di Franco Pezzini

(qui la prima parte)

Fantasmi a West Wycombe

La nostra indagine non può dirsi conclusa davanti al muro di cinta di Medmenham: e per trovare qualche altra traccia dello sfuggente Sir Francis puntiamo verso West Wycombe, sede del suo palazzo di famiglia e di una certa parte delle sue gesta. Mentre maciniamo le circa sei miglia del tragitto abbiamo agio di pensare all’entità dell’impatto dell’epopea libertina sul paese dove poi sboccerà l’età vittoriana – due poli simbolici più profondamente connessi, in realtà, di quanto superficialmente si possa immaginare. Certo in questa galleria di personaggi c’è di tutto: ma per capire Dashwood è opportuno proprio considerare la contraddittoria commistione di scandali e pretese di status, istanze genuine di libertà e sprofondamenti nichilistici nell’autodistruzione fisica e morale di cui è punteggiata una stagione culturale protratta in Inghilterra dal Sei all’Ottocento.

Si pensi per esempio a John Wilmot, secondo conte di Rochester (1647-1680), autore di opere satiriche ed erotiche, amico di Carlo II ma periodicamente in disgrazia a corte – e abbastanza spudorato, durante uno di questi esilî (ma sarebbe meglio dire latitanze) da dispensare cure sotto falsa identità come “dottor Bendo” specialista in problemi ginecologici. Muore ancor giovane devastato da malattie veneree e abuso di alcolici, ma raccoglie stima tra i letterati dell’epoca e si guadagnerà il ruolo di protagonista nel film The Libertine con Johnny Depp, presentato al Toronto Film Festival nel 2004. E d’altra parte, restando ai letterati, pensiamo ad Aphra Behn (1640-1689), una delle prime donne inglesi a fare della scrittura una vera professione, capace di cantare liberamente e analizzare con sottigliezza il desiderio da un’ottica femminile, ma senza rigide barriere di genere – tanto più che è serenamente bisessuale. Autrice prolifica – poesia, prosa e soprattutto opere teatrali – riesce a svolgere anche attività di spia per conto della corona.

Per il secolo successivo, ricordiamo il convitato delle ultime feste George Augustus Selwyn (1719-1791), educato a Eton e Oxford (da cui è cacciato per una parodia dell’eucarestia dove forse ha usato il suo sangue), in seguito sfaccendato parlamentare con qualche redditizia sinecura. Molto popolare in società per il suo gusto artistico, e frequentatore egli pure – pare – dell’orizzonte Hellfire Club, è però un personaggio molto più sinistro di Dashwood. Come testimonierà Walpole che l’ha conosciuto già a Eton, Selwyn non apprezza nulla quanto un criminale, a parte l’esecuzione di costui: il Nostro ama infatti i dettagli più macabri dei fatti di sangue, e nutre una vera passione per le scene sui patiboli. Basti dire che nonostante la guerra dei Sette Anni, nel 1757 si fionda a Parigi per godersi la (spaventosa) esecuzione di Robert-François Damiens, attentatore alla vita di Luigi XV: nessuno stupore che i francesi, considerando la professionalità del turista, arrivino a chiedergli se il boia è lui. Risposta del Nostro (se non è una leggenda): “No, Monsieur, non ho un tale onore: sono solo un amatore”. Selwyn non si sposerà mai, ma è documentata la sua tenerezza (un po’ ossessiva ma pare candida) verso figli e figlie di amici, in particolare Maria “Mie Mie” Fagniani figlia della marchesa Fagniani e del Duca di Queensberry, della quale otterrà la custodia tutelare lasciandola alla fine ricchissima. Selwyn impazzerà in società persino quando ormai sembra un manichino di cera, tanto è conciato, e morirà di gotta come tanti aristocratici d’epoca rimpinzati di carne, ma avrà sopravvivenza nel ricordo e nell’immaginario: dal già citato Chrysal, Or the Adventures of a Guinea al Melmoth the Wanderer di Maturin, e ancora molto più tardi. Per esempio, il raggelante personaggio di Le Convive des dernières fêtes di Auguste Villiers de L’Isle-Adam, 1883, è ispirato probabilmente a lui, e in modo anche più diretto La Faustin di Edmond de Goncourt, 1914, mostra un gentiluomo inglese con pulsioni sadiche, tale George Selwyn, in cui l’omonimo settecentesco è mixato col virtuoso della frusta Algernon Swinburne. Di fronte a simili personaggi hanno buon gioco i connazionali di Sade a etichettare un po’ acidamente il sadomasochismo (più propriamente il gioco con le fruste) come vice anglais. Ma ci si può domandare se il Selwyn Mangiamorte di Harry Potter non sia ancora un ricordo del vecchio necrofilo.

