di Carlo Modesti Pauer

Si discute da anni di una grave crisi della Democrazia e ancor più il dibattito è acceso da quando, attraverso la truffa elettorale ordita con una legge che trucca la realtà materiale, il governo del Paese è infine collassato negli artigli di un partitino personale di matrice neofascista, un aborto dello strappo a destra in risposta al fallimento del progetto (AN) ideato dal delfino del fascista Almirante (il quale nel 1987 aveva dichiarato “Siamo fascisti, siamo il fascismo in movimento, il fascismo non è il nostro passato ma il nostro futuro”). L’incauto segretario di AN osò sfidare (“Che fai, mi cacci?”) il potente imbonitore di Arcore – proprietario del partito “Tengo famiglia” – e per quella intimazione, divenne obiettivo delle bordate di vituperi scatenate dalla grancassa mediatica a libro paga del magnate (riferite per lo più alla vicenda di un appartamento a Montecarlo).Il programma di una “destra liberale” (sic!) naufragò sul dorso d’un “elefantino”, ammiccando al modello Repubblicano made in USA. Nulla di fatto e il tutto fu consegnato all’oblio.La base neofascista, che mai davvero aveva digerito la deriva “moderata” del segretario – omonimo di celebri tortellini in busta – si radunò in una cabina telefonica, guidata da un oscuro ex-democristiano mannaro, da un vecchio fascista collezionista di rottami del Ventennio e il consueto seguito di cascami nostalgici dell’orbace. L’astuto manipolo di residuati scippa l’incipit dell’inno nazionale e riattizzando la vecchia fiamma fonda il partito, piazzando al comando una piccola megalomane, mancata cabarettista e fanatica di romanzi fantasy, i suoi Bignami per l’avviamento alla pseudo-scienza politica. Nel volgere di dieci anni, l’orribile accozzaglia si ritrova al vertice del potere insieme ai devoti del dio Po guidati da Mr. Papeete e ai residui portaborse del defunto pregiudicato miliardario, già definito dal comico Grillo “la merda nel ventilatore”.”How the fuck did this happen?” (cit.).

Alle origini della democrazia

La distruzione del Giappone sconfitto nel suo sogno imperialista, completata con lo sterminio dei 200mila civili vaporizzati dalle atomiche di Truman, per le particolari condizioni storiche della politica e della cultura nipponica non fornì una nuova classe dirigente alla ricostruzione, tutt’altro. Come è stato notato dagli storici, le stanze del potere nel Giappone del dopoguerra si rivelano affollate di quelle stesse persone, criminali nazionalisti, che le frequentavano durante la guerra, le quali scoprirono che il loro già ben noto talento era ancora più apprezzato nel “nuovo” Giappone.Piegato e in macerie, il dissolto impero subì passivamente l’imposizione della democrazia e la dettatura della fondativa Costituzione da parte dell’occupante. Nella spartizione del Sol Levante, l’uso degli ordigni nucleari ancora tanto discusso appare invece limpido nella sua funzione: impedire un contributo essenziale dell’Armata Rossa nella vittoria. La scelta di Washington – favorita dall’improvvisa morte di Roosevelt più incline al dialogo con l’URSS – evitò con ogni probabilità la divisione del Giappone in due sfere d’influenza e quindi la creazione di una Repubblica popolare filosovietica come si ebbe in Germania. Il controllo pressoché totale del territorio fu perciò affidato al generale Douglas MacArthur, comandante in capo delle Forze alleate (ancora oggi le basi USA in Giappone sono 83 gestite da oltre 50mila soldati americani).

Se in Europa i due capi dell’Asse “Ro.Ber.To.” erano finiti uno suicida nel suo bunker e l’altro appeso a testa in giù (mentre il vile monarca responsabile del suo ingresso al potere nel 1922 aveva subdolamente abdicato guadagnandosi l’esilio dopo l’ignominiosa “fuga al sud”), nonostante le numerose sollecitazioni provenienti da più parti che reclamavano di processare Hirohito come criminale di guerra quale era, MacArthur tramò abilmente per salvare dalla forca il controverso imperatore e non solo; per le evidenti necessità della Guerra Fredda iniziata proprio con il lancio delle bombe su Hiroshima e Nagasaki, il generale rilasciò presto noti criminali di guerra di estrema destra e subito li ingaggiò, come Kishi Nobusuke che più tardi sarebbe diventato primo ministro.

In queste condizioni, MacArthur aveva ordinato al governo giapponese il compito di redigere una nuova costituzione che includesse un articolo “pacifista” di ripudio della guerra e un articolo che rendesse l’imperatore un simbolo dello stato. Quando la redazione della costituzione si concretizzò in una bozza che non conteneva nessuno dei due articoli, il generale ne prese in mano in prima persona la stesura, producendo una nuova bozza in una settimana. Il modello strutturale era quello britannico, perciò fu sostenuta la preservazione del sistema monarchico nel quale la forma democratica introdotta, permetteva un apparato istituzionale che avrebbe facilitato le politiche statunitensi di occupazione. Da allora, in effetti, il partito di destra governerà quasi ininterrottamente (da solo o in coalizioni sempre di destra) e sul Giappone in 80 anni mai davvero è “aleggiato lo spettro” del Socialismo.

In Italia, ex alleata di Germania e Giappone, la rapida sconfitta del delirio megalomane di Mussolini (Operazione Husky, luglio 1943) avrà una soluzione molto diversa esclusivamente per merito della Resistenza, organizzata dal CLN sorto all’indomani dell’8 settembre. Presieduto da Ivanoe Bonomi, il CLN – composto da azionisti, comunisti, democristiani, demolaburisti, liberali e socialisti – fu decisivo attraverso la guerriglia antifascista condotta dai partigiani per determinare l’insurrezione nazionale del 25 aprile, approdando così alla formazione del governo Parri (giugno – novembre 1945), il primo dell’Italia liberata dal nazifascismo. Sebbene l’ingerenza degli occupanti angloamericani fu durissima, ancorché addolcita dalle apparenze “amichevoli” abilmente allestite dalla propaganda alleata, sul piano costituzionale l’Italia non subirà la spregevole umiliazione imposta ai giapponesi (salvo l’art. 11, più ampie limitazioni sulla dotazione bellica offensiva) e la propria nuova Carta fondativa la scriverà autonomamente dopo aver scelto la Repubblica per via referendaria e contestualmente eletto un parlamento dotato di “potere costituente” (2 giugno 1946).

