dello Pseudo-Eugenio Scalfari

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Sabato 28 agosto è apparso su Indymedia il pezzo che proponiamo, attribuito a Eugenio Scalfari e accompagnato da un’avvertenza: si tratterebbe di un editoriale di Scalfari “congelato” da La Repubblica.
Purtroppo si tratta quasi certamente di un apocrifo, però confezionato con molta intelligenza. L’autore aderisce ai punti di vista “riformisti” dei lettori de La Repubblica ed espone loro, in quella chiave, gli argomenti a favore di Cesare Battisti, esposti con grande rigore logico.
Del resto non sono pochi i giornalisti de
La Repubblica (come di altri grandi quotidiani) favorevoli a Battisti, anche se la linea adottata dalla direzione, specialmente su impulso di Mario Pirani, li costringe al silenzio. Non è impossibile che l’apocrifo provenga dalle loro fila.

Prima ancora di discutere sulle condanne comminate a Battisti, c’è da riflettere sulla veemenza con cui personaggi autorevoli del governo, ma non solo del governo, si sono esibiti in esternazioni che paiono a dir poco fuori misura. Quando, in giudizio di primo grado, è stata concessa l’estradizione di Battisti, le principali autorità politiche italiane (nell’ordine: presidente del Consiglio, Ministro degli Interni e Ministro della Giustizia) hanno rilasciato dichiarazioni di soddisfazione, se non di giubilo.


Come se ciò non avesse già rivelato una sproporzione surreale rispetto alle dimensioni del problema, il ministro Castelli decide di tornarci sopra. In una lettera pubblicata da numerosi quotidiani italiani, Castelli se la prende con il direttore di Le Monde, Colombani, affermando che si tratta di uno di quelli che difende Battisti.
Un’ossessione. A maggior ragione se pensiamo che il motivo della polemica tra Castelli e l’intellettuale francese era tutt’altro e riguardava i modi poco urbani tenuti da alcuni rappresentanti delle forze dell’ordine italiane nei confronti del figlio minorenne del giornalista, in vacanza in Italia e reo, a quel che pare, di avere la pelle scura. Tra l’altro Castelli sentenziava a vanvera, visto che proprio Colombani aveva imposto al giornale francese un atteggiamento meno garantista nei confronti di Battisti.
Ma il massacro mediatico era stato talmente ben orchestrato, che ben pochi hanno osato pensare che quando la magistratura francese ha esaminato per la prima volta le carte del caso Battisti, aveva ottime ragioni per dubitare dell’operato dei colleghi italiani. Battisti era oramai, nell’opinione di tutti, un carnefice che si godeva un’ingiusta libertà.
Del resto, se Berlusconi minaccia Follini di scatenargli contro le sue testate al primo diverbio, che destino può toccare a uno scrittore di gialli, improvvisamente finito sotto i riflettori del più becero e diffamatorio sistema di informazione del mondo ?

Le galline forcaiole che berciavano circa la necessità dell’estradizione di Battisti avevano una risposta unica e definitiva. Battisti era stato condannato. Ergo, doveva pagare. Punto. Questa litania è stata ritmata in modo ossessivo e continuo per tutto il corso di questa squallida vicenda.
I giornali italiani hanno assunto, senza eccezioni di rilievo, la linea dei magistrati inquirenti del processo Battisti. Non si vuole dubitare della buona fede di queste persone, ma occorre rilevare che nel processo costoro costituivano solo una delle “parti”. Ugualmente, i giornali italiani non hanno mai pubblicato gli interventi della difesa di Battisti. Semplice, si dirà, Battisti, contumace, non ha goduto di alcuna difesa. Ma guarda. Non è curioso ? Sul delitto Cogne si può discutere tutta la vita, possiamo essere schierati con l’avvocatoTaormina o con la magistratura di Aosta. Sui delitti imputati a Battisti esiste una sola verità, quella della pubblica accusa, e non va discussa.
Si pensi pure quel che si vuole, ma si prenda atto che queste sono le dimensioni del problema.

