L’ISTRUZIONE NEL TERZO MILLENNIO, OVVERO COME HO IMPARATO A NON PREOCCUPARMI E A MARINARE LA SCUOLA

di Claudio Asciuti

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Introbo ad inferos

Lo smantellamento della scuola pubblica, iniziato in era berlingueriana e accelerato dalla Controriforma Moratti, avanza di giorno in giorno fra lamenti, contumelie e improperi; becchini dell’istruzione pubblica e corifei di quella privata, operatori d’ogni tipo e credo, fede e partito assistono al naufragio: alcuni accelerandolo, altri simulando di fermarlo.
Le Controriforme nascono d’altronde non dalla necessità del rinnovamento, ma da quella della reazione: in questo caso con l’aggravio di uno dei fenomeni tipici della società odierna, ovvero la contraddittorietà continua, perniciosa; basti dare un’occhiata ai fenomeni didattici più eclatanti per accorgersi che suddetti altro non sono se non spaccati o emanazioni di quella congiunzione schizoide che é la vita reale.

Il cambiamento da esame di maturità in esame di stato, l’ autonomia scolastica, la riforma dei cicli, il riformismo e-o revisionismo per ciò che si riferisce ai contenuti “paramarxisti” o “evoluzionisti”, la distribuzione di buoni-scuola a livello regionale, la parificazione di fatto fra istituti pubblici e privati, non sono solo contraddizioni fra theoresis e praxis, ma contraddizioni insite nella stessa concezione educativa. Non tanto perché i modelli neo-liberisti della gestione scolastica, che destra e sinistra adeguatamente auspicano (e che considerano l’istruzione una merce fra le tante, e nemmeno la più pregiata, e la scuola un’azienda da cui trarre non il massimo profitto, ma il massimo risparmio), siano peggio dei modelli precedenti (e lo sono) ma perché comunque suddetti modelli vivono la contraddizione di esser partiti da una scuola di classe (quella della riforma Gentile) per ritornare al punto di partenza, con alcune modifiche dettate non già dall’assunto pedagogico, ma da quello politico. Inteso nel senso aristotelico, però: di gestione della cosa pubblica, nella forma progressista e in quella conservatrice. Cosa che pubblica non è più, a cominciare dalla modificazione da “Ministero della Pubblica Istruzione”, in “Ministero dell’Istruzione”.
In altri termini, la scuola è la forma schizotimica che la società, nella sua matrice schizogenetica, produce: un sistema in cui ogni messaggio è contraddittorio al precedente e al susseguente, e spesso anche a sé stesso, indipendente dalla levatura (solitamente modesta) dei riformatori, dal loro credo politico, dal loro (minimo) carisma. Utilizzando le categorie di David Cooper, se la schizofrenia è un sistema di crisi microsociale in cui le azioni di qualcuno sono invalidate da altri, fino a quando questo qualcuno viene diagnosticato prima malato di mente, poi in modo arbitrario, schizofrenico, la scuola subisce un processo simile: la sua diagnosi è la sua malattia, la società che ha generato la sua frattura è la stessa che diagnostica il suo malessere e che cerca di ripararlo, senza comprendere che prima dovrebbe curare sé stessa.
Ma per fortuna c’è la fantascienza. Panacea di ogni nostro male, e oggetto del desiderio delle nostre “macchine desideranti”, la fantascienza non può mancare all’appuntamento; preveggendo futuri paradossali nei confronti dell’istituzione scolastica, che noi puntualmente analizzeremo a pari delle odierne nefandezze. Un esame, anche minimo, delle pagine che la fantascienza ha dedicato ai problemi della pedagogia meriterebbe un ponderoso volume: per cui ci limitiamo a giocare con alcuni casi, e con il loro corrispettivo (non fantascientifico).
Così, ai fautori della scuola delle “tre I” di berlusconiana osservanza, ai revisionisti clerico-fascisti e ai loro avversari marxisti-leninisti, ai creazionisti antidarwiniani, ai postulanti della privatizzazione, all’inventore del “numero verde” per denunciare gli infiltrati comunisti fra i banchi, ai fondatori della scuola padana e ai teorici di quelle mussulmane, a quelli che sostengono l’inutilità della cultura classica o a scelta della cultura moderna, questo viaggio nelle scuole di oggi e domani é dedicato. Con la speranza che il Caos presto ci liberi della loro ingombrante presenza.