Come s’è detto per l’art. 11 imposto dai vincitori, che collocherà l’Italia nella cornice delle “tre costituzioni pacifiste” sorte dalla 2GM, c’è da ricordare un altro articolo, il famigerato n. 7, che costituirà un gravissimo vulnus alla sovranità piegando il Paese al “giogo clericale” (cit.). Tuttavia, l’architettura costituzionale, al netto delle critiche in punta di diritto, dell’ingerenza per l’art. 11 e del virus dell’art. 7, consegna alla neonata Repubblica un sistema democratico e un paradigma politico sostanzialmente aperto alle istanze del Socialismo, proprio per il contributo della rappresentanza dei due partiti di Nenni e Togliatti, insieme ai gruppi laici minori di sinistra, eletta dal “popolo sovrano” (art. 1).

I principi generali, politici, sociali, culturali, economici della Costituzione, poggeranno su fondamenta di cemento armato, le quali ebbero come plinti di riferimento: il sistema elettorale proporzionale; il bicameralismo perfetto; un bilanciamento dei tre poteri garantito dal Presidente della Repubblica.

Per questo suo essere “originalmente anomala” rispetto alle costituzioni tedesca e giapponese, quella italiana fu immediatamente oggetto di preoccupazione e attenzione da parte dell’imperialismo angloamericano che la bollò presto di “cripto-comunismo”. L’anomalia italiana, come s’è detto, stava nel crollo anticipato del regime (25 luglio ’43) rispetto alla fine di Berlino (maggio ’45) e Tokyo (agosto ’45), condizione che favorì l’immediata riorganizzazione dei partiti democratici soppressi dalle “leggi fascistissime” del ’25-26.

Quando si dice che l’Italia è nata dalla Resistenza e nutrita dal sangue dei Partigiani, si dice una VERITA’ inoppugnabile e significa esattamente questo: l’impegno dei patrioti italiani per impedire – come accadrà ai nostri due ex alleati – la totale ingerenza del vincitore sulla ricostruzione politica dello Stato.

Perciò, dopo il fortunoso arresto mentre fuggiva verso la Svizzera con l’amante di 30 anni più giovane, il CLN-AI ordina il processo e l’immediata esecuzione del criminale di Predappio: si doveva sottrarre la preda più ambita e contesa tra i servizi britannici e statunitensi.

L’attacco al cuore dello Stato

L’opzione del colpo di Stato in Italia, dato il suo “peso” strategico di “base USA nel Mediterraneo”, fu sostanzialmente un sanguinoso spauracchio agitato dalla manovalanza neofascista pilotata dai “servizi”, infatti, la pressione della minaccia costante aveva innanzitutto l’obiettivo d’indebolire le fondamenta democratiche del Paese e svuotare la Costituzione negli effetti in contrasto col paradigma economico dell’Impero.

Le putride bande nere, presenti e disponibili fin dall’immediato dopoguerra soprattutto grazie all’inconsistenza della pulizia dalla spazzatura umana erede del Regime fascista, praticarono attraverso lo stragismo a colpi di bombe, gli omicidi politici e le sanguinose provocazioni armate nelle piazze l’unico, vero terrorismo, operativo in Italia fin dalle origini repubblicane.

Fu, difatti, proprio il sorpasso social comunista (30%) sulla DC (20%) alle elezioni regionali siciliane nel ’47 a scatenare il primo avvertimento col massacro di Portella della Ginestra, durante la ritrovata festa del 1° maggio dello stesso anno (era la prima volta dopo la soppressione fascista). I mandanti che si servirono del bandito Giuliano, vollero letteralmente seminare la paura paralizzante tra gli strati sociali sensibili alle lotte contadine contro il latifondo e per l’occupazione delle terre incolte, poiché niente doveva accadere che potesse scardinare gli antichi assetti gerarchici della Sicilia tardo-feudale, dove l’inedito intreccio tra poteri locali (la mafia in guanti gialli) e neonato stato repubblicano sottostava inderogabilmente al vaglio e alla restrittiva sorveglianza del “padrone-liberatore” americano.

Come da copione, Giuliano fu ammazzato in circostanze “oscure” per evitare l’arresto da vivo ed eventuali rivelazioni; il braccio destro Gaspare Pisciotta, successivamente arrestato dal questore di Palermo, Carmelo Marzano, che in polemica per quanto fecero i carabinieri con Giuliano, disse “io i banditi li prendo vivi”, arrivò al processo e fu condannato all’ergastolo. Per quanto poi completamente scagionati dal tribunale, nel ’51 Pisciotta aveva fatto i nomi dei mandanti e, come risulta dal verbale del processo, a suo dire i fatti erano questi: “Coloro che ci avevano fatto le promesse si chiamavano così: il deputato DC Bernardo Mattarella, il principe Alliata, l’onorevole monarchico Marchesano e anche il signor Scelba. I primi tre si servivano di Geloso Cusumano come ambasciatore. Furono Marchesano, il principe Alliata, l’onorevole Mattarella a ordinare la strage di Portella della Ginestra. Prima del massacro incontrarono Giuliano”. Un depistaggio? Un complotto? Una verità talmente assurda da apparire falsa? Domande ancora oggetto di studio storico. Pisciotta fu recluso all’Ucciardone a scontare la pena, ma nel ’54 – per sicurezza – fu messo a tacere per sempre, con un cucchiaio di stricnina mescolato a “vitamine”. In un documento del 1953, il procuratore Scaglione aveva parlato apertamente di finalità anticomuniste della strage e di rapporti tra le forze dell’ordine e il banditismo. Pietro Scaglione, poi procuratore capo della Repubblica di Palermo, sarà infine assassinato da Cosa Nostra il 5 maggio del 1971.