Chi ha tentato onestamente di dirimere la matassa dei procedimenti giudiziari a carico di Cesare Battisti si è subito trovato di fronte materiali che portavano a conclusioni assai meno ovvie di quelle sbandierate dai giornali italiani. Intanto il processo in contumacia. Il diritto europeo, con l’eccezione dell’Italia, prevede che la condanna in stato di contumacia sia revocabile. La ragione è del tutto chiara: l’imputato assente non può far valere il suo diritto alla difesa (a meno di non voler prendere sul serio il ruolo di difensori d’ufficio et similia). In questo senso le condanne in contumacia sono sospette per definizione. Diventano del tutto inattendibili quando vige una legislazione contorta come quella italiana in materia di terrorismo, dove le parole di un pentito sono sufficienti perché una persona finisca in prigione a vita.
Quando due aberrazioni giuridiche quali il processo in contumacia e lo smisurato credito riconosciuto dalla legge italiana ai pentiti si sommano l’una all’altra come nel caso Battisti, c’è ampio margine per sospetti assai più “legittimi” di quelli che hanno fatto gridare allo scandalo l’altro Cesare (Previti).
A questo si deve aggiungere, per completare il quadro, che Battisti, ignaro del processo, non ha neanche fatto ricorso in appello.
Quanto emerge da queste brevi osservazioni ovviamente non esclude che Cesare Battisti abbia delle responsabilità. Ma certamente pone una serie di quesiti intorno all’opportunità di una simile determinazione nel chiederne l’estradizione.
Comunque, chi ha bisogno di farsi un’idea più precisa del contraltare alle grida colpevoliste può ricorrere ai materiali prodotti in rete da Giuseppe Genna, Valerio Evangelisti e il collettivo Wu Ming.
Vale ricordare che Wu Ming (all’epoca Luther Blisset) ha già fatto un lavoro pregevole sul caso Dimitri e i bambini di Satana. Marco Dimitri, un giovane satanista da baraccone ingiustamente accusato di violenze sessuali su un bambino, ha recentemente ricevuto dallo stato italiano un cospicuo assegno di rimborso per gli anni trascorsi a marcire in carcerazione preventiva, vittima di accuse infamanti che si sono dimostrate del tutto campate in aria. Un precedente che, quantomeno, avrebbe dovuto far riflettere (almeno) la stampa di sinistra circa la scelta di Wu Ming di difendere Cesare Battisti.

