Per fortuna qualcuno comincia a rendersene conto.

3. Google Print e affini: rete, gratuità e battaglie di retroguardia

omniacommunia.gifNelle biblioteche si accede al libro gratuitamente, nelle librerie lo si acquista, ma non c’è scontro tra le due opzioni: i paesi dove si vendono più libri sono anche quelli in cui più si frequentano le biblioteche. E’ normale: più il libro circola, più lo si legge, più ritorno positivo c’è per l’editoria.
La parola-chiave è proprio “biblioteche”. si parla di una lunga tradizione di gratuità dell’accesso, soltanto di recente messa in discussione (e la battaglia è ancora in corso). Che si parli di biblioteche di mattoni o biblioteche di elettroni, sempre biblioteche sono. Se invece il download è a pagamento, allora si tratta di librerie, su per giù come quelle che siamo abituati a conoscere, non è difficile immaginare la modalità di prelievo del diritto d’autore, è una cosa piuttosto semplice. Detto questo: Seth Godin, uno dei più grandi filosofi del marketing, dice che se un e-book a pagamento viene comprato da tot persone, lo stesso e-book, reso gratuito, verrà scaricato da tot moltiplicato per quaranta.
L’informazione utile si ottiene invertendo il dato: su quaranta persone che scaricano un e-book gratis, ce n’è una disposta a comprarlo. La somma di quegli “uno su quaranta” corrisponde allo “zoccolo duro” dei lettori, quelli che comprano per primi, che fanno partire il passaparola. Sono i connettori, gli “evangelisti”, i buzzers. Ogni mossa va fatta avendo in testa questo insieme di persone. Godin, poi, fa così: le nuove uscite (elettroniche e cartacee) sono a pagamento. Poco prima di una nuova pubblicazione, mette scaricabile gratis quella precedente. E’ una strategia di lancio formidabile.
Il download libero e gratuito di un testo e la sua “navigabilità” in stile Google Print hanno una finalità comune e ambiscono allo stesso risultato: entrambi vogliono rendere i prodotti culturali accessibili on line, e questo può favorire la vendita di libri.
Gli editori che si oppongono a Google Print sono come quegli studios cinematografici che, venticinque anni fa, denunciarono i produttori di videoregistratori e videocassette, dicendo che la registrazione domestica violava il copyright. Il famoso caso “Universal contro Betamax”.
La Universal arrivò fino alla Corte Suprema e perse… per fortuna sua. Negli anni a seguire, l’industria cinematografica ha realizzato la maggior parte dei suoi profitti non nelle sale ma grazie all’home video. E’ sopravvissuta alla crisi delle sale grazie al VHS e poi al DVD. Se Universal e compagnia avessero vinto, a quest’ora sarebbero morti e sepolti. Ma hanno perso, e quindi si sono salvati.
Si potrebbe citare anche l’assurda battaglia dei discografici contro l’introduzione sul mercato delle musicassette, negli anni ’70, preludio alla guerra senza quartiere contro il download, quando (iTunes lo ha dimostrato) bastava fornire agli utenti un canale di accesso legale a questa risorsa.
Anche questa degli editori è una battaglia suicida contro un’innovazione potenzialmente vantaggiosa. Per il loro bene, gli editori devono perdere. Vincendo, si assesterebbero una formidabile martellata nei cosiddetti.

*stralci di corrispondenza privata e risposte a interviste inedite in italiano.

www.wumingfoundation.com