Intanto, uscita dalla guerra l’Italia di De Gasperi ha a che fare con il Partito Comunista e il sindacato di sinistra più forti d’Europa e la sua polizia, sotto il controllo del ministro Scelba, spara e ammazza contadini, operai e studenti che hanno la colpa di voler vedere attuati i principi e i diritti costituzionali.

La violenza bruta per reprimere le manifestazioni, a Washington è affatto sufficiente. Mentre pubblicamente, per bocca dell’ambasciatrice a Roma, Claire B. Luce, la Casa Bianca chiede al governo di rendere illegale il PCI e De Gasperi – conscio del pericolo – rifiuta, a insaputa dello stesso Presidente del consiglio, la CIA consegna al SIFAR nel 1952 il Piano Demagnetize (lo stesso avviene con i servizi francesi – il PCF è fortissimo – ma il piano è denominato Cloven). Vi si legge tra l’altro: “L’obiettivo ultimo del piano è quello di ridurre la forza dei partiti comunisti, le loro risorse materiali, la loro influenza nei governi italiano e francese e in particolare nei sindacati, di modo da ridurre al massimo il pericolo che il comunismo possa trapiantarsi in Italia e in Francia, danneggiando gli interessi degli Stati Uniti nei due paesi… La limitazione del potere dei comunisti in Italia e in Francia è un obiettivo prioritario: esso deve essere raggiunto con qualsiasi mezzo… Del piano i governi italiano e francese non devono essere a conoscenza, essendo evidente che esso può interferire con la loro rispettiva sovranità nazionale…”. Come si vede è tutto molto chiaro (“danneggiando gli INTERESSI degli Stati Uniti”) e suona agghiacciante, 70 anni dopo, la frase “deve essere raggiunto con qualsiasi mezzo”. Sono le basi di quella che sarà nota come Gladio e della “strategia della tensione”. Ma andiamo con ordine.

Nel testo del maggio ’52 si legge pure che il governo italiano avrebbe dovuto “apportare revisioni alla legge elettorale per diminuire la rappresentanza del PCI a tutti i livelli governativi”.

E cosa accade pochi mesi più tardi? Scelba, il manganellatore della DC, è il (titubante) relatore in Parlamento della legge 31 marzo 1953, n. 148, nota storicamente come “Legge truffa” (la prima di tante che aggrediranno la sempre più fragile democrazia italiana). In breve, si tratta della demolizione del proporzionale, come da desiderata USA per recidere le gambe delle sinistre, realizzando un sistema truccato con l’introduzione “magica” – in spregio alla matematica – di un premio di maggioranza consistente nell’assegnazione del 65% dei seggi della Camera dei deputati alla lista o al gruppo di liste collegate che avesse superato il 50% dei voti validi. Ovvero: paghi 50 mele, ne porti a casa 65. Un’oscenità.

I padri costituenti democratici del ’48, che al momento son tutti vivi, davanti a un golpe bianco (la legge fu approvata con un “inquieto” voto di fiducia e la discussione si tenne la Domenica delle Palme) tentano il tutto e per tutto. Per le elezioni politiche del 1953, Calamandrei e Parri danno vita a Unione Popolare (uscendo dal PSDI) e perfino i liberali Corvino e Nitti (in polemica col PLI) crearono Alleanza Democratica Nazionale. Insieme presero l’1% e il piano riuscì, perché il fronte dei truffatori arrivò al 49,8% mancando il “premio” per un soffio (53mila voti). Inoltre, il risultato della truffa comportò una sconfitta della DC che perse oltre l’8% di voti e un’avanzata del PCI e del PSI, con 35 seggi in più rispetto alle precedenti consultazioni.

La legge è abrogata il 31 luglio 1954.

L’attività contro la sovranità del popolo italiano, invece, non si ferma.

A questo punto, l’elenco di fatti e dei nomi che operano negli anni per limitare, soffocare, sopprimere, rovesciare, negare, la democrazia italiana è lungo e ben conosciuto, attraversato da una orribile scia di sangue innocente. Non lo riproponiamo qui, ne analizziamo gli snodi essenziali. È perciò necessario, spostare per un momento l’attenzione dal programma geo-politico dell’imperialismo USA alla revisione del modello economico.

Sul finire degli anni Sessanta, si afferma un indirizzo teorico del capitalismo che prevede l’archiviazione del pericolosissimo keynesismo – ritenuto anticamera della socialdemocrazia – a vantaggio di un neoliberismo aggressivo i cui nemici della divina “proprietà privata” sarebbero la mano pubblica e l’intervento dello Stato.

In Italia la questione è bruciante, poiché nonostante tutto le sinistre crescono nei consensi e il Paese diventa addirittura terreno di una rivolta generale ben più complessa che altrove. Il “Sessantotto” non si placa, nemmeno le cinque bombe del 12 dicembre 1969, il “volo” di Pinelli e la “belva umana” Valpreda, compiono il loro abietto dovere, anzi, saranno benzina sul fuoco.

A sinistra del PCI – che opera per conquistare il governo con le elezioni e perciò cerca un dialogo con la borghesia – si era aperta una voragine politica, colmata da organizzazioni rivoluzionarie poco inclini ai compromessi. All’inizio del decennio Settanta lo scenario politico è incandescente e il progetto neogollista, la ristrutturazione neocapitalista verso l’utopica “globalizzazione”, rischia di schiantarsi contro un’opposizione enorme, multiforme e durissima.

