di Nico Maccentelli

Una stagione senza storia.
battistimg.gifUn passato che non passa mai. Che torna, perché non è mai andato via, che riemerge quando fa comodo colpire strumentalmente una delle tante persone che ha vissuto gli anni ’70 e che, per una serie di circostanze, ha avuto un percorso politico che lo ha portato ad anni di carcere o a dover scappare.
Ci siamo abituati. A parte la presa di posizione di qualche personaggio e a titolo puramente individuale, vicende come quella capitata a Cesare Battisti non destano l’attenzione di nessuno degli attori politici che si definiscono garantisti. È come se un buco nero proveniente da un passato sufficientemente lontano da non creare emergenze in merito (oggi sono altre le emergenze…), ma ancora troppo vicino per guardarlo nella sua interezza, continuasse ad ingoiare ogni tentativo di lettura storica e politica che non fosse un campionario di bestialità stereotipate.


Fa comodo mettere una pietra tombale sull’antagonismo sociale degli anni ’70, lasciando a una contabilità penale burocratico-perversa, sbrigare le ultime pratiche verso chi ancora deve saldare il suo conto. Fa comodo che il 24enne di oggi, magari un po’ di sinistra, sulla scorta della canea forcaiola esclami: — Be’, se ha ucciso, che paghi…. — È normale, scontato.
I personaggi di quella stagione non devono avere una storia, perché non ci deve essere una storia di quegli anni, che non sia liturgica condanna. Perché se si dovesse riportare ogni singolo fatto alla totalità d’una storia, allora si dovrebbe parlare anche di ben altro e oggi non fa comodo a nessuno. Men che meno alla cosiddetta “sinistra moderata”. Troppo impegnata a perdere pezzi di società con il suo triciclo.
Nessuna forza politica di sinistra ha voglia di interrogarsi su quegli anni. Anzi, è una corsa a prendere le distanze, a rinunciare a qualsiasi battaglia di civiltà, a qualsiasi presa di posizione sui diritti civili e giuridici calpestati in modo così lampante. È una molla politico-mentale che scatta: di fronte al “terrorismo”: nessuna difesa è giustificabile e ogni atto persecutorio è legittimo. Il 24enne che ignora il passato non verrà certo a chieder conto su una battaglia di giustizia mai iniziata.

Il grande teatro mediatico permanente: come ti costruisco il mostro.
Cesare deve essere stato per forza un capo dei Proletari Armati per il Comunismo. Chissà perché i profughi e i latitanti che catturano, erano tutti capi, tutti avevano chissà quali ruoli. Nel teatro mediatico permanente, i protagonisti devono servire ad una drammatizzazione ad uso e consumo della pubblica opinione. Come quando si assegnano le parti in una recita, è importante ciò che per la finzione va bene. Poco importa se Cesare era stato accusato dai soliti “pentiti”, che avevano tutto l’interesse di sfangarsela con confessioni “utili”. Poco importa se come tutti gli “umani”, Cesare — che uno e trino non è -non poteva essere in due posti contemporaneamente, a commettere due diversi crimini nello stesso tempo (e infatti i giudici francesi avevano contestato gli atti dei loro colleghi italiani). Questo elemento, assolutorio di fatto, perlomeno riguardo uno dei due reati, potrebbe funzionare in un romanzo di Simenon, ma non in questo teatro lucidamente delirante, dove la prova scagionante non conta più, dove il normale iter processuale viene azzerato dei suoi valori funzionali da una sorta di giustizialismo che con leggi speciali, blitz spettacolari, mezzibusti dal sensazionalismo facile o comunque fabbricanti d’una scontatezza indiscutibile, tritura esistenze e produce LA rappresentazione del mondo, quella che tutti dobbiamo avere come idem sentire. Il teatro non è il romanzo: ha bisogno di costruire una storia dei fatti lasciando poco all’immaginazione. Nel teatro mediatico, il fatto ha importanza solo nella misura in cui può essere teatralizzato nel momento in cui torna alla realtà come opera manipolata, di pura finzione.
Non solo. Si nega una dimensione collettiva di quella stagione, con una selezione e ricostruzione di fatti al puro scopo di trasformarli in reati individuali. Ma io, che di quella collettività d’un tempo ho sempre una visione collettiva, che probabilmente tante cose che non le rifarei, non posso però accettare questa individualizzazione delle responsabilità, che è mera riduzione ad uso e consumo dei media di eventi ed esistenze, con processi e azioni giudiziarie biecamente strumentali e decontestualizzate. Che, peggio è rimozione. Ma questo lo analizzerò meglio in seguito.