E ancora – ma l’elenco dei simil-libertini eccellenti in terra britannica potrebbe continuare assai più a lungo – pensiamo a William Beckford (1760-1844), il voltairiano e (proto)romantico Califfo di Fonthill autore del fantasmagorico Vathek, nonché edificatore di un’altra Abbey ancora più folle nella campagna del Wiltshire: non solo il suo romanzo più noto rappresenta una sorta di malizioso mandala del Caos, una rilettura cinica e gotica delle Mille e una Notte, ma la sua relazione con il giovanissimo amico William “Kitty” Courtenay sarà causa di scandalo e scomunica sociale… Volti insomma diversissimi, accomunati tra gli eccentrici padri di ogni futura sovversione britannica.

 

 

Arriviamo finalmente a West Wycombe. Con la grandiosa villa della famiglia Dashwood costruita tra 1740 e 1800, West Wycombe Park, a ricapitolare la storia delle mansion aristocratiche del Settecento britannico tra palladiano e neoclassico e riccamente ispirata a spunti italiani: una lunga serie di produzioni cinematografiche e televisive vi troveranno set, dall’Arancia meccanica di Kubrick (1971) alle serie The Crown (2019), Belgravia (2020) e  A Very British Scandal (2021). Ovviamente passeggiando nello splendido parco non è possibile accorgersi che la forma rappresenti un corpo femminile: ma nella ricca serie di tempietti, padiglioni e follies disseminati qua e là secondo l’uso dell’architettura di giardini settecentesca, il Temple of Venus abbina il tempietto vero e proprio con una copia della Venere di Milo, a un piccolo tumulo sottostante con un parlatorio, una grotta artificiale grande quanto una stanza. Vi si accede attraverso un’apertura ovale fiancheggiata da pareti curve, a evocare un sesso femminile come punto focale del parco, almeno se visto dalla casa (cfr. qui). Puntiamo però, a questo punto, alle famigerate Caves.

Il negozio di dolci.

 

Il pittoresco paesotto, un migliaio di abitanti, è amorevolmente curato dal National Trust fin dal ’29: stretti attorno alla solita High Street sono infatti piccoli gioielli dell’architettura di villaggio databili dal Cinque al Settecento, come il Church Loft già luogo di accoglienza dei pellegrini, e alcune deliziose botteghe – compresa quella con la grande scritta Sweets, dolci a volontà, che attira le concupiscenti attenzioni dei nostri figli. Un’attenzione particolare merita però The George and Dragon Hotel, per la storia (riporta il depliant del posto) di “Sukie, la deliziosa arrampicatrice sociale il cui fantasma, si dice, infesta l’edificio”. La storia richiede un preambolo.