La scuola come parabola politica del reale, ovvero la scarsa importanza della cultura

Jerry Pournelle e Charles Sheffield non sembrano esattamente, dal punto di vista politico, i compagni con cui andremmo in giro a rifondare la cultura. La loro non altissima fama di scrittori nulla ha a che vedere con la loro visione conservatrice, se non reazionaria, della vita, ma comunque ci spiega parecchie cose. Istruzione superiore (Higher Education, 1994) è un romanzo breve che mette a confronto due sistemi educativi: il primo, pubblico, demotivato e inefficiente; il secondo, privato e corporativo e molto efficiente sotto il profilo professionale. Un disegno che attraversa molta produzione letteraria e cinematografica yankee, e che va riletto nell’ottica specifica di un sistema, quello USA, in cui la realtà delle scuole pubbliche è sempre di serie B, mentre le private sono quelle che funzionano. Esattamente l’opposto di noi, insomma. Gli alunni con cui ho avuto il piacere di lavorare, e che venivano dagli States grazie ai meccanismi di scambio internazionale, erano sconcertati dal fatto che una scuola pubblica fosse così produttiva; “ma voi studiate sul serio”, era la loro espressione tipica. (Non rallegriamoci troppo; non sarà ancora così per molto).
Negli USA la faccenda è diversa. Pournelle e Sheffield tracciano semplicemente la proiezione futura dell’attuale situazione in cui versa la scuola americana: stipendi bassi, nessuna prospettiva di carriera, routine, massima burocrazia, sistemi di sorveglianza orwelliana. Un’immagine a cui sopratutto una certa filmografia yankee ci ha abituato. Gli studenti vanno a scuola per occupare il tempo e ottenere le sovvenzioni statali; non studiano, non imparano nulla, anzi, abituati all’aiuto di un “lettore” meccanico che legge i testi al loro posto, soli non sanno leggere se non a fatica. Inoltre la scuola é improntata ad una visione del “politicamente corretto” che ha rinunciato ad ogni limite di decenza.
Da questa scuola futura, il giovane Rick Luban, di sedici anni, viene espulso per aver architettato uno scherzo ad un nuovo insegnante, che si é ritorto invece contro una deputata in visita. Uno dei suoi insegnanti lo indirizza versa la Vanguard Mining, una compagnia mineraria spaziale che praticamente “compra” la sua tutela e lo manda in un periodo di addestramento sull’asteroide MC-2. La Vanguard Mining, con l’istruzione professionale, l’esperienza sul campo, l’abitudine al coraggio e alla decisione trasforma il giovane nullafacente in un futuro e produttivo minatore spaziale. Scopriremo alla fine che la Vanguard oltreché ad essere una compagnia mineraria, é l’avanguardia di una lotta contro la scuola pubblica e le sue disfunzioni. Agghiacciante, davvero.
Il tono del racconto che se ci riporta, da un lato, a tutto un filone efficientista della pedagogia statunitense, dall’altro mantiene un antipatico sapore reazionario con questo mito della “nuova frontiera”; basti leggere l’introduzione che i due autori hanno posto in esergo al racconto per comprendere quale sia la loro posizione in proposito:

Negli ultimi vent’anni gli Stati Uniti hanno mosso una guerra implacabile a qualsiasi simbolo della religione occidentale, quella ebraico-cristiana. Questi simboli sono esclusi dagli edifici pubblici, e nelle scuole é vietato accennare in qualsiasi modo alle origini religiose dei “valori”. Quel che peggio, la maggior parte delle scuole insegna o cerca di insegnare che le varie culture e i vari sistemi di valori sono praticamente equivalenti. Questo fa s che non solo si tollerino, ma addirittura si rispettino pratiche che fino a pochi anni fa erano proibite dalla legge La base morale di tutta la legge viene messa in discussione e spesso definita carente. A quanto pare, siamo destinati a produrre una nazione di filosofi morali che arriveranno razionalmente a scegliersi un comportamento civile… e a produrre simili filosofi in scuole che non sanno neppure insegnare ai bambini a leggere.