Intanto, dall’altra parte del Mondo, il Sudamerica è in subbuglio e a Washington – impantanata in Indocina e Medioriente – la preoccupazione è grande, perfino la Chiesa cattolica con la sua assurda “opzione dei poveri” (Medellin 1968) sta creando problemi insidiosi nel “cortile di casa” (cit. Roosevelt, 1904). Poi, in Cile accade l’incredibile: la vittoria politica di Allende ha l’ardire di mostrare la reale possibilità della via democratica al socialismo. L’intervento degli USA è immediato e con l’appoggio della CIA a un colpo di Stato, il Cile fu consegnato alle grinfie di un sanguinario macellaio fascista, obbediente alle direttive imperialiste ordite da Kissinger. Così, prima di dettare le regole globali, gli economisti angloamericani profeti della fede neoliberista poterono fare il rodaggio al loro infame paradigma nell’osceno laboratorio cileno.

Tornando in Europa, il paese più a rischio di un’altra “occasione cilena” – ben più influente strategicamente della lunghissima striscia di terra sudamericana – era proprio l’Italia, dove la presenza di un partito comunista in crescita di consenso, associato alla robusta organizzazione sindacale, avevano amplificato le crepe ontologiche nella DC al giogo di Washington. La componente “sociale” del cattolicesimo politico – spinta dal rinnovamento pastorale emerso dal Concilio Vaticano II – si proponeva, in quel primo decennio ’70, di rilanciare la soluzione strategica del centro-sinistra sperimentata dieci anni prima, che aveva visto l’ingresso (a caro prezzo) del PSI di Nenni in un governo guidato dal democristiano Aldo Moro, questa volta aprendo la porta per l’accesso nella “stanza dei bottoni” al PCI di Berlinguer.

Doppio colpo al cuore dello Stato

S’è visto che la repressione e le sconce manovre per impedire a metà del Paese di far parte del governo non vanno a buon fine, anzi, producono un effetto tale che all’interno del grande “movimento” a sinistra del PCI pronto all’ingresso nel “Palazzo”, si organizzano vari gruppi inizialmente orientati all’insurrezione o alla rivoluzione armata secondo strategie e tattiche provenienti da letture diverse di Marx, Lenin, Mao e altri teorici. Il più organizzato, radicale e determinato si rivelerà nel tempo quello delle Brigate Rosse che cominciano la loro avventura nell’aprile 1970, ma emergeranno decisamente nelle cronache nazionali il 3 marzo 1972, quando prelevano l’ingegner Idalgo Macchiarini, dirigente della Sit-Siemens, di fronte alla fabbrica e lo fotografano con un cartello al collo, sul quale si leggeva: “Mordi e fuggi. Niente resterà impunito. Colpiscine uno per educarne cento. Tutto il potere al popolo armato!”. Macchiarini è liberato meno di un’ora dopo.

Per la imponente complessità della Storia che si sta brevemente riassumendo, nel marzo 1978, il paradosso di due “attacchi al cuore dello Stato”, di segno completamente opposto, si ritroverà a occupare la scena politica nazionale e internazionale.

Le BR il 16 marzo rapiscono Aldo Moro per avviare una trattativa e ottenere il riconoscimento politico del partito armato secondo la loro strategia resa nota in otto anni di comunicati. Immediatamente, il fronte dell’altro attacco al cuore dello Stato (che abbiamo visto operare ininterrottamente “con ogni mezzo” dal ’47), si attiva per manovrare occultamente dall’esterno – al di sopra della sovranità nazionale – obbligando la DC, lacerata al suo interno, al rifiuto di ogni mediazione e dialogo, imponendo di fatto la morte del Presidente. Con ben altri obiettivi politici, senza volerlo i brigatisti determinano l’evolversi di uno scenario nel quale gli USA afferrano l’opportunità di evitare all’Italia un’eventuale soluzione cilena (magari con più appropriate caratteristiche locali). Moro, infatti, teorico della “strategia dell’attenzione” (1968) avrebbe traghettato al governo i comunisti (benché ormai “socialdemocratizzati” secondo le letture critiche alla sua sinistra) per via parlamentare, impedendo di fatto un’oliata realizzazione del piano economico neoliberista necessario alla loro sopravvivenza. Washington, uscita con le ossa rotte e l’ignominia mondiale dal Vietnam, in Europa vedeva gonfiarsi venti contestatari sempre più ostili, un sentimento antimperialista che aveva tra gli obiettivi il superamento del bipolarismo fra Est e Ovest; perciò, una svolta italiana come quella del cosiddetto “compromesso storico” sarebbe stata devastante o quantomeno dagli esiti imprevedibili, di certo sfavorevoli per il loro comando imperialista nella Guerra fredda. Va detto, che dall’altra parte, anche l’URSS di Brežnev non sembrava apprezzare le teorie dell’Eurocomunismo di Berlinguer, Marchais e Carrillo, ma ciò non è qui oggetto d’analisi poiché l’Italia era (è) nella NATO e non nel Patto di Varsavia.

Messe alle corde – nonostante il tentativo estremo di Moretti con una drammatica telefonata (30 aprile) alla famiglia Moro nella quale dice: “Il problema è politico, e a questo punto deve intervenire la DC. Abbiamo insistito moltissimo su questo, è l’unica maniera in cui si può arrivare a una trattativa. Se questo non avviene… solo un intervento diretto, immediato, chiarificatore, preciso di Zaccagnini può modificare la situazione” – le BR decideranno (non senza tormento) di dare seguito alla sentenza.