Da moltissimo tempo – se non dalla preistoria – le Chiltern Hills sono state sforacchiate per trarne selci, abbondanti nel bianco gessoso del calcare dove formano macchie e striature scure; e nelle maps della zona (compresa quella di Google) sono indicate varie Hell Fire Caves, in qualche modo connesse agli allegroni di cui sopra. Proprio di fianco a West Wycombe si apre in effetti la più nota, fatta scavare da Dashwood dichiarando fini simili alle odierne occupazioni di pubblica utilità. Tre successive crisi nei raccolti hanno messo a terra gli abitanti, per cui Milord offre loro lavoro per uno scellino al giorno: dovranno scavare un lungo tunnel all’interno della collina – il calcare è abbastanza morbido da non offrire eccessiva resistenza – ricavando selce per pavimentazioni stradali e costruzioni, come in parecchi edifici a West Wycombe. È possibile che i lavori facciano sparire tracce di una cava preesistente; visto però, fa notare qualcuno, che la selce copre i fianchi della gessose Chiltern Hills, la motivazione di uno scavo tanto profondo a fini estrattivi pare almeno discutibile. Comunque sia, tra il 1748 e il 1754 la Caverna è estesa alle attuali ragguardevolissime dimensioni, offrendo al Nostro una simpatica tavernetta, la gratitudine degli ex-contadini e – sostengono i malevoli – la loro disponibilità a chiudere un occhio su quanto avverrà all’interno. Pare in effetti che le riunioni dei Monaci dopo il ’62 avvengano qui dentro, o almeno un certo numero di riunioni: ma sulla loro natura c’è dibattito. Certo, ricordando i bunga-bunga di Medmenham, è abbastanza facile immaginare che i grandi spazi ricavati nelle cosiddette Hell Fire Caves siano finalizzati alle stesse attività; e non manca chi faccia confusione tra i due luoghi. In realtà non sussistono prove certe per sostenere un uso orgiastico, anche se i motivi per negarlo a priori (la datazione relativamente tarda dell’utilizzo, quando l’esperienza dei Monaci sarebbe stata ormai al tramonto, e l’oggettiva scomodità di talune pratiche nell’umido di una grotta) restano altrettanto deboli.

Nel cortile d’ingresso alle Caves.

Comunque sia, dai giorni di Dashwood le Caves rappresentano un importante punto di riferimento per l’immaginario della comunità di West Wycombe: e ad esse si collega anche la storia di Sukie. Secondo la tradizione, la ragazza fa parte della servitù del The George and Dragon. E se la tira un tantino: carinetta, ha rifiutato le proposte di tre giovanotti del villaggio sulla base del deterministico progetto di diventare moglie di un aristocratico. Ovvio che quando un bel giorno un tipo dall’aria altolocata si ferma alla locanda, Sukie ce la metta tutta per farsi notare. E ci riesce così bene che il gentiluomo comincia a farsi veder lì ogni giorno. Se davvero si tratta di un aristocratico non è così facile che alla fine ci scappi un matrimonio, ma in campagna non si può mai dire: e possiamo immaginare questa signorina tutto pepe che, tra cambi di asciugamani e piatti da rigovernare, brilla di luce propria ogni volta che appare il suo bello. Il problema è che i tre spasimanti rifiutati non l’hanno presa affatto bene, e decidono a questo punto di darle una lezione. Preparano così una lettera firmata – simulano – dal gentiluomo: travolto dalla passione, chiede a Sukie di fuggire con lui. La ragazza dovrà solo indossare un vestito bianco e andare a incontrarlo quella notte stessa alle Caves… Sukie non se lo fa dire due volte, col buio raggiunge il posto, accende una torcia e penetra nella grotta. Ovviamente non immagina che i tre birbanti se ne stiano in agguato nascosti dietro una roccia: e appena lei passa, fanno in modo che la torcia le cada e si spenga. Terrorizzata, Sukie si mette a scappare nelle tenebre, con i tre urlanti alle calcagna: ed è allora che capita l’incidente. Un piede in fallo, la craniata contro la parete della grotta… Invano i tre, con i soccorsi subito chiamati, la raccolgono riportandola alla sua stanza nella locanda: Sukie è ormai in coma, e il dottore chiamato non può impedire che si spenga. Sono le prime ore del mattino: e da allora la sventurata apparirebbe come fantasma proprio in quel tempo fatale. Sono passati infatti solo pochi giorni e una coppia di ragazze che si dividono quella stanza finiscono con lo scappare a gambe levate per la fifa, rifiutando poi di tornare alla locanda – e in seguito si moltiplicheranno le attestazioni sull’ombra bianca femminile lì a zonzo nelle prime ore del mattino. Insieme, va detto, ad altri fantasmi, secondo la migliore tradizione britannica.

Le Grotte del Fuoco dell’Inferno.