Tutti abbiamo un retrovirus nella nostra identità.
Il teatro mediatico è luogo e funzione insieme. È un meccanismo perverso da cui non ci si può difendere. È lo stesso meccanismo con cui vengono fabbricati mostri più in grande, a fini politici, i Saddam con le sue inesistenti armi di distruzione di massa. Perché il grande teatro ha bisogno di mostri. È un delirio sapientemente mascherato da ragione, dove non vengono tollerati altri luoghi di produzione di senso.
È la condanna nella condanna: il terrorista resta tale, nei secoli dei secoli, dentro uno stereotipo preso come un retrovirus. L’infettato lo avrà per sempre nel suo organismo identitario, come una bestia che resta in sonno nell’archivio delle agenzie, dei giornali e delle tv, ma sempre pronta ad essere riattivata se e quando serve, al di là di ogni fatto reale compiuto. È un po’ come la piccola bomba a tempo sparata in un braccio a Russel/Plinsky in 1997 fuga da New York.
È triste vedere come anche coloro che si ritengono garantisti al 100%, non avvertano in un’operazione come quella orchestrata contro Cesare un arbitrio che fa parte dell’agire del potere: una giustizia come quella francese, che già si pronunciò in merito a suo tempo, torni a decidere. È triste constatare come non vedano pericolosa questa logica dell’”ostaggio permanente”, questa sospensione ad interim dei diritti. Una logica non episodica, ma ricorrente e costante, che per questo diventa lesione dei principi che stanno alla base dello stato di diritto.
È un’azione che segue le strade burocratiche della giustizia, che spesso si sa crea anche situazioni paradossali e mostruose, m che a va anche oltre, collocandosi su un terreno squisitamente politico.

Il terrorismo della cultura dell’antiterrorismo.
Certo, in vicende come quella vissuta da Cesare c’è un problema di civiltà giuridica e di stato di diritto. Ma c’è anche altro, c’è ben altro. Qualcosa che riguarda la genetica stessa del nostro presunto sistema democratico. La burocrazia perversa è solo il risultato di scelte politiche prese molto tempo fa e mantenute sino ad oggi, come una sorta di automatismo della rimozione.
È precisamente la storia di quella stagione di lotte, che un arco di forze anche cosiddette progressiste intende mantenere sepolta, dopo una sequela di falsificazioni proseguite per oltre un ventennio.
Sbaglia dunque, chi pensa che un’azione di questo tipo contro Cesare sia motivata semplicemente dalle mene di un cazzo di ministro per darsi lustro e iniziare la propaganda elettorale del suo partito. C’è un territorio comune, basato sull’esercizio del terrorismo verso chi tratta il terrorismo in modi diversi da quelli normati. Un luogo che è alla base delle relazioni politiche e sociali tra la gran parte delle forze dell’arco costituzionale.
Così come per Ferrara, Fini e Giovanardi chi critica la guerra degli Usa è amico dei terroristi, chi difende il diritto di un presunto terrorista è terrorista secondo un parere riconosciuto da tutti. L’antiterrorismo culturale, questo è il vero terrorismo di regime: quello che agisce con violenza sulle coscienze. Ecco perché la liturgia repressiva, anche retroattiva, deve auto-celebrarsi perennemente. Il mostro va alimentato per togliere riflessione, ragionamento, storiografia, ad una stagione politica scomoda. Tutte le vacche devono restare nere nella notte. Ecco perché hanno colpito Cesare.