Ma ammettiamo che Battisti sia colpevole almeno di alcuni dei reati che gli sono stati comminati. Qualcuno potrebbe allora chiedersi perché gran parte dell’opinione pubblica francese, diversamente da quella italiana, sia rimasta profondamente indignata per il comportamento dei politici italiani sul caso Battisti. La cosa richiede un breve approfondimento.
La nostra Costituzione, all’articolo 27, afferma che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”.
In Italia, per ottemperare al dettato costituzionale, si sono istituite una serie di complesse normative penali che mirano al reinserimento e alla reintegrazione del condannato. Le procedure sono molto varie. Ma per essere sintetici, basti qui rilevare che, se il condannato si comporta bene, il giudice può fare ricorso a dispositivi quali l’affidamento in prova, la semilibertà, etc. La filosofia di questi provvedimenti è chiara: in una concezione del diritto moderna il reo non ha bisogno del carcere come luogo afflittivo, ma di un processo di trasformazione della personalità, di un recupero di valori e motivazioni, e di un progressivo processo di reinserimento sociale.
Il giudice Caselli ha recentemente sostenuto che lo scopo principale del carcere è diventato essenzialmente quello di “neutralizzare” persone socialmente pericolose.
Lo Stato, secondo questa concezione, non è un’entità vendicativa e il diritto non si fonda sulla legge del taglione. Piuttosto, lo Stato vuole assicurarsi che il reo non commetta altri delitti. Per impedire che ciò avvenga, quando è necessario, ricorre al carcere. Ora, se questa è realmente la filosofia dominante nel diritto penale,
ammesso e non concesso che Battisti fosse colpevole, resta da chiedersi ugualmente se egli non abbia fornito, in questi anni, prove sufficienti di un pieno ravvedimento. E qui la risposta è del tutto affermativa. Battisti in Francia si è costruito una vita dignitosa, lavora, scrive, è padre di due splendide bambine.
Esiste, ovviamente, una concezione del diritto penale meno progressista, ma perfettamente legittima, che ritiene che la pena abbia anche una funzione di risarcimento morale del danno inflitto dal reo alla collettività. Si tratta della cosiddetta concezione retributiva della pena. Le due filosofie attualmente convivono nel diritto penale, spesso con modalità diverse: in determinati casi sono del tutto alternative, altre volte vengono integrate, sulla base della gravità dei reati commessi, del comportamento tenuto dal detenuto e del parere dei magistrati.
Ma anche qualora si voglia abbracciare la filosofia del diritto più vendicativa, se risulta comprensibile un’azione ordinaria dello Stato rivolta al raggiungimento dei propri obiettivi di giustizia, risulta assai meno comprensibile il coinvolgimento politico del governo.
Detto in altri termini, è legittimo tentare di ottenere, in nome di questa concezione retributiva della pena, l’estradizione di un condannato. Non va bene invece insistere, andare a ficcare il naso nelle scelte di un altro Stato, accanirsi per modificarne le leggi o per aggirarle al fine di ottenerla, intavolare trattative private con i ministri di quello Stato per estorcerla.

Un accanimento, si badi, che non si è fermato davanti al rischio di creare un problema enorme alla Francia. Prima di tutto un problema di immagine nei confronti dei suoi stessi cittadini. Lo stato francese si era assunto un impegno nei confronti dei rifugiati italiani. Aveva dichiarato di accoglierli a una precisa condizione: che rinunciassero alla lotta armata. Era un compromesso che tendeva una mano all’Italia, cercando di trovare una soluzione alla spirale di sangue che aveva avvolto il nostro paese. La filosofia utilitarista di Mitterand, si collocava, sotto il profilo del diritto, nell’alveo di una concezione della pena conforme al pensiero moderno: abolire il crimine, neutralizzare le persone socialmente pericolose.

In questa prospettiva, si trattava anche di un impegno pubblicamente assunto da un intero paese nei confronti degli ex terroristi italiani. E non si fa riferimento soltanto a questioni formali. Chi ha trovato lavoro a Battisti in Francia, chi l’ha aiutato a scrivere o gli ha prestato i libri o la macchina, non lo faceva, come piace dire alla destra italiana, con spirito carbonaro, praticando una sorta di favoreggiamento. Pensava invece di contribuire, con uno sforzo personale, a un processo di rinnovamento sociale, nella direzione di una risoluzione duratura dei conflitti che hanno insanguinato l’Italia. Questo, spiega, a mio modo di vedere, l’indignazione dei francesi che la stampa italiana finge di non comprendere. Ma come? Se lo scopo di una pena è il recupero di un cittadino che ha commesso degli errori, allora Cesare Battisti era la prova vivente della saggezza della dottrina del presidente Mitterand. L’Italia, senza alcun pudore, decide improvvisamente di costringere i cittadini francesi – prima ancora che le istituzioni politiche francesi – a gettare a mare anni di quello che molti di loro hanno considerato un paziente lavoro di integrazione sociale. Il loro risentimento, a meno di essere accecati dal pregiudizio, è del tutto logico: “Abbiamo accolto un uomo braccato, a vostro dire un assassino, e ne abbiamo fatto un degno cittadino. Scusate se è poco. Ora venite a dirci, dopo vent’anni, che dovete sbatterlo di nuovo in galera. Come se nel frattempo nulla fosse accaduto. E avete perfino la faccia tosta di scandalizzarvi se protestiamo”.
Qui c’è spazio per tutta una serie di considerazioni di politica internazionale, su cui sarebbe bene sorvolare, ma che suggeriscono che uno degli obiettivi della richiesta di estradizione di Battisti, non il principale, era quello di complicare i rapporti dell’Italia con la Francia. Democrazia rea, evidentemente, di essersi saggiamente chiamata fuori dalla scannatoio iraqeno. Si veda a tale riguardo questo grossolano articolo antifrancese uscito su Panorama. http://www.panorama.it/italia/capire_politica/articolo/ix1-A020001026312