Se a Medmenham tutto cospira per rendere difficile la nostra ricerca, qui la situazione è opposta: le Grotte del Fuoco dell’Inferno sono un luogo da weekend per famiglie, con sala da tè e vendita di libri e pupazzetti gotici. Ad accoglierci troviamo un ingresso amabilmente in tema, comprensivo di rovina pittoresca sovrastante la grotta (originale) e fiamme finte (moderne); e la definizione web usata da un visitatore per le Caves, “fantastically kitsch”, pare congrua. Pagato il biglietto entriamo infatti in una dimensione sotterranea popolata di manichini in costume, che riesce tuttavia a risultare suggestiva – a patto almeno di non soffrire di claustrofobia.

Le pareti del tunnel – quelle, si presume, su cui la povera Sukie si ruppe la testa – offrono cartelli con dettagliate spiegazioni sulla storia del luogo e le avventure di Dashwood & soci, ma anche altre iscrizioni di epoca varia: dal graffito che commemora un ottocentesco Lord Luxford, forse di passaggio, a un più moderno pentacolo a gessetto. Può restare invece il dubbio se alcune facciotte che sembrano spuntare dalle pareti rappresentino grottesche – o meglio, ombre appena sbozzate di grottesche, come spiritelli che prendano lentamente forma – o non piuttosto formazioni casuali. In qualche caso però sono chiaramente volute, e si apre piuttosto la questione se siano originali o invece risalgano ai lavori di sistemazione che a metà del ventesimo secolo permettono la riapertura delle Caves. L’undicesimo baronetto discendente e omonimo del vecchio Sir Francis, impressionato dalla quantità di visitatori nelle americane Carlsbad Caverns, ha fiutato l’affare per quelle di famiglia: dunque già nel ’51 il percorso sotterraneo è aperto ai turisti, ma i lavori continuano e la Grande Sala viene sistemata solo nel ’74.

Le facciotte sulle pareti delle Caves.

 

Diavoli, burloni e cinefili

Tra gli amici del vecchio peccatore figura, curiosamente, anche Benjamin Franklin: e la quinta tappa nel condotto (dopo l’ingresso, il Toole Store, la Whitehead’s Cave e il Lord Sandwich Circle – quest’ultimo così chiamato perché il tunnel vi assume una forma ad anello) è appunto la cosiddetta Franklin’s Cave. Benché qualcuno annoveri senz’altro Franklin tra i Monaci, sembra che egli prenda parte agli incontri della Fratellanza solo occasionalmente, come non-membro, durante il suo soggiorno in Inghilterra. Non è strano, perché i Monaci comprendono parecchi nomi politici di rilievo, e Franklin – che potrebbe aver svolto sull’isola attività in qualche modo spionistica – avrebbe avuto motivi obliqui e molto concreti per interloquire con loro. In quel contesto, o forse più tardi, l’americano visita anche le Caves. Sembra comunque che la strana coppia Dashwood-Franklin funzioni, e i due si trovino simpatici. Passeranno insieme tre soggiorni estivi a Wycombe; e il vecchio blasfemo che negli ultimi anni si era volto a una visione deistica, intraprendendo anche una revisione in tal senso del Prayer Book, chiederà l’aiuto dell’americano per le sue riscritture. A pensarci, non è strano: entrambi sono massoni, e la prospettiva di un’iniezione di deismo massonico in credo e liturgie della Chiesa d’Inghilterra non può che vederli fare comunella.

La Franklin’s Cave ha una strana forma, e culmina nella cosiddetta Children’s Cave. Ma di fianco il condotto riprende e conduce alla spettacolare, gigantesca Banqueting Hall, con l’alta volta e statue pagane piazzate nelle nicchie (sospetto, in realtà, dai gestori moderni): un posto sicuramente pittoresco per cenette con gli amici. Possiamo immaginare alla luce di infinite candele i gentiluomini imparruccati che si affaccendano con dita unticce su pollame e selvaggina, mentre il fuoco strappa riverberi dai bicchieri: e si può sospettare che non manchi loro la buona compagnia. La sala è rotonda, ma il tunnel continua di lato a semicerchio – forse anche per permettere alla servitù un più libero movimento. Proseguendo, si arriva dunque a un’altra curiosa struttura, chiamata Triangle perché il tunnel corre con un percorso triangolare attorno a un pilone di roccia; e, superata anche la cosiddetta Miner’s Cave, si arriva a un piccolo corso d’acqua sotterraneo pretenziosamente chiamato Stige. L’Inner Temple – ultima tappa, da cui si è poi costretti a tornare indietro – è popolato di manichini, più numerosi di quelli incontrati qui e là durante il percorso: anche Dashwood vi è effigiato, nel costume sultanesco di un altro suo celebre ritratto (del resto fa parte anche dell’esclusivo Divan Club, dei gentiluomini che abbiano avuto contatti con la Turchia), e in un angolo compare un babbuino.