Nel corso della seduta del 1° ottobre 1980 della prima Commissione Moro, la moglie, signora Eleonora, dichiarò che (probabilmente nel marzo ‘76) una persona disse a suo marito “o lei smette di fare questa cosa o lei la pagherà cara”. Già nel settembre del 1974, a un anno esatto dal golpe cileno, Kissinger avvertì Moro dei “pericoli” della politica di “compromesso”. L’eterogenesi dei fini consentì inaspettatamente di risolvere il problema dei “comunisti” al governo. Della possibile ucronia ci occuperemo in altra sede, nella realtà storica, durante i giorni del sequestro il PCI – nella speranza di confermare la totale affidabilità e la distanza dal comunismo rivoluzionario – si esibirà come il più granitico pilastro della “fermezza”, assai più inflessibile della stessa DC, dacché in fondo Moro non era un loro uomo. I democristiani, particolarmente in quanto cattolici, furono a vario titolo personale angosciati dalla decisione di sacrificare il loro presidente, tuttavia, gli ordini “atlantici” erano chiarissimi. Mai come in quei 55 giorni, la sovranità del popolo italiano – e dunque la Costituzione – fu calpestata, negata e annientata dal dominio straniero.

La buia parabola degli anni Ottanta e il crollo fin de siècle

Alle elezioni politiche del giugno 1979, la DC ottiene un risultato significativo (38,3%) mentre il PCI, che nel 1976 aveva toccato il suo massimo storico (34,3%) e raggiunto la conquista del Comune di Roma (col sindaco Argan), arretra (31,4%). L’VIII legislatura vedrà la formazione di sei governi e tra essi per la prima volta, Pertini incaricherà un presidente del consiglio non democristiano, il repubblicano Spadolini (1981).

La sconfitta di una prospettiva diversa, quale che sia il punto di vista, si palesa e diventa palpabile a partire dalle elezioni del 1983 quando il PCI crolla al 22,87%, la DC “tiene” (36,7%) e si afferma decisamente il PSI di Craxi (12,8%) che raggiungerà il suo massimo nell’87 con il 14,2%. Nel 1984 muore improvvisamente Berlinguer, mentre la svolta a destra del partito capeggiato da Craxi lo ha condotto alla guida del governo.

La crisi del Partito Comunista (ormai tale solo nominalmente) è la cartina di tornasole del collasso di una cultura che si sgretola sotto la pressione della globalizzazione. In uno scritto sul tema, del 1993, Primo Moroni riportava il ricordo di una “frase esagerata, ma significativa” che nemmeno dieci anni prima aveva ascoltato da un vecchio lavoratore: “Siamo come gli ebrei; ora ci aspetta la ‘soluzione finale’”.

In USA e UK sono al potere le destre più spietate del dopoguerra (Reagan e Thatcher) e hanno il mandato per l’annientamento definitivo di ogni orizzonte socialista e qualsiasi prospettiva di democrazia radicale che sia d’intralcio al trionfo del Capitale “privato”. L’inquilina di Downing Street, davanti alla contestazione delle violente misure impopolari, dirà “le persone si renderanno conto che non esiste nessuna reale alternativa”.

Così, come l’improvvisa morte del geniale Sergej Korolëv il 14 gennaio 1966 scompaginerà il sicuramente vincente programma sovietico di allunaggio, favorendo gli arretrati USA che riusciranno fortunosamente ad avere la meglio nel luglio ’69, esattamente vent’anni dopo, la catastrofe di Chernobyl del 26 aprile 1986 sarà il colpo di grazia per dissanguare l’economia dell’URSS impegnata nel complesso tentativo di transizione guidato da Michail Gorbačëv. Tre anni dopo, la Germania Est sblocca le frontiere di Berlino e il decennio finale del XX secolo si apre con la fine della Guerra fredda e la fortunata dichiarazione – priva di qualunque fondamento – che l’Occidente capitalista al comando degli USA avrebbe vinto definitivamente. Era La fine della storia, come recitava il titolo del citatissimo saggio pubblicato da Fukuyama nel ’92 (poi nel 2016, l’Autore sarà costretto ad ammettere onestamente il dispiegarsi di una crisi dell’ordine mondiale talmente grave che “potrebbe essere grande quanto il collasso sovietico”).

Con questa formula escatologica si riprende, in forme moderne, esattamente quanto sostenuto dalla teologia cristiana a partire dal V secolo, ovvero che la venuta del Cristo e la Rivelazione erano definitive in accordo con l’Apocalisse di Giovanni per il quale Cristo prendeva il titolo di Α (alfa) e Ω (omega); dove la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco simboleggiano inizio e fine. Dio incarnato in un uomo aveva offerto la Verità assoluta, altro non c’era da conoscere. Ora, alle soglie del 2000, giungeva a compimento la teologia economica concepita nell’evoluzione di quel paradigma occidentale, affermando il medesimo concetto di verità ma, il nuovo dio è il $, la sua Chiesa, Wall Street. L’ultima Santa Alleanza.

In Italia, il crollo del Muro e la dissoluzione dell’URSS hanno l’effetto di un temporaneo allentamento del controllo USA. La presidenza Bush Sr. è impegnata sia da una crisi economica interna, sia dall’intervento in Iraq e ciò condurrà alla sua sconfitta nel novembre 1992 (Clinton). Intanto, alcuni mesi prima, a Milano era stato arrestato il socialista Mario Chiesa e il suo capo, in campagna elettorale per le politiche di aprile, aveva dichiarato alla stampa il 15 febbraio che si trattava di un “mariuolo isolato”.

Alle elezioni, la DC crolla al 28%, il PCI – che ha gettato il bambino con l’acqua sporca – in pieno delirio americanofilo si è trasformato in Partito Democratico della Sinistra (PDS) e racimola il 16%, i “mariuoli” – essendo trascorsi appena due mesi dall’arresto di Chiesa – tengono, portando a casa un 13,6%. In realtà, tutto sta per franare.