La sinistra storica di ieri e di oggi nella rimozione degli anni ’70 e dell’antagonismo attuale.
Questo territorio delimitato sta bene ovviamente alle forze di governo, ma anche al centro-sinistra, i vari “moderati” diessini e cattoprodiani. Persino i compagnosky alla Cossutta, traggono da una rozza schematizzazione degli anni ’70 una continuità che legittima le scelte passate. L’obnubilamento di questa pagina storico-politica definisce questo territorio, dove i governi si alternano mantenendo lo stesso atteggiamento verso queste vicende. Berlusconi sarà anche un golpista, ma gli altri tutto sommato non intendono fare i conti con nessuno dei veri problemi che attraversano la società italiana. Fanno opposizione solo per riportare l’attacco della destra ultrareazionaria italiana sotto il cappello di un regime dell’alternanza. Questo è il senso del progetto di partito riformista. Le pagine di antagonismo di ieri vanno lasciate all’oblìo e quelle di oggi bypassate. Non riesco a turarmi il naso e a votare chiunque si opponga a Berlusconi, per il semplice fatto che non c’è una vera opposizione al regime che si sta creando, ma una connaturazione di entrambe le parti, una complementarietà malsana verso un autoritarismo che ha fatto della cultura dell’esclusione dell’autonomia sociale, delle parti di società conflittuali da qualsiasi contesto della politica “che decide”, la sua condizione di esistenza. Che ha fatto e dell’attacco a qualsiasi idea di cambiamento reale, a qualsiasi memoria che ne sia portatrice anche parziale, una condizione per ingabbiare nel territorio delle pratiche di gestione del potere del presente, qualsiasi fuga verso il futuro che non sia ingenua utopia.
Non è un discorso che vuole mettere sullo stesso piano le parti. Comprendo i rischi di una affermazione definitiva e totale del berlusconismo, non a caso copia carbone del piano di rinascita “democratica” di Gelli. Ma come persona che ha vissuto le lotte sociali degli anni ’70, trovo molto forte e diretto il nesso tra la rimozione violenta delle ragioni di quel conflitto in chiave pseudoriformistica, la riduzione di una cultura politica libertaria ed egualitaria a pura somma di fatti terroristici, il consociativismo della sinistra storica con la DC di allora da una parte e dall’altra l’occupazione di oggi dello spazio culturale e politico da parte di una sinistra moderata e centrista, proporzionale alla mancanza di una vera lotta per i diritti. La sordità che non è più criminalizzazione ma è brutta lo stesso, perché indifferenza verso i nuovi conflitti sociali. Funzionale alla connivenza con gli aspetti più ignobili della cultura di destra, nei patetici tentativi di attrarre elettorato “moderato”. Forse ci siamo dimenticati chi ha aperto i centri di detenzione per i migranti, chi non ha fatto una legge sulla par condicio quando era al governo, chi sta ancora oggi accettando la logica della guerra, che sia sotto gli USA o l’ONU poco importa. È un nesso forte tra passato e presente.
Sono ancora vivi in me i ricordi di come prima, durante e dopo i fatti di marzo del ’77, il Pci di allora abbia scatenato una campagna indiscriminata contro il movimento: alla faccia delle attuali riabilitazioni culturali postume, avvalorate da vecchi elementi delle jaquerie o degli A/traverso d’un tempo, oggi grilli straparlanti accreditati a livello personale.
Molto poco è cambiato da allora a sinistra.