Qualcuno dei manichini nelle Caves.

Nel citato Chrysal; Or the Adventures of a Guinea, infatti, emergeva la storia divertente e forse inventata di uno scherzo di Wilkes (i nomi mancano, ma l’identificazione è chiara) ai danni dei confratelli. Il burlone nasconde la scimmia, camuffata da diavolo con corna e mantellina, in una cassa sotto il proprio sedile; e al momento giusto la fa aprire, liberando l’animale. Improbabile che un babbuino se ne stia silenzioso in uno spazio tanto ristretto – a meno ovviamente che Wilkes preveda un tale fragore della tavolata da non temere una scoperta prematura. Comunque il babbuino zompa sulle spalle di Lord Sandwich che (continua la storia), avendo un po’ la coda di paglia e credendo di aver richiamato il Maligno con le pratiche della Fratellanza, si metterebbe a strillare: “Risparmiami, grazioso Diavolo! Risparmia un disgraziato che non è mai stato sinceramente un tuo servitore… Ho peccato solo della vanità di seguire la moda – tu lo sai che non sono mai stato perverso neppure la metà di quanto pretendevo. Che non sono mai stato capace di praticare la millesima parte dei vizi di cui mi vantavo…”. E proprio questa figuraccia indurrebbe Lord Sandwich, secondo il gossip, alla sorda ostilità verso Wilkes in cui la Fratellanza sprofonderà. Pare però che a Medmenham un babbuino ci sia davvero, e che Dashwood gli offra regolarmente l’ostia – non sappiamo se consacrata – in una parodia della comunione.

Una delle statue delle Caves.

Se la povera Sukie e qualche collega allignano nella locanda del paese, i beninformati comunicano che queste grotte sono intollerabilmente infestate: non possiamo dire di averne avuto esperienza, ma tutto è possibile. In ogni caso un fantasma c’è, in queste grotte, ed è quello del sesso: e già si è accennato alla diatriba sull’utilizzo o meno degli spazi per baccanali. Ma un altro fronte riguarda la struttura stessa delle Caves, se e quanto cioè la forma bizzarra sia legata a elementi contingenti – la preesistenza per esempio di una cava da allargare, o la presenza di filoni minerali che imponessero talune deviazioni del tunnel – o non sia piuttosto debitrice del sistema simbolico della Fratellanza. Non è chiaro per esempio cosa avvenisse nell’Inner Temple: un’alcova? Suggestiva a questo punto la teoria offerta dallo studioso Daniel P. Mannix (non citata nelle pubblicazioni del National Trust, e rifiutata dai discendenti di Dashwood): si tratterebbe cioè di simbologia sessuale, con l’utero nella Banqueting Hall, la rinascita attraverso il Triangle femminile, una sorta di battesimo nello Stige e i piaceri finalmente raggiunti nell’Inner Temple. Se non è vera, la soluzione è almeno intrigante.

Se comunque a Medmenham si vedeva troppo poco, qui nelle Caves si finisce col vedere troppo – dai manichini ai pupazzetti, tra frotte di famigliole in gita. Col rischio di perdere di vista la complessità storica degli eventi, al di là delle loro connotazioni grottesche. E una terza tappa s’impone.

St Lawrence, sulla collina di Wycombe, con la grande sfera dorata sul campanile.