Al Quirinale, dopo l’uscita di scena del “picconatore” Kossiga, autore di un messaggio alle Camere (che l’amico Andreotti – presidente del consiglio – rifiutò di controfirmare) dove in gloria della “governabilità” invocava la necessità di una nuova Assemblea costituente, il Parlamento del ’92 uscito dalle politiche di aprile elegge a maggio il democristiano, ex magistrato, e al momento presidente della Camera O.L. Scalfaro. Kossiga avrebbe terminato il mandato a luglio ma a seguito della batosta presa dal suo partito decide di anticipare la fine del suo settennato, caratterizzato nell’ultimo periodo – post-Guerra fredda – da un interventismo inconsueto attraverso dichiarazioni sempre più esplicite a favore di una svolta presidenzialista del sistema politico italiano, caldeggiando vieppiù una riforma elettorale che abolisse il proporzionale e adottasse il modello maggioritario. Il nome di Scalfaro al Quirinale s’impone improvviso durante una complicata elezione cominciata il 13 maggio. Lo scontro è tra Forlani (segretario Dc) e Andreotti. Craxi sarebbe tornato a Palazzo Chigi e il “CAF” al potere. Il conflitto interno alla DC vorrebbe puntare su Forlani ma questi finisce bruciato e si devia su Vassalli, il quale però, cade il 22 maggio sotto i colpi dei franchi tiratori così l’Arnaldo, ormai annientato, poche ore dopo si dimette dalla segreteria di Piazza del Gesù. La direzione del 25 maggio sarebbe quella di convergere, caduta la F, sulla A del CAF, il piano di Belzebù sembra riuscito, è a un passo dal Colle. È l’uomo di cui Moro prigioniero scrisse: “Andreotti, una volta conquistato il potere per fare il male come sempre ha fatto il male nella sua vita”, ma il diavolo fa le pentole…e al quindicesimo scrutinio, giunge da Capaci la notizia del massacro. Andreotti diventa impresentabile, tre mesi prima gli avevano ammazzato Salvo Lima, suo referente mafioso a Palermo. Si deve giocare la carta della seconda o terza carica dello Stato. Il Presidente del Senato, Spadolini, odiatissimo da Craxi è escluso, non resta che quello della Camera e alla fine, dopo velocissime consultazioni nei corridoi si torna al voto, anche Occhetto ha dato il via libera per Scalfaro: 672 voti sui 508 richiesti. E sarà Scalfaro a dire qualche giorno dopo NO a Craxi per la terza volta sulla Poltrona del Governo dopo essere stato “fottuto” da De Mita nel 1987. Il 28 giugno Amato giura a capo del quarantanovesimo esecutivo della Repubblica Italiana. Ma perché Scalfaro negò l’incarico al segretario del PSI? Le tessere del domino dopo la prima (Mario Chiesa) sarebbero cadute l’una addosso all’altra e il Presidente della Repubblica fu messo a conoscenza che l’ultima era proprio Craxi. Infatti, riceverà l’avviso di garanzia il 15 dicembre 1992.

Autodissolto il PCI, trascinati PSI e DC in tribunale (insieme ai sodali PSDI, PLI e PRI), si parla di “fine della prima Repubblica” ed è la ghiotta occasione per fare carne di porco dell’assetto democratico costituzionale emerso dal referendum e dalla costituente del ’46.

Il delitto perfetto

Nell’aprile del ’93 gli italiani votano un pacchetto di otto referendum, tra i quali c’è la proposta di consentire il maggioritario al Senato. Dicono di sì l’87%, solo il 17% difende il sistema vigente. È la fine del proporzionale consacrata dalla nuova legge elettorale presentata da Sergio Mattarella. Essa prevedeva che il 75 per cento dei seggi di Camera e Senato fosse assegnato con un sistema maggioritario a turno unico in collegi uninominali, mentre il restante 25 per cento doveva essere attribuito attraverso un complicatissimo meccanismo proporzionale, incomprensibile al 95% degli elettori. L’assegnazione dei seggi al Senato era regionale, mentre alla Camera nazionale con sbarramento al 4%.

Noto volgarmente come Mattarellum, il sistema intendeva forzare la politica alla mitologia del “bipolarismo”, obbligando i partiti a formare coalizioni che fossero abbastanza forti da eleggere i propri candidati nei collegi uninominali. Oltre alla soppressione dispotica delle idee di minoranza, sicché i piccoli partiti si trovano privi dell’autonomia e condannati – per sopravvivere – all’annacquamento in coalizioni, si era pure avviato un drammatico cortocircuito costituzionale che avrebbe sabotato l’immaginario dell’elettorato, trasfigurando il discorso pubblico sul significato del voto come rappresentanza nel quadro della pratica democratica.

Difatti, mentre vigeva ancora il sistema parlamentare bicamerale, con le maggioranze che si formano alla Camera e al Senato, l’obbligo di accordi preventivi simulava l’osceno spettacolo di un governo votato direttamente dagli elettori. Inoltre, con l’irruzione in scena per evitare galera e bancarotta del “più grande piazzista d’Italia”, come lo definì da destra lo stesso Montanelli, alla turpe leggenda del “bipolarismo” si aggiunse l’abietta menzogna del “candidato premier”, permettendo l’inquinamento definitivo della politica democratica con un’iniezione tossica di pseudo-presidenzialismo che spianava la strada alla seduzione dell’uomo forte, al mito dell’unto, rianimando tanto spudoratamente quanto esplicitamente l’orrore messo in scena dal megalomane di Predappio all’inizio del Novecento.