D’altra parte se un presunto criminale diventa un uomo onesto e rispettato non appena trova un approdo in un paese sufficientemente democratico, vuol dire che l’italia è gestita “politicamente” in modo fallimentare.

S’è discusso spesso della crisi di senso che ha attraversato le destre mondiali dopo il crollo del comunismo. Mancando avversari reali, tangibili, molti degli scherani del potere hanno scoperto di essere stati paladini di una libertà di cui non sapevano nulla. Improvvisamente hanno visto le loro vite intrappolate in uno sterile gioco oppositivo. Finché il nemico c’era, e si trattava di inseguire il nemico, di non dargli respiro, tutto era chiaro. Quando il nemico si è estinto, la stessa vita di molti di loro ha perso significato. Alcuni, i più saggi, hanno pensato di tirare i remi in barca, di andare in pensione. Ma altri, i più vili, gente che è rimasta dietro le quinte a guardarsi lo spettacolo, hanno deciso che era il momento di uscire fuori, di prendersi tutta la torta. Come avviene spesso, mentre i combattenti vincitori si ritiravano perplessi, gli avvoltoi iniziavano a danzare sui cadaveri.
Una volta capito questo, c’è da chiedersi seriamente se, come afferma Castelli, sia davvero sulla sinistra europea che occorre aprire un dibattito. Il dibattito che invece andrebbe aperto, e questa triste vicenda ce ne fornisce occasione, riguarda la cultura forcaiola della destra e purtroppo anche di ampi settori della sinistra italiana.
Riguarda il tratto medievale di una classe politica che, incapace di giustificare una crisi storica come quella degli anni Settanta, preferisce ancora raccontare che si è trattato di episodi circoscritti, che non scalfivano in alcun modo la sua credibilità e che andavano imputati a qualche centinaio di criminali fanatici.
Naturalmente chi ha vissuto la storia italiana sa benissimo che le centinaia di criminali fanatici c’erano davvero, ma costituivano soltanto la metastasi cancerosa di un movimento assai più ampio. Un movimento che non era privo di ingenuità, di vuote parole d’ordine e di pessimi teorici ma che in definitiva era espressione politica di un disagio civile autentico che la classe politica italiana non ha voluto comprendere.
Del resto cosa c’era da aspettarsi ? Tra il martello del partito stalinista più grande d’Europa, e l’incudine della cultura criptomafiosa della DC non poteva venir fuori molto più che un’apparato inquisitorio brutale e decerebrato. Al punto che oggi sono in molti a rimpiangere Craxi, se non altro per l’intelligenza con cui ha impedito che il paese si trasformasse definitivamente in uno scannatoio. Oggi è legittimo il sospetto che altri siano intenzionati a farlo tornare tale. Le ragioni sono molte. Ma la principale è quella che questi uomini sono orfani di un nemico.

Guardate Castelli. Le carceri italiane sono da sudamerica ? Colpa del precedente governo. Avvengono proteste violente da parte dei detenuti ? Colpa dei radicali che denunciano la situazione. E così via. Naturalmente Castelli non prende in minima considerazione il fatto che appartiene al governo più stabile che la storia italiana ricordi. Lui il tempo per lavorare l’ha avuto. Avrebbe potuto impiegarlo per scoprire qualcosa sulle stragi dell’italicus, di Ustica, di Bologna. L’ha sciupato per rendere la vita impossibile a Cesare Battisti e per insultare la Francia e i suoi intellettuali. Meno male che il tagliando sta per scadere.