Sempre qui, in realtà, dobbiamo solo risalire la collina. E posteggiando ritroviamo il silenzio: in questo momento non piove, solo un paio di persone passeggiano sotto il cielo grigio. Un tempo qui sorgeva un hill fort dell’Età del ferro, poi fu eretta una torre normanna: e sulle sue rovine il vecchio peccatore costruì la chiesa che ora ci appare dietro una macchia d’alberi, a sovrastare un cimiterino pieno di fiori. St Lawrence – tale il nome – fu costruita con la solita selce della collina secondo modelli veneziani, in uno di quegli slanci di passione per l’Italia comuni ai gentiluomini del Grand Tour; e sorge in corrispondenza dell’Inner Temple sotterraneo, novantun metri più in basso, a provocare domande sull’eccentrico committente. L’interno vanterebbe affreschi inspirati, pare, a quelli di Palmira in Oriente (richiamata anche nella villa, plausibilmente in memoria delle letture di Robert Wood, The ruins of Palmyra; otherwise Tedmor in the desart, London 1753): ma purtroppo non possiamo vederli, visto che l’edificio è aperto solo in certi orari, e nessun prete o sacrestano è disponibile. Visibilissima è invece l’enorme sfera dorata erta sul campanile. La si avvista a miglia di distanza, e non è un caso: la Golden ball ha un portello e permette l’accesso a un paio di persone. A quanto pare, serviva a Dashwood per spedire eliogrammi agli amici.

Subito oltre il cimiterino, però, c’è dell’altro: e qualunque cultore Hammer è pronto a riconoscerlo. L’enorme Mausoleo di Dashwood, 1765, è ispirato al Colosseo, ma con una strana pianta esagonale. Lo raggiungiamo e giriamo attorno sbirciando all’interno dalle cancellate, chiuse a impedire accessi non rispettosi: una struttura quasi teatrale di enorme fascino, costruita a ridosso del declivio e punteggiata sui muri interni di lapidi e sacelli della famiglia Dashwood. E in centro, serrata da un cancello come all’interno di un piccolo tempio, campeggia la tomba del Nostro. Le sbarre non c’erano, però, quando proprio qui venne girata la scena finale di uno degli ultimi film Hammer, To the Devil a Daughter (Una figlia per il diavolo) di Peter Sykes, 1976, liberamente tratto del romanzo di Dennis Wheatley.

Un personaggio, quest’ultimo, relativamente poco conosciuto in Italia, ma che sul piano narrativo meriterebbe una scoperta. Figura all’incrocio tra fiction, occultismo e servizi segreti, e ben informato sul giardino conchiuso di ciascuno di questi mondi, il prolifico Wheatley (1897-1977) va collocato nel suo mondo di monarchico tradizionalista e reazionarissimo con buoni e cattivi schierati senza equivoci: eppure i suoi romanzi, non esenti (ci pare oggi) da qualche lentezza d’epoca, ma tali da farlo griffare come “il Principe degli scrittori thriller” tra gli anni Trenta e i Sessanta, presentano spunti di notevole fascino. Consideriamo solo che l’immaginario sulla setta quale mostro-plurale, che ai nostri giorni miete tanto successo, trova proprio in Wheatley il proprio codificatore: per li rami, registi e sceneggiatori spesso ripropongono senza saperlo, attraverso una serie di debiti ispirativi, i topoi che proprio lui ha definito. Wheatley bazzica vari filoni, dall’avventura al fantastico/fantascientifico, dalla storia fino appunto all’occultismo di cui è considerato uno specialista (anche in grazia di conoscenze dirette dei mattatori di quel sottomondo, da Crowley a Montague Summers); e le sue opere forniscono abbondante materia al cinema popolare, in particolare alla Hammer.