Il delitto perfetto era compiuto e il mandante veniva da molto lontano, affondando convenzionalmente le radici nel famigerato rapporto (poi divenuto un libro) pubblicato nel 1975 con il titolo “The Crisis of Democracy: Report on the Governability of Democracies to the Trilateral Commission” (scritto a sei mani da M. Crozier, S. Huntington e J. Watanuki). Tradotto in italiano (1977), il testo ostentava la prefazione di Gianni Agnelli nella quale il tema della ricerca era calato nello specifico nazionale e il padrone della FIAT scriveva senza alcun imbarazzo che “la caratteristica principale italiana è la mancanza di una vera opposizione e la poca autorità delle istituzioni di governo”. Lasciamo all’immaginazione del lettore individuare la natura dell’idea di “opposizione” e “autorità” dell’infido Avvocato, il quale sottolineava poi, che i tre autori “hanno parlato di crisi della democrazia in termini di governabilità del sistema democratico”. Come si capisce fin dal titolo, la parola – letteralmente magica – che irrompe nel discorso politico è “governabilità” e darà linfa a una vera e propria mistica in virtù del suo significato trascendentale, diventando il piede di porco con cui scardinare la democrazia. Nel testo del ’75, infatti, l’argomento centrale individuato dai subdoli studiosi a libro paga di Wall Street è “l’eccesso di democrazia” che attraverso un’opportuna propaganda penetra nel senso comune mimetizzato nel “tarlo” della governabilità.

Scritto probabilmente – e affatto casualmente – tra il ‘76 e il ’77, Il piano di rinascita democratica sarà scoperto nel luglio del 1981 in un doppiofondo d’una valigia della figlia di Licio Gelli, noto “venerabile” della loggia massonica P2 (dove P stava per “propaganda”). Il tema della governabilità era l’impalcatura in filigrana del disegno politico sovversivo pidduista, di cui un elenco per punti proponeva rigorosamente la soluzione all’eccesso di democrazia attraverso interventi “riformatori” nella direzione di un “autoritarismo legale” (per avere un’idea, oggi si può guardare all’Ungheria di Orbán, da egli stesso definita “democrazia illiberale”). Delle tante linee guida per i diversi affiliati, qui interessa segnalare che “Il Piano” chiedeva ai politici iscritti di attivarsi per: il bipolarismo, la fine del bicameralismo perfetto, una riforma elettorale in senso uninominale e la riduzione del numero dei parlamentari.

A questo punto, giova una breve parentesi per ricordare i componenti del comitato di crisi istituito da Kossiga all’indomani del rapimento di Moro nel marzo ’78: Federico Umberto D’Amato, “la spia intoccabile”, già capo del disciolto ufficio Affari riservati del ministero dell’Interno (tessera numero 554); Giulio Grassini, capo del Sisde (tessera numero 1620); Giuseppe Santovito, capo del Sismi (tessera numero 1630); Walter Pelosi capo del Cesis (tessera numero 754); il generale Raffaele Giudice, comandante generale della Guardia di Finanza (tessera 535); il generale Donato Lo Prete, Guardia di Finanza (tessera 1600); l’ammiraglio Giovanni Torrisi, capo di Stato maggiore della Marina (tessera numero 631); il colonnello Giuseppe Siracusano (tessera numero 1607); il prefetto Mario Semprini (tessera numero 1637); il professore criminologo Franco Ferracuti (tessera 2137), agente della Cia e consulente personale di Kossiga; il colonnello Pietro Musumeci dell’Arma dei Carabinieri, vice capo del Sismi (tessera 487); infine, Steve Pieczenik, funzionario della sezione antiterrorismo del Dipartimento di Stato americano, uomo di fiducia di Kissinger inviato per insegnare agli italiani come NON si tratta con i comunisti.

Le posizioni che criticavano i “meccanismi compromissori” e che vedevano il Parlamento come un ostacolo alla decisione politica, iniziarono a farsi strada sempre più a livello istituzionale e sfociarono rapidamente, già nel 1983, nell’istituzione formale della prima Commissione bicamerale per le riforme, poi nota come Commissione Bozzi. Sullo sfondo, la proposta di una “grande riforma” costituzionale avanzata dal PSI per voce del segretario Craxi, volta a modificare la forma di governo nell’ottica del rafforzamento dell’esecutivo. Numerose altre proposte si sono poi succedute e tutte hanno, a grandi linee, sempre inteso dare risposta al problema della governabilità, elevando ad assioma l’idea per la quale nella Costituzione vi sarebbero controlli e bilanciamenti che atrofizzano i poteri del governo.

Sotto il totem della governabilità, si annienta la polifonia delle idee come motore di crescita di una comunità che si vorrebbe vedere nella pienezza della complessità, rappresentata in Parlamento. Lo scopo della “parola magica” è azzerare il dibattito e il conflitto, trasformando le elezioni nell’osceno, vuoto rito di stabilire chi ha vinto la sera stessa del voto e non invece quello di comporre prima assemblee rappresentative di tutti e consentire dopo alle diverse forze politiche di confrontarsi per stabilire le alleanze adatte per governare al meglio. Esattamente il contrario dell’idea di “chi vince prende tutto”.

Giunti al capolinea, nel corso degli anni 2000, il battage della stampa fa credere al popolo che i crimini del neoliberismo, le nefandezze dell’oligarchia al comando dell’imperialismo USA, la paralisi della politica interna, il debito colossale del Paese, la corruzione, il distacco abissale del potere dai cittadini, dei rappresentanti dai rappresentati, siano colpa del sistema elettorale.

Nel corso di questi tre decenni, le “bicamerali”, gli assalti alla Costituzione, i tentativi di revisione che si sono susseguiti hanno fortuitamente mancato il bersaglio, salvo lo scempio della “riforma del titolo V”; mentre orrendamente fallimentari si sono rivelate, non stupendo alcuno, le diverse leggi elettorali. Fino all’abisso del raccapricciante sistema vigente che insieme alla scemenza populista della riduzione del numero dei parlamentari e alla perversa abolizione delle preferenze, ha consentito il lugubre, minaccioso, abominevole scenario attuale.