Perché gli anni ’70 rappresentano una pagina che le forze di regime, da quelle di governo a quelli di “opposizione”, non vogliono riaprire?
A chi era giovane quegli anni e ha attraversato la contestazione di quella che Nanni Balestrini e Primo Moroni hanno definito come “l’orda d’oro”, soprattutto se non si è venduto il culo, risulta assurdo e quanto mai strano il processo di colpevolizzazione ad personam messo in opera contro alcuni dei protagonisti. Oggi quella che passa è una schematizzazione dell’agire collettivo di quei tempi come somma di reati individuali, anche nella loro formulazione associativa. A sinistra sono pochi a percepire questo enorme meccanismo politico-mediatico come un orrore prima ancora che giuridico, etico-morale. Le varie anime candide non capiscono (o non vogliono capire…) che ad ognuno può toccare, a suo modo.
E qui veniamo all’aspetto meno contingente e che rende tutti gli esegeti del teatro mediatico, destra reazionaria e presunta sinistra “moderata”, complici attivi di una grande opera di seppellimento del passato e di legittimazione di un unico luogo per la loro recita da salotto televisivo. Questo meccanismo è accettato come luogo di confronto e scontro, un agire che può avvenire solo dentro questo ring. Ma perché? È una domanda retorica, perché a questi signori non va chiesto nulla: sono solo il retro della stessa medaglia.
Per i sinistri “moderati”, uscire dal ring significherebbe ammettere che un certo movimento a cavallo degli anni ’60 e ’70 è sorto come progetto politico confliggente nei confronti di un regime che usava fascisti e servizi segreti per aggredire l’opposizione, che lasciava studenti uccisi per le strade e faceva esplodere bombe indiscriminate sulla popolazione, nelle banche, nei treni, nelle piazze, nelle stazioni. Dovrebbero parlare del ruolo in tutto questo dei servizi segreti del più grande paese “alleato”, parlare delle logge massoniche e delle consorterie di potere, industriali e finanziarie, che hanno foraggiato le mani assassine: gli stessi personaggi che hanno organizzato il golpe dei generali argentini nel ’76. Dovrebbero parlare di Gladio e delle isterie anticomuniste (le stesse che ha tutt’oggi in modo anacronistico, ma per questo non meno pericoloso, il nostro presidente del consiglio) verso un’opposizione che era parte integrante della società italiana, a cui di fatto era interdetto il governo. Dovrebbero spiegarci il loro perché della rottura storica a sinistra e della nascita della sinistra extra-parlamentare. Del perché una massa di persone, minoritaria finché si vuole, si sia costituita in una soggettività politica eterogenea, non inquadrabile in complotti o pratiche ben definite, ma definibile come soggetto collettivo deciso a dare un’interpretazione diversa del mondo, una risposta ad un regime che non andava tanto per il sottile in quanto a trame cospirative.
Mi ha colpito una frase di Cesare ad un intervistatore francese, che dice grosso modo così: Il vostro ’68 in Francia, il vostro maggio è durato pochi mesi. In Italia è durato molto di più.
E un’altra ancora: sono riusciti a fare fuori il più grande movimento culturale apparso in Europa.
In questo sta il cuore del problema. Perché gli sconfitti non erano un pugno di terroristi sordidi. Perché i beneficiari di questo grande massacro sono quelli che oggi si confrontano e scontrano nel grande teatrino della politica nostrana. Sono quelli che erano nelle liste piduiste di Casal Fibocchi, gente che ha fatto fortuna con la mafia, le stragi, la corruzione, i servizi deviati, gli accrediti delle lobbies che contano oltreoceano.
Ma sono anche quelli che dicevano ai lavoratori di fare sacrifici per il bene dell’economia italiana e della democrazia, che si sono autoidentificati come “parte sana” del paese, ma che questo stesso paese hanno portato alla guerra appena hanno avuto a mano la stanza dei bottoni. L’Ulivo: prima coalizione politica ad aver fatto la guerra… nemmeno la DC aveva osato tanto, oltretutto in una situazione di guerra fredda. Non appena sono caduti i muri, le cortine, hanno capito bene con chi schierarsi e a quali logiche spianare la strada: la guerra nei Balcani è il passaggio fondamentale della politica neo-imperiale USA, basata sul conflitto armato ovunque gli faccia comodo.
Se guardiamo ciò che è avvenuto in Italia e nel mondo dagli anni ’70 in poi, capiamo bene che l’involuzione autoritaria successiva c’entra eccome con la critica sociale di quegli anni. Hanno abbattuto un movimento reale, di persone, per poi costruire un contesto fittizio, che non scalfisce i veri poteri, l’anima del regime attuale.
E questo è l’aspetto politico fondamentale, al di là degli eccessi del movimento, delle strade senza ritorno, dei lutti dati e ricevuti, dei riflussi nell’ero, della devastazione di se stessa che in parte l’orda d’oro ha contribuito a determinare. È questo il vero cuore del problema. Perché se dovessero riaprire questa pagina, dovrebbero ammettere la falsità del loro teatro, dovrebbero accettare una soluzione politica che è, e non può essere diversamente, che collettiva. Perché un corso individuale delle responsabilità, alla luce di questa chiave di lettura degli eventi, di tutti gli eventi degli anni ’70, avrebbe ancora di più il tono squallido dei processi ai singoli partigiani nell’immediato dopoguerra.
Da questa pagina, come in un romanzo, si capisce il resto della trama, il senso della storia. Forse per questo allora, questo accanimento… Cesare è un romanziere.

(La foto che illustra l’articolo ritrae Cesare nel carcere della Santé. E’ stata scattata con un cellulare da uno dei deputati ammessi a visitarlo.)