Questo sproloquio non esce dalla bocca di un qualche integralista pre-conciliare o di un militante di base della Lega Nord, non é un’esternazione filo-americana da undici settembre, il proclama della guerra santa di Bush e neppure l’ultimo libro di Oriana Fallaci sulla superiorità dell’Occidente. Benché modo e tono starebbero bene in bocca a ognuno di costoro, (e a molti esponenti dell’opposizione, che continuano “a sentirsi americani”), il testo è il prodotto di due scrittori di fantascienza odierni. Il disegno – o il progetto – riguarda la distruzione o l’autodistruzione della scuola pubblica, azienda non produttiva e quindi di peso, che deve esser dismessa (a ciò servono le riforme) e dato in pasto alle privatizzazioni. La scuola del 2042 non funziona, ma se perde la sua dimensione di scuola per diventare istruzione professionale, allora forma lavoratori e quindi uomini, in un’equazione davvero discutibile, ma non troppo lontana dai vaneggiamenti di alcuni politici nostrani che non conoscono la pedagogia o la psicologia, ma solo i conti in banca; e il fatto che il testo sia stato scritto nel 1994, non sarebbe certo incoraggiante se non sapessimo che, come ha dimostrato Martin Carnoy in La scuola come imperialismo culturale, edito la bellezza di vent’anni prima, il proliferare di scuole professionali negli States è da annoverarsi non al desiderio di migliorare la situazione dei futuri cittadini, quanto di preparare, in terre americane e in terre neocoloniali, un esercito di lavoratori un gradino qualificati al di sopra delle maestranze da schiavitù pura e semplice; ragion per cui, esaurito il colonialismo e il neocolonialismo, sfruttate fino al midollo le risorse terrestri, distrutti e poi abbandonati gli ecosistemi del Terzo Mondo, è logico pensare che la scuola professionale volga alla colonizzazione extramondo.
Qualcuno dirà che in Italia non è così. Può darsi. La riforma Gentile, che spaccava gerarchicamente la scuola, venne accompagnata dalla riforma Bottai che da un lato ne modifcò alcuni punti, dall’altro aumentò il dislivello di classe. Un settore per i quadri (i licei, con possibilità di accesso all’università), uno per il basso ceto impiegatizio e le scuole (i tecnici e le magistrali), e uno per la plebaglia, la scuola professionale (allora “avviamento professionale”), il vero serbatoio degli esclusi: punti della riforma data per morta e spacciata con l’accesso libero alle università e la seguente liberalizzazione dei piani di studio, che torna ora, grazie ai buoni uffici dei governanti, in un disegno che trasportando le competenze delle scuole professionali alla regione, oltreché ad abbassare ulteriormente il già basso livello di preparazione permetterebbe la dequalificazione dei tecnici, e la ripresa dei licei.

La scuola come spettacolo. Il buon insegnante fa diventare piacevole anche la lezione di matematica