L’affluenza del 25 settembre per le elezioni politiche ha toccato il suo punto più basso. Dei 50ml aventi diritto hanno raggiunto le urne in 32ml. Il minimo storico dal 1946 (anche record negativo europeo), un 63% che impressiona se confrontato con gli anni ’50, quando alle politiche si sfiorava il 95%. Anni durante i quali per gli emigranti, i fuori sede, gli invalidi, gli anziani, gli ammalati, era ben più difficile andare a votare. Il che, se ce ne fosse bisogno, svuota di senso le ignobili capriole argomentative dei pennivendoli di regime che hanno imperversato su stampa e tv con l’intento di occultare o negare la realtà fattuale. La catastrofe culturale, tra le infinte vittime, ha travolto il nemico più irriducibile: la matematica. Facendone un’opinione come il resto, nell’epoca che è stata definita della post-verità.

Il partito più votato ha ottenuto 7,3 ml di preferenze che sulla base dell’intero corpo elettorale significa il 14% ma con l’artificio del solo conteggio dei voti espressi ottiene un 26%. Unitamente ai due “alleati”, il fronte nero consegue (sempre sulla base dei soli votanti) il 44% che per magia (il cd. Rosatellum) diventa 59%. Sull’altro fronte, rigorosamente in ordine sparso, dunque una somma teorica delle preferenze, si avrebbe un 48% (il cd. “campo largo”). Ragionando in linea teorica, con il “vecchio” sistema proporzionale il primo partito (in questo caso i neofascisti di Colle Oppio) dovrebbe essere incaricato dal Presidente della Repubblica di trovare una maggioranza nell’arcipelago nero che però non avrebbe (44%, 12ml); la mano passerebbe quindi ad un altro esploratore, il quale potrebbe magari unire – sempre sul piano dell’astrazione prevista dai Costituenti – il 48% (13,5ml) e provare a formare un governo, essendo la Repubblica ancora “parlamentare”. Per aggirare la complessità della Politica con la letale menzogna della “governabilità”, i partiti – assetati di potere e via via sempre più lontani dalla realtà, inginocchiati agli ordini dell’Impero – hanno avviato, appunto trent’anni or sono, le pratiche di smantellamento della democrazia costituzionale sorta dagli orrori e le macerie del fascismo.

Accade così, che con soli 7,3 ml di voti Calimera ottiene 119 seggi alla Camera (su 400) e 65 al Senato (su 200), grazie alla beffa della stolida riduzione della rappresentanza introdotta dal taglio dei parlamentari. Unendo i restanti 4,7 ml equamente divisi tra i due alleati si arriva a 235\400 scranni alla Camera e 115\200 al Senato. In pieno delirio di onnipotenza, con il 14% di rappresentanza reale, la saltimbanca a capo del governo delle menzogne recita la sua volgare pantomima, sbraita, gesticola, minaccia, pontifica di “patria” e “nazione” a nome “degli italiani”, dei quali però – oggettivamente – l’86% non l’ha direttamente votata e il 72%, cioè un’enorme maggioranza effettiva del corpo elettorale nulla condivide della sua politica criminale. Del resto, il primo partito da tempo è quello eterogeneo dell’astensione ormai oscillante tra il 40 e il 50 percento con picchi locali oltre il 60%. Tuttavia, è esattamente ciò che si prefigurava 70 anni fa.

A dare lezioni di democrazia per “correggere” le storture costituzionali della provincia italiana, sedeva in cattedra un Paese che praticava la voter suppression e allo stesso tempo eleggeva un solo uomo al comando con un sistema elettorale raccapricciante. Da un lato, si impediva (e si impedisce) alle minoranze con mezzi subdoli i più diversi (su base razziale ed economica) di accedere al voto; dall’altro – com’è oggi ben noto – il potentissimo Presidente può essere eletto perdendo, cioè ottenendo meno voti reali dello “sconfitto” (il recente caso Trump vs Clinton H.). In sostanza, siccome è previsto che ciascuno Stato federale esprima due senatori indipendentemente dalla sua popolazione, accade l’incredibile: i 40 milioni di cittadini della California “pesano” allo stesso modo dei 560.000 cittadini del Wyoming; dunque, due senatori californiani democratici sostenuti da 20 milioni di elettori ciascuno, hanno lo stesso effetto di rappresentanza dei due senatori repubblicani dello staterello con il Parco di Yoghi e Bubu, votati da 260mila elettori ciascuno. Curiosamente, il beffardo motto del Wyoming è “Equal Rights”…

In Italia, l’effetto della legge ideata dai geni imperituri del PD per annientare il M5S, s’è visto che – come la fata di Cenerentola – trucca la zucca della minoranza in carrozzone di maggioranza; mentre la voter suppression prende corpo in varie forme: nell’esclusione dei potenziali elettori della cd. “sinistra radicale”; nella demotivazione degli oppressi, degli sfruttati, dei poveracci, di molti giovani disillusi e di coloro che nel silenzio assenso galleggiano come sugheri in balia delle onde convinti che non vi siano differenze tra i due blocchi di potere. Su tutto, aleggia la metafisica neoplatonica del “centro”.

Espulsa una gran parte dell’elettorato, la minuscola minoranza si erge a maggioranza muscolare fino a sostenere senza pudore la menzogna personale definitiva “io rappresento gli italiani”.

La Democrazia con tutti i limiti non oggetto della presente discussione, è svuotata, ridotta a un lacero sacco floscio da riempire alla bisogna con l’aria fritta della demagogia degli imbonitori dei baracconi nelle fiere di paese, dei ciarlatani girovaghi del Far West spacciatori dell’elisir di lunga vita. A questo è svilito il confronto politico dei partiti nel dibattito elettorale: uno spettacolo dominato e condotto da professionisti della propaganda, corifei della menzogna, periti della manipolazione che si esibiscono su copione dove le questioni apparentemente discusse sono decise altrove dalle élite rappresentative – quasi esclusivamente – di precisi interessi economici in totale opposizione alla Res publica, sempre più disumani.

Sono stati versati fiumi d’inchiostro sul problema del rapporto tra democrazia