Speciale rilievo ha, a questo proposito, la serie di undici romanzi incentrata sul personaggio del duca di Richleau, un aristocratico francese esiliatosi in Inghilterra in polemica col regime “socialista e borghese” della sua patria, e costretto a fronteggiare svariati pericoli sovrannaturali legati a sette sataniche. Particolarmente famoso è The Devil Rides Out, 1934, dove il duca combatte una specie di Crowley, lo stregone Mocata: e di lì la Hammer trae nel 1968 una splendida trasposizione sceneggiata da Richard Matheson e diretta da Terence Fisher. De Richleau è interpretato da un carismatico Christopher Lee, che approfondisce la parte con ricerche personali in campo esoterico; negli ultimi anni dell’attore correva anzi la voce di un suo possibile ritorno al ruolo. Rispetto al romanzo The Devil Rides Out, con l’incalzante susseguirsi di colpi di scena e la pirotecnia occultistica sfruttata fino alle estreme possibilità, il successivo To the Devil – A Daughter, 1953, è meno avvincente; e parallelamente il paragone tra i film presenta uno scarto tra il capolavoro di Fisher e l’onesta prova di Sykes – criticatissima dai cinefili seri, ma pur sempre godibile anche per l’ottimo apporto degli interpreti. Dove può non rilevare tanto la qualità del taglio horror – in fondo misurata a posteriori con criteri opinabili, e spesso con giudizi a piedi uniti che in questa sede interessano poco – ma l’enorme fascino antropologico e d’ambiente (un’Inghilterra di metà anni Settanta tra folk horror e nuove inquietudini) che, a dispetto di stroncature “facili”, un film del genere può a tutt’oggi vantare. Le concessioni al sesso inserite nel film (non esclusi i nudi frontali dell’allora quattordicenne Nastassja Kinski) a sviluppo di quelle allusive del romanzo indurranno Wheatley sdegnato a rompere i rapporti con la Hammer.

Se nel romanzo-base il maturo campione che sventa l’intrigo demoniaco è un militare, il colonnello Verney, nella pellicola trattane molto liberamente John Verney diventa uno scrittore esperto di occulto (come Wheatley, insomma) interpretato da Richard Widmark, e Christopher Lee veste i panni del vilain, cioè lo spretato diabolista Michael Rayner. Cambia anche il senso dell’avventura: qui si tratta di salvare la giovane novizia Catherine Beddows (appunto Nastassja Kinski) da un rito che la renderà incarnazione del Demonio. Dopo aver assistito alle orrende morti di due compagni, Verney deve accorrere proprio tra le mura del Mausoleo di Dashwood per strappare la ragazza dalle mani dello stregone – che ovviamente cerca di corromperlo offrendogli il potere supremo accanto a Catherine. Ma (per un complicato intreccio di trama che in questa sede non è importante riassumere) il cattivo Rayner ha mancato nei confronti dello stesso demone che serve, Astaroth, e Verney lo ammonisce: “Tutti i diavoli la odiano, Rayner, e la stanno aspettando”.

 

Rayner: “Il cerchio di sangue mi protegge; se ha consultato il Libro dovrebbe saperlo. Tra poco Astaroth rivivrà in questa fanciulla e io sarò di nuovo l’Eletto”.

Verney: “No, io la porto con me”.

Rayner: “E allora cosa aspetta a entrare nel cerchio e a prenderla?”

Verney: “Se lei pensa davvero che quel cerchio possa proteggerla, è un ingenuo”.

Rayner: “Questo cerchio è situato su una collina di silice [N.d.R.: guarda caso, proprio la selce scavata dagli ex-agricoltori del posto per ordine di Dashwood] e la silice è la pietra sacra di Astaroth”.

Verney: “Ma questa pietra [N.d.R.: quella con cui ha ucciso un adepto di guardia] è stata macchiata dal sangue di un suo discepolo. E adesso i demoni proteggeranno me”.

 

Quindi varca il cerchio, accoppa lo stregone e salva la ragazza. Allo spettatore resta un po’ criptico – ed è stato molto criticato – il fatto che all’improvviso il corpo di Rayner non ci sia più, forse portato via dai demoni. Eppure il bellissimo confronto di questo finale, in un luogo di enorme suggestione come il Mausoleo di Dashwood, resta indimenticabile – e basta a giustificare il viaggio fin qui.

Pur avendo visto il film – nei fatti, il canto del cigno della Hammer – solo molti anni più tardi, ricordo le locandine all’epoca dell’uscita in Italia. Era stata l’estate del mio primo innamoramento, e associo quell’immagine (i volti dei due maturi avversari su fondo scuro, e la ragazza in mezzo, sdraiata a gambe larghe per il parto blasfemo) al confuso rimescolio di emozioni. Un’ulteriore conferma, in fondo, del legame della Hammer con tutta una vita interiore.