E’ dell’11 settembre 2004 un’esternazione di Umberto Galimberti, apparsa su Repubblica. A proposito dell’importanza di cominciare a insegnare filosofia dalle elementari, idea magnifica di per sé, assolutamente improponibile nella realtà. Ma Galimberti, mediocre prefatore dell’altrui pensiero, presenzialista a tutto tondo e uomo per tutte le stagioni che da ogni libro o rivista non manca di provocare, forse per dare uno spazio ad uno status di maestro di pensiero che nessuno gli riconosce, non è nuovo a queste sparate. Diciamo che dopo aver lavorato (per poco tempo) in prima linea, cioè nelle scuole, il Galimberti, indignato dalla “regressione” che stava subendo a contatto con i turbolenti ma infantili allievi, decise di passare all’Università. Da allora non cessa di inveire contro la scuola e gli insegnanti. Lo rammento, felice come un topo nel formaggio, al convegno della Federazione Italiana Psicologi, con tutto il suo codazzo di studenti, tirapiedi e ammiratori adoranti: ben lontano, appunto, dalla prima linea in cui i bersagli dei suoi strali vivono quotidianamente situazioni di degrado, di violenza e di inanità. Lo rammento ancora impegnato in altra succosa esternazione, comparsa sulle pagine de L’Espresso del 16 ottobre 2003, a seguito dell’ inchiesta IARD pubblicata nel numero precedente, sul problema del burn-out. Il bispensiero (nel senso orwelliano) di Galimberti raccoglieva allora una serie di banalità e di in-volontarie facezie (Un ragazzino viene lasciato dalla morosa, patisce blocco emotivo e pensiero fisso, disisistima di sé e cosa vuole che faccia, che apra il libro di fisica?) in un crescendo che non si sapeva se definire più grottesco o surreale, il cui fine ultimo era la proposta di un “test sulla personalità” al docente. L’idea di fondo era che capacità comunicative e di comprensione e carisma fossero i punti nodali del lavoro scolastico (la preparazione, invece, certo, conta anche quella. Ma per come la valutano adesso, voto di tesi ed esame di abilitazione, tanto vale lasciar perdere) e che gli eventuali docenti scarsamente provvisti di suddette qualità, previo giudizio di altri colleghi (riconosciuti bravi), dovessero esser licenziati. Il fascismo, come tutti sappiamo, rese obbligatorio il giuramento degli insegnanti e i pochi che si rifiutarono persero il posto; il non meno morigerato Galimberti si limita a rendere obbligatoria la capacità di “bucare il video”, e di licenziare i meno telegenici, tanto la cultura non importa. Qualcosa di meno del fascismo, ma più vicino alle prove di telegenia a cui i candidati per Forza Italia si sottomettono di buon grado e che determinano la loro assunzione.
In una nazione più civile della nostra una salva di risate avrebbe accolto queste tesi, ma noi non lo siamo e le parole del “filosofo” pare abbiano sempre riscontri. D’altra parte siamo la nazione dove la politica non è più l’arte di occuparsi della polis, ma piuttosto quella di sostituire alla cura l’abbandono, e di sostituire alle ideologie l’immagine. Se dal presidente del consiglio in giù si avanza a colpi di mass media, è ovvio che i maestri di pensiero non si facciano intenerire e che anzi debbano, da bravi buoi, mettersi di fronte al carro, più realisti del re; e che naturalmente qualcuno si accodi, con l’ennesima inchiesta sulla scuola, da cui si evinceva che gli studenti desiderano maggiormente dai loro insegnanti non la cultura, ma il carisma televisivo. Comunicazione, ascolto, leaderismo, e così via, l’allineamento alle parole di Galimberti avrebbe fatto pensare ad un corto circuito mediatico, ad un’azione concertata, se non avessimo saputo che la direzione che la nostra società prende è quella del vuoto di idee, a cui l’immagine si sostituisce.
Ma a dispetto del suo desiderio di stupire, Galimberti non ha inventato nulla. Ci aveva già pensato Llyod Biggle jr., autore misconosciuto quanto brillante, in La professoressa marziana (And madly teach, 1966) un racconto profeticamente attuale.
In una società che è essenzialmente spettacolo – significante ma senza significato, immagine senza contenuto, fenomeno senza cosa-in-sè, forma senza essenza – anche la scuola diventa spettacolo: è la Scuola Nuova, l’ insegnamento via etere. Compiti e interrogazioni e ogni tipo di valutazione sono stati eliminati, ma viene fatta una valutazione, il Trendex, che registra in pratica l’audience di ogni corso. Mildred Boltz, insegnante di inglese per venticinque anni su Marte, per motivi di salute si trasferisce sulla Terra e si trova dinnanzi anziché una classe uno studio televisivo, cinque ore di lavoro settimanali e quaranta di preparazione all’insegnamento via tivu. Naturalmente, il suo Trendex è scarsissimo; e così assiste alle registrazione delle lezioni dei suoi colleghi. In questo senso, il punto culminante del racconto dato dalla descrizione della signorina McMillan, l’insegnante di inglese:

La signorina McMillan era una bionda attraente, che vista di profilo mostrava una serie di curve sensazionali. La bionda sorrise, scrollò la testa, e fece il gesto di ritirarsi. – Bé, visto che siamo tra amici.. – disse poi. La camicetta sparì, subito seguita dalla gonna, e l’insegnante rimase davanti allo schermo in un provocante due pezzi. La telecamera sottolineò l’oro e il rosso della sua figura mentre la signorina McMillan veniva avanti con un passo di danza. Mentre passava, sempre con passo danzante, accanto alla cattedra, premette il tasto che inquadrava la lavagna. – Ora, carissimi, tempo di metterci al lavoro – disse. – Eccovi la prima frase. – Lesse a voce alta mentre scriveva alla lavagna: – L’uomo… percorreva… la strada… Percorreva, indica l’azione dell’uomo, la strada il complemento oggetto. Che definizione buffa, vero? Mi seguite?

Il Trendex rileva la (televisiva) frequentazione dei corsi, e alla signorina McMillan non resta che portare avanti un mezzo spogliarello per ogni lezione (ma, come fa notare uno dei tecnici tv, appena gli allievi capiranno che non vuole lasciar cadere il reggiseno, sarà il suo Trendex a cadere); ma anche gli altri insegnanti non sono da meno: uno mima la commedia che deve spiegare e tiene in equilibrio il gesso sul naso, l’altra schizza caricature, il terzo s’impegna in giochi di prestigio. Alla signorina Bolz, che fa lezione “tradizionalmente” e parla di Shakespeare, non resta che riunire i suoi pochissimi allievi in una classe e cominciare una crociata contro la Scuola Nuova. A molti di noi la signorina Bolz ricorderà il benemerito maestro Alberto Manzi, che alfabetizzò dagli schermi della televisione pubblica, con la trasmissione Non è mai troppo tardi, un gran numero di persone che per buoni motivi e seri (lavoro, guerra, etc., nulla che fare con la poca voglia di studiare che il paternalismo odierno chiama “dispersione scolastica”) non erano andati a scuola, ma a Galimberti ai galimbertiani forse più che la signorina Bolz e il maestro Manzi interessa la scuola come spettacolo.
Perché ognuno di noi conosce chi gli ha narrato di come un leggendario insegnante delle superiori, solitamente più furbo degli altri, abbia reso piacevole e interessante la partita doppia e semplice, i carmi di Orazio e la consecutio temporum, le disequazioni di primo o secondo grado, l’aoristo attivo e passivo, i galli di Manzoni e la guerra dei cent’anni o la dialettica hegeliana. In realtà, la memoria riaggiusta, rimaneggia e inganna e per ogni infelice adolescente che uno di noi è stato, c’è un adulto che racconta una storia non vera che la sua memoria ricostruisce. Certo, un tempo la scuola era più dura che ora, ma comunque un ente educativo; mentre ora si appresta a divenire un mondo totalmente sganciato dalla realtà, dove la trasmissione del sapere legata al gradimento da parte dell’allievo (che oramai comanda) e dei suoi genitori (che imperversano) nei confronti di un insegnante che deve cercare di accattivarsi le simpatie degli allievi, é ciò che i galimbertiani vogliono. Le balzane idee sulla necessità di concordare i voti con gli interrogandi, i panegirici sulla “comprensione” dei “problemi degli alunni”, gli inutili blateramenti sulla “trasparenza”, l’eliminazione dei “sette” in condotta, il concetto di “contenimento” e non della “punizione” del bullismo, il complesso meccanismo che rende di fatto impossibile la sospensione, l’orientamento pubblicitario alle medie e così via, non sono altro che mezzi per aumentare l’equivalente nostrano del Trendex, e le fantasie mediatiche di Galimberti sulle commissioni giudicatrici, ma anche il banco di prova per prepararsi al momento della massiccia e totale privatizzazione delle scuole in cui sarà il mercato a finanziare l’istruzione, cosicchè la già alta percentuale dei promossi diverrà plebiscitaria. Allora tutte le materie, con altrettante signorine McMillan, diventeranno piacevoli (dal momento che non si farà più un accidente a scuola) ma tutti noi avremo imparato a tenere in equilibrio il gessetto sul naso. In attesa, cominciamo pure ad addestrarci… i galimbertiani di turno lascino perdere, lo sanno già fare.

(Continua)