di Fabio Ciabatti

Henri Lefebvre, Spazio e politica. Il diritto alla città II, Ombre corte, 2018, pp. 141, € 11,90.

La miseria e il degrado urbani sono alcune delle caratteristiche più appariscenti delle società contemporanee a dieci anni dalla scoppio dell’ultima grande crisi mai realmente superata. Non si tratta però di un processo che possa essere attribuito semplicemente ad un mix di austerità, malagestione pubblica e speculazione edilizia. Queste sono solo le cause più prossime che rimandano ad una dinamica più profonda e cioè al rapporto contraddittorio, dialettico, tra città e capitalismo. Henri Lefebvre sostiene infatti che il capitalismo accresce a dismisura le città determinando una esplosione-implosione delle sue tradizionali caratteristiche. Detto altrimenti, la città è negata e, al tempo stesso, generalizzata a livello della società intera, come si può leggere in Spazio e Politica, un testo che, scritto nel 1974 e ripubblicato quest’anno in Italia, è stato concepito dal suo autore come secondo volume de Il diritto alla città, uscito nel 1967 e ristampato nel 2014, sempre da Ombre Corte.

Quali sono le caratteristiche della città tradizionale secondo Lefevbre? La città è luogo per eccellenza dell’incontro e della simultaneità. Incontro significa confronto tra differenze, anche ideologiche e politiche, reciproca conoscenza dei diversi modi di vivere. La città è luogo del desiderio, dello squilibrio, dell’imprevisto, della dissoluzione dell’ordinario e dei vincoli, fino all’implosione-esplosione della violenza. La città nasce non solo come prodotto ma soprattutto come opera, nel senso di opera d’arte. In essa il valore d’uso prevale sul valore di scambio. Lo spazio non è soltanto organizzato, ma è anche modellato e appropriato dalle esigenze, dall’etica, dall’estetica, dall’ideologia dei gruppi sociali che lo abitano. La monumentalità, ma anche l’uso del tempo, sono aspetti essenziali di questa opera. L’uso principale delle strade, delle piazze e dei monumenti è la festa in cui si consumano improduttivamente ricchezze senza nessun’altro vantaggio che il piacere ludico e il prestigio. Per tutti questi motivi non esiste nessuna realtà urbana senza un centro, senza un luogo di concentrazione di tutto ciò che può nascere e prodursi nello spazio. Nei diversi periodi storici la città ha creato differenti centralità: religiose, politiche, commerciali. La vita comunitaria, però, non esclude la lotta fra gruppi, fazioni, classi. Tutt’altro. Proprio perché i più ricchi si sentono minacciati da vicino giustificano le loro fortune donando alle città opere, monumenti e feste. Per questo civiltà fortemente oppressive si rivelano particolarmente creative.
Quando, con il capitalismo, lo sfruttamento direttamente economico sostituisce l’oppressione extraeconomica la creatività scompare. Il filosofo francese sostiene che nella città capitalistica gli elementi della società sono separati nello spazio determinando la dissoluzione dei rapporti sociali e l’affermazione della logica della segregazione. La separazione, però, è al tempo stesso vera e falsa perché lo spazio urbano si costituisce come l’unità del potere nella frammentazione, come un’integrazione disintegrante. Gli spazi del tempo libero sono separati da quelli della produzione cosicché appaiono affrancati dal lavoro, mentre sono ad essi collegati dal consumo organizzato, dominato. L’abitare, che significava partecipare alla vita sociale, fare parte di una comunità, diviene funzione a sé stante con la creazione dei sobborghi. Gli individui e i gruppi sono sradicati dai territori dove vivono, le relazioni di vicinato si attenuano, il quartiere si sgretola. Nulla sostituisce i vecchi simboli, gli stili, i monumenti, i ritmi, gli spazi qualificati e differenziati della città tradizionale. Il centro viene riprodotto sotto forma di centro direzionale, in cui si concentra potere, finanza, conoscenza, informazione, e di centro commerciale, luogo dove il monofunzionale resta la regola, interpolato da estetismi e decorazioni non funzionali, da simulacri di festa e di ludico. Il centro delle città più antiche può sopravvivere solo come luogo di consumo e consumo di luogo a beneficio dei turisti.

