di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

Redazione di Info-Aut, Solo un gioco? Una contro-storia dei Mondiali di Calcio, ebook liberamente scaricabile (*)

A ridosso della recente edizione russa dei Campionati del mondo di calcio, la redazione di Info-Aut ha pubblicato in formato ebook una ricostruzione critica della storia dei Mondiali in cui vengono evidenziati gli interessi economici e politici ruotanti attorno all’organizzazione di una competizione che continua ad appassionare milioni di uomini e donne in tutto il mondo. L’ebook comprende anche due interviste, a Darwin Pastorin, giornalista sportivo sensibile alle tematiche politiche e sociali, e al collettivo che cura il blog Minuto Settantotto.
Partendo da un breve riferimento alle origini della letteratura critica sullo sport, in questa sede ci soffermiamo in particolare su alcune considerazioni della redazione di Info-Aut contenute nell’Introduzione.

Sulla scia della temperie del Sessantotto, nei primi anni Settanta escono le traduzioni italiane di alcuni saggi di taglio sociologico che sviluppano una critica radicale nei confronti del sistema, della mentalità e delle logiche dominanti in campo sportivo: il testo di Gerhard Vinnai Il calcio come ideologia. Sport e alienazione nel mondo capitalista (Guaraldi, 1970), gli scritti di Pierre Laguillaumie, Ginette Bertrand, André Redna e Jean-Marie Brohm raccolti in un volume intitolato Sport e repressione (Samonà e Savelli, 1971), il libro di Ulrike Prokop Olimpiadi dello spreco e dell’inganno (Guaraldi, 1972). Ricorrendo a categorie marxiste, all’approccio della scuola di Francoforte e alla psicoanalisi, gli autori si propongono in generale di demistificare la retorica sportiva, svelando come dietro all’esaltazione della neutralità dello sport si celi una volontà disciplinatrice e propagandistica, e di mostrare i nessi che legano i fenomeni sportivi e le dinamiche del sistema capitalistico.

Nella maggior parte degli ambienti sportivi e in particolare nel panorama giornalistico italiano dell’epoca questi interventi vengono ignorati o suscitano polemiche dai toni stizziti. Salvo qualche eccezione, di fronte a categorie e ragionamenti critici le reazioni sono volte a difendere ostinatamente la presunta apoliticità, neutralità e separatezza dello spazio sportivo. Al di là delle prevedibili prese di distanza politico-ideologiche, ciò che colpisce è lo spaesamento che sembra investire i giornalisti, costretti a misurarsi con prospettive che mettono in discussione i loro tradizionali e tranquillizzanti punti di riferimento.

I contributi dei sociologi francesi e tedeschi rappresentano i primi tentativi di suggerire piste di ricerca e interpretazioni non convenzionali dello sport, capaci di arricchire il dibattito su una molteplicità di temi: i nessi tra sport e logiche di mercato, la mercificazione e la spettacolarizzazione dell’attività sportiva, la cultura del corpo veicolata dalla ricerca ossessiva della performance, la strumentalizzazione delle manifestazioni sportive in chiave di propaganda politica.
Letti a distanza di anni, questi saggi appaiono però per diversi aspetti viziati da forzature ideologiche che restituiscono un’immagine unilaterale e riduttiva del fenomeno sportivo. Un limite del loro approccio consiste nell’avere trascurato il fatto che anche l’immaginario (sportivo in questo caso) è terreno di rinegoziazione e di conflitto e che dunque non si esaurisce nelle sole logiche impositive del potere. Un atteggiamento critico nei confronti del sistema sportivo non dovrebbe inoltre perdere di vista l’aspetto emozionale e le passioni ludiche che lo sport, esattamente come il cinema, la musica o qualsiasi forma d’arte, è in grado di trasmettere a prescindere dal sistema politico-economico che lo condiziona. Di questo sono consapevoli gli autori di Solo un gioco? che infatti scrivono: «Il calcio e lo sport, per quanto costretti nelle pastoie di un sistema capitalistico che li ha trasformati in macchine di profitti, hanno sempre in sé la tensione, in ogni partita, corsa, gara a ritornare all’originaria forma d’arte in cui consistono» (p. 10).

Su questo aspetto insiste Darwin Pastorin: «Non esiste confine tra calcio e arte. Tra sport e arte. D’altra parte, quando noi parliamo del football brasiliano sottolineiamo la bellezza e l’innocenza di un’emozione che ha, indubbiamente, a che fare con la musica e la letteratura. Jorge Amado mi disse, nel 1993, nel corso di una intervista per “Tuttosport”: “Sono realmente un appassionato di calcio. Il calcio è qualcosa di più che un semplice sport: è, allo stesso tempo, arte. Una buona partita di football rappresenta uno spettacolo straordinario di danza, con la caratteristica di trattarsi di una danza improvvisata in ogni suo momento da ventidue ballerini. Accade, a volte, che uno di questi ballerini abbia il virtuosismo di Pelé o di Garrincha, di Didi o di Nilton Santos, di Domingos da Guia o di suo figlio Ademir: e così lo spettacolo diventa incomparabile”» (p. 40).

