di Valerio Evangelisti (da L’Indice dei libri del mese, dicembre 2014)

EiaEiaGiampaolo Pansa, Eia Eia Alalà. Controstoria del fascismo, Rizzoli, 2014, pp. 382, € 19,90.

Va detto anzitutto che il romanzo di Giampaolo Pansa Eia eia alalà non è giudicabile da un punto di vista letterario. Sotto questo profilo non esiste. L’autore cerca una sintesi tra saggio e narrativa, ma non vi riesce. Incorre in errori che uno scrittore di vocazione eviterebbe con cura. Per dirne una, la maggior parte delle azioni non sono messe in scena, bensì raccontate al “protagonista” da terze persone. Domina dunque – anzi, spadroneggia – l’infodumping. Con pletoriche digressioni che interrompono il succedersi degli eventi, per spiegarli in anticipo.

I dialoghi sono rari, e normalmente prolissi e didascalici. Servono a fare capire al lettore un determinato “passaggio storico” (diciamo così). A livello emotivo sono zero. Chi parla lo fa per erudire il pupo. Un elzeviro de “Il Giornale” incarnato in spoglie rudimentali.

Questo rende il romanzo – ormai non più tale – dilettantesco. Del resto, la sua struttura lo impone. Pansa riceve da tale avvocatessa Magni un memoriale scritto dal padre Edoardo, proprietario terriero che diventerà finanziatore di squadristi. Questi, a sua volta, nel testo si affida di continuo ai racconti e alle spiegazioni dell’amante Rosa, maestra elementare, e poi di altre amanti ancora. Tale narrazione a cascata raffredda l’assieme e gli sottrae la normale tensione romanzesca.

Pansa, forse conscio del problema, si sofferma insistentemente su tematiche sessuali, per stimolare il lettore a girare la pagina successiva. Addita se stesso come grande amatore (suppongo ex, vista l’età), descrive i bordelli rurali e quelli della Grande guerra. Parla della facile prostituzione delle donne schiave del bracciantato e della miseria. Verso le quali non ha un briciolo di pietà. Gli servono per iniettare nel racconto un quid di scabrosità. Ma è troppo generico per la società attuale, abituata a cinquanta e oltre sfumature. Sono pagine da dimenticare – è facile – come tutte quelle che ambiscono a formare un “romanzo”. Ma chi legge Pansa cerca altro.

Che cosa? La parte, diciamo così, saggistica. Descritta dal sottotitolo: Controstoria del fascismo. Controstoria in che senso? Lo spiega l’avvocatessa Magni fin dalle prime pagine.

“Mi piacerebbe che tu ti dedicassi a un’impresa che io non ho il tempo né la capacità di affrontare. E’ quella di raccontare il percorso di uno dei tanti italiani che hanno creduto in una nazione diversa dal paese in sfacelo nel quale vivevano. Tu mi risponderai che gli uomini come lui hanno costruito una dittatura che ha spinto gli italiani dentro l’abisso della guerra e della deportazione degli ebrei. Ma io potrei replicarti che soltanto la persecuzione degli israeliti è una vergogna che non può essere perdonata.”

Condannate le leggi razziali, tutta la storia anteriore del fascismo è accettabile, sia pure con riserva. Inclusi la dittatura, il colonialismo, lo squadrismo. Una riabilitazione di fatto comune a gran parte della destra italiana, mascherata da “centrodestra” ma nostalgica nell’anima. Lo si può vedere dagli stessi organi di stampa a cui oggi collabora Pansa, fitti di nomi che di antifascismo, o di a-fascismo, non hanno proprio nulla.

Pansa, nel suo non-romanzo, si dedica principalmente, nella prima parte (l’unica di cui mi occuperò, essendo a suo modo originale), a una riabilitazione degli squadristi. Era un complemento quasi obbligato, rispetto alla sua produzione anteriore. Con una massa di pamphlets di successo, di discutibile impianto storico, si era dedicato a dipingere i partigiani come spietati assassini, manovrati da un Partito comunista assetato di sangue e di potere. Incrinava l’assieme lo squadrismo dal 1921 in avanti. Capace di spiegare almeno in parte vendette e rappresaglie di vent’anni dopo (peraltro insignificanti rispetto ad altri paesi europei). Per fare emergere il sadismo partigiano e comunista in tutto il suo orrore bisognava dire che gli squadristi avevano le loro buone ragioni, e provare ad assolverli o ad attenuarne le malefatte.

A questo fine, Pansa evoca l’entità malefica che causò una reazione in fondo sana. Se più tardi divenne il PCI, nel primo dopoguerra fu, a suo avviso, il Partito socialista con la sua appendice: la Confederazione Generale del Lavoro, il “sindacato rosso”. O la Federterra, altrettanto oltranzista.

Sotto la generica denominazione dispregiativa di “rossi” tutto viene confuso, in un amalgama di correnti diverse e contrastanti. Riformisti, massimalisti, frazione comunista, anarchici (liquidati con l’espressione contemporanea di “bombaroli”), anarco-sindacalisti, sindacalisti rivoluzionari. Tutti “rossi” e dunque violenti, esagitati, dittatoriali. Le pezze d’appoggio documentali sono ridotte al minimo, per una presunta “controstoria”. Il frammento di un articolo di un giornale locale del 1901, quando il PSI era lungi dall’essere estremista. Un altro brano del 1919, che dice tutto il contrario di come interpretato da Pansa.

I “rossi” sono veramente terribili. A loro, e ai loro militanti operai chiamati al fronte a combattere una guerra non voluta, può essere ascritta persino la disfatta di Caporetto. “… maledetti imboscati che con il pretesto del socialismo non avevano mai preso in mano un fucile ed erano rimasti al sicuro a casa. I vecchi dei reggimenti di fanteria sostenevano che quando avevano visto il nemico attaccare si erano limitati ad alzare le mani, per dichiararsi prigionieri.”

E’ l’avvio di una serie di contumelie contro gli odiati “rossi”. Pansa spreca tre pagine per sostenere che Bela Kun, il rivoluzionario ungherese, era un imbecille. Poi passa alla questione sociale, incentrata sulla Lomellina. Ammette che le due principali categorie di salariati agricoli, gli obbligati e i braccianti avventizi, se la passavano male. I primi erano rinchiusi la sera nei loro baraccamenti, per paghe da fame, e liberati la mattina. I braccianti, in quantità esuberante, erano sottoposti al caporalato e a lunghi periodi di disoccupazione.

Ma non è questo che, nel 1919-20, li spinge alla rivolta. Sono i “rossi”, ubriacati da un sogno di palingenesi totale. Soprattutto le Leghe di resistenza (per lo più, sia detto per inciso, di ispirazione riformista), così descritte: “Le leghe erano guidate da dirigenti aggressivi e da capoccia locali, i capilega, spesso arroganti e violenti verso i padroni delle tenute e i grandi fittavoli.” Marchionne (o Renzi) non descriverebbero Maurizio Landini in maniera diversa.

Il detonatore dello squadrismo è il grande sciopero agricolo del marzo-aprile 1920, descritto da Cesare Bermani in un saggio esemplare (Tutti o nessuno, Shake edizioni, 1995). Motivi e finalità dell’agitazione a Pansa non interessano affatto. Gli preme mettere in evidenza la barbarie degli scioperanti, guidati da dirigenti sciagurati. I “rossi” mettono assieme anche un loro servizio d’ordine armato di revolver, la Guardia rossa. “Avevano la pistola facile e sparacchiavano senza risparmio”. Peccato che lo sciopero fosse costellato da eccidi (Montù Beccaria, Barengo, Ferrera Erbognone, Zerbolò, Sale e Mirabello) in cui i lavoratori caddero a grappoli sotto i proiettili della Guardia regia. Un dettaglio che Pansa trscura, pur ammettendo che, quando venne l’ora dello squadrismo finanziato dagli agrari, “i socialisti erano disarmati, in tutti i sensi. Quasi nessuno possedeva un fucile o una rivoltella (…). L’unica arma che conoscevano era lo sciopero. Ma si trattava di uno strumento di difesa superato…”. Qui, senza volere, il pensiero di Pansa combacia con quello di Renzi.

Se i “rossi” appaiono puri delinquenti, gli squadristi, e in particolare il fascista dissidente Cesare Forni, sono descritti in termini eroici. “Il castigamatti”, “I conquistatori”. Sbruffoni e cavallereschi, capaci di battersi in cinquanta contro mille. Si sorvola sui loro delitti. Poi il Regime prese un’altra piega e tradì i loro “ideali”. Erano stati in fondo una sana reazione della buona borghesia operosa alle pretese egualitarie e criminali della ciurmaglia rossa.

Dopo un altro, molto migliore romanzo revisionista (Canale Mussolini di Antonio Pennacchi), un ulteriore tassello narrativo si aggiunge al ribaltamento, anche etico, di risultati storiografici che parevano consolidati. In un momento in cui uno squadrismo riemerge. Meno pericoloso solo perché di “rosso”, in giro, sembra essere rimasto ben poco.