Lefevbre ci ricorda che la proprietà del suolo è di origine feudale. La mobilitazione della ricchezza fondiaria e immobiliare, con il suo ingresso nel ciclo industriale, bancario e finanziario, rappresenta perciò un grande ampliamento del potere del capitalismo contemporaneo. Esso può diventare un settore trainante, benché storicamente sia stato di un’area di compensazione nei momenti di rallentamento del ciclo economico. Per essere venduto lo spazio deve essere reso raro, parcellizzato, omogeneizzato, quantificato. Lo spazio diventa così insignificante, indifferente rispetto agli antichi simboli (religiosi, politici, estetici) e al tempo assume nuovi significati in cui il valore d’uso finisce per essere rappresentato in termini gerarchizzati: vantaggi, capacità di potenza, rapporti con il potere, prestigio.
Il capitalismo, sostiene ancora Lefevbre, si è conservato estendendosi allo spazio intero sconfinando dai suoi luoghi di nascita e sviluppo, le unità di produzione, le imprese, le società nazionali e multinazionali. Grazie a questa estensione si è passati dalla produzione di cose nello spazio, per cui questo risulta prodotto indirettamente come somma o collezione di oggetti, alla produzione dello spazio in quanto tale che diventa direttamente strumento di riproduzione dei rapporti di produzione. Attraverso lo spazio si produce e si riproduce un tempo sociale. Però al tentativo di sviluppo controllato dallo Stato, all’elaborazione ideologico-scientifica permeata dallo spirito di impresa, corrisponde un caos spaziale sempre più evidente e intollerabile. Ciò testimonia il fatto che la nostra società non riesce ad essere un sistema totalizzante anche se aspira ad esserlo. Questa tensione che non giunge mai a compimento dà luogo alle contraddizioni dello spazio: il suo uso vorrebbe essere razionale, organizzato a livello generale, mentre nella pratica lo spazio risulta frazionato e venduto a pezzi, frammentato da progetti parziali. La razionalità dell’impresa è inadeguata rispetto alle necessità di una nuova razionalità urbana, così come risulta insufficiente un sapere disperso, disseminato in discipline.

Lo spazio non è dunque neutro, ma politico e strategico. La possibilità di produrre lo spazio è correlata alla crescita delle forze produttive. Ma perché ciò avvenga a livello veramente razionale ci si deve scontrare con la proprietà del suolo: sia la proprietà privata che quella statale, precisa Lefevbre. È questa la moderna e più profonda forma della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione di marxiana memoria. È qui che si approfondisce il contrasto tra possibile e reale e si apre lo spazio per un pensiero utopico. Si tratta però di un’utopia concreta: sebbene la nuova società urbana non esista ancora, tuttavia essa è presente virtualmente nella contraddizione tra i processi di segregazione e la centralità urbana che rimane necessaria per la pratica sociale. Nella dispersione permane l’esigenza dell’incontro, della riunione, dell’informazione. Il carattere desertico e abbandonato della periferia permette la riproduzione dei rapporti di produzione, di classe, ma, al contempo, è un elemento rivelatore che mette in evidenza la necessità teorica e pratica dell’urbano. La forma della simultaneità, che caratterizza la città, consente di cogliere come problematiche la dispersione e la segregazione, elementi che altrimenti rimarrebbero dei meri dati di fatto.
Il diritto alla città di cui ci parla il filosofo francese, è un orizzonte conflittuale che nasce proprio da queste contraddizioni. Il diritto alla città legittima il rifiuto a lasciarsi escludere dalla realtà urbana da parte di un’organizzazione discriminatoria e segregativa; è l’opposizione ai centri decisionali che rigettano verso spazi periferici coloro che non partecipano ai privilegi politici; è la rivendicazione del bisogno di vita sociale e di un suo centro, della funzione ludica e simbolica dello spazio, del desiderio, della ricostruzione di un’unità spazio-temporale al posto della frammentazione. Il diritto alla città è l’aspirazione alla costruzione di una nuova centralità ludica in cui non ci sia più separazione tra vita quotidiana e festa. È la rivendicazione di un diritto alla fruizione collettiva che deve soppiantare l’utilizzo individuale ed escludente che deriva dala proprietà. In sintesi, non c’è creazione di forme e rapporti sociali senza la creazione di uno spazio adeguato, vale a dire senza una socializzazione dello spazio attraverso la sua appropriazione collettiva e la soppressione della sua proprietà sia pubblica che statale. E ciò presuppone una programmazione complessiva che non si propone l’abolizione della crescita economica, ma il suo rallentamento e il suo orientamento verso uno sviluppo sociale qualitativo.