Anche il collettivo Minuto Settantotto, in un’altra intervista riportata in Solo un gioco?, sottolinea la componente emotiva-passionale del calcio che prescinde dall’uso che di esso fanno i poteri economici e politici: «Il pallone è passione popolare e questo non ce lo potrà rubare nessuna pay tv, nessun presidente criminale, nessun Daspo. Possiamo criticare il calcio attuale quanto vogliamo, ma un gol allo scadere della nostra squadra del cuore ci farà esultare come pazzi sempre e comunque… c’è una scena meravigliosa nel film Il mio amico Eric di Ken Loach in cui un tifoso deluso del Manchester United, che ormai segue solo lo United of Manchester (la squadra fondata dai fan critici dei red devils) e non entra al pub con gli amici quando giocano “gli altri”, sente il rumore di un gol in una partita importante e non riesce a resistere. L’essenza del rapporto tra appassionato e calcio è tutta qui» (p. 79).

Nell’Introduzione a Solo un Gioco? gli autori dell’ebook sostengono che l’affermazione degli Stati-nazione dopo la fine delle grandi istituzioni sovranazionali, la risistemazione geopolitica globale al termine della Seconda guerra mondiale e i processi di decolonizzazione creano le condizioni per le grandi manifestazioni sportive internazionali moderne come la Coppa del mondo di calcio.
A partire dagli anni Sessanta, lo sviluppo della tecnologia televisiva, la crescente commercializzazione degli eventi sportivi e l’affermazione della Fédération Internationale de Football Association (FIFA) come “macchina da soldi” capace di svolgere un ruolo politico extrasportivo rilevante sullo scacchiere geopolitco (si pensi alle logiche sottese all’assegnazione delle kermesse sportive) determinano una trasformazione dei Mondiali che li porta a divenire quell’istituzione sportiva globale che conosciamo oggi.

Sul futuro della competizione rimangono aperti diversi interrogativi legati anzitutto alla polarità e al nesso nazionale/globale. Se, da un lato, il torneo mondiale rimane fondato sull’idea di rappresentanza nazionale e continua a suscitare pulsioni e sentimenti identitari, dall’altro la dimensione del calcio, sempre più globalizzata sul piano sportivo e politico-economico, si configura come una complessa rete di interessi e poteri che travalicano i confini degli Stati-nazione.
In una contemporaneità in cui i confini statali oscillano tra chiusure identitarie e protezionistiche e aperture dettate dai processi di globalizzazione e dai fenomeni migratori, mentre le squadre nazionali rimandano all’idea di Stato-nazione i maggiori club calcistici sono diventati vere e proprie imprese transnazionali al pari di quelle industriali e finanziarie e attorno a loro ruotano i principali giri d’affari del mondo del calcio. Nello stesso tempo gli organismi calcistici nazionali «cercano in tutti i modi di sfruttare a livello economico l’indotto che queste grandi squadre generano: non a caso l’amministrazione della Liga spagnola si è esposta numerose volte sulla questione indipendentista catalana affermando che al di là dell’esito del processo politico, il Barcellona senza la Liga e la Liga senza il Barcellona sono assolutamente impensabili. Questione di profitti, che scavalcano le contrapposizioni politiche» (p. 7).

In questo contesto maturano le contraddizioni tra la dimensione calcistica nazionale e le logiche dei grandi club-multinazionali, tali sia per capitali che per composizione delle squadre. Quando, ad esempio, un club è nelle mani di un fondo d’investimento internazionale si configura come una compagine che non è riducibile esclusivamente al campionato nazionale al quale partecipa. D’altra parte, da tempo si parla di una sorta di supercampionato europeo di calcio sostanzialmente riservato alle squadre-imprese che permettono il maggior ritorno economico; le partite di un campionato di tale tipo potrebbero essere giocate ovunque, anzi, per certi versi non è difficile immaginare che possano essere disputate in Asia, in India o in qualche Emirato arabo, come già avviene per diverse finali tra squadre europee e, presto, magari anche per partite di campionato particolarmente seguite (Barcellona-Real Madrid, Liverpool-Manchester United ecc.). È di questi giorni la notizia dell’interessamento della Liga spagnola per fare giocare il prossimo anno incontri di campionato del Real Madrid e del Barcellona negli Stati Uniti e in Cina con l’obbiettivo di aumentare gli introiti grazie ad un pubblico sempre più internazionale.

Gli autori di Solo un gioco? si propongono quindi di offrire motivi di riflessione per chi è impegnato, su vari fronti, a valorizzare il significato sociale e la passione per lo sport rispetto a chi invece è interessato esclusivamente a trarne profitto. In questa prospettiva, le critiche alla spettacolarizzazione televisiva del calcio, sempre più dipendente dalle pay tv e dal marketing, le proteste nei confronti delle derive del calcio moderno da parte di settori delle tifoserie e la crescita di «squadre di calcio popolare, palestre autorganizzate, esperienze di giornalismo e letteratura critica sui temi sportivi» (p. 9) possono contribuire alla trasformazione del discorso sullo sport e della pratica sportiva in una direzione auspicata anche da Pastorin: «Il calcio, e lo sport in generale, devono ritornare ad avere un valore pedagogico. Bisogna ripartire dalla scuola e dalla famiglia, da una “cultura della sconfitta”, dal gioco inteso in quanto tale, cioè “gioco” appunto, senza esasperazioni. Basta con i genitori manager, con il culto del dio denaro, e diamo, di nuovo, più importanza al dribbling che al marketing» (p. 43).

(*) ebook liberamente scaricabile fotocopiabile, condivisibile, con la solo richiesta di citare la fonte. Attribution ‐ NonCommercial ‐ NoDerivatives 4.0 International


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