Secondo Lefevbre, nel XIX secolo la democrazia di origine contadina, la cui ideologia animò i rivoluzionari, avrebbe potuto trasformarsi in democrazia urbana. Questo rimane uno dei significati storici della Comune del 1871. Minacciata da questa possibilità la borghesia, a cominciare dalla ristrutturazione parigina di Haussmann, distrugge l’urbanità allontanando la classe operaia dal centro. Per questo durante la Comune la classe operaia si riappropria del centro della città. David Harvey, sulla scia di Lefevbre, ha sostenuto che nella loro storia moderna i movimenti rivoluzionari hanno assunto spesso una dimensione urbana anche se l’attenzione è stata tradizionalmente concentrata sull’insediamento della classe operaia a livello di fabbrica. Nel Nord globale dei nostri giorni, la frammentazione e precarizzazione della classe lavoratrice ci costringono ad un’attenzione ancora maggiore nei confronti della dimensione urbana.
Non è un caso che i movimenti più importanti di questo ultimo periodo siano indissolubilmente legati ad alcuni luoghi urbani: Puerta del Sol a Madrid, piazza Syntagma ad Atene, Gezi Park a Istanbul, Zuccotti Park a New York, Piazza Tahrir al Cairo ecc. In tutti questi luoghi un’effimera centralità urbana è stata ricostituita attraverso la simultanea presenza e l’incontro di soggettività precedentemente disperse che si sono coagulate in una comunità di lotta, caratterizzata da rivendicazioni materiali e politiche, nuove forme di socialità e una rinnovata dimensione ludica. Se in un recente passato i luoghi dove si esprimeva il conflitto – le fabbriche, le scuole, le università, i quartieri – erano, per così dire, già abitati da comunità in sé che tramite la lotta divenivano comunità per sé, i nuovi movimenti sembrano aver dato luogo ad una nuova comunità estemporanea, nata senza apparenti mediazioni a partire da una situazione di atomizzazione, attraverso l’occupazione e la reinvenzione di un luogo cittadino. Tale caratteristica spiega la natura fugace di questi movimenti e il fatto che, nel migliore di casi, le energie da essi generate siano confluite verso una sfera prettamente politica, in discontinuità, almeno parziale, con le originarie prassi e professioni di democrazia radicale. Partiti come Syriza e Podemos, la corrente socialista di Berny Sanders dei democratici americani hanno rappresentato, tra le altre cose, la traduzione nella sfera politico-istituzionale di quei movimenti. Rimane da chiedersi se sia possibile che la dimensione carnevalesca delle nuove centralità urbane del terzo millennio possa in futuro interagire con e retroagire su una molteplicità di altri punti di radicamento in ambito lavorativo e territoriale per dare luogo a un nuovo soggetto collettivo che non si esaurisca in un batter d’ali e che non venga riassorbito in una dimensione prettamente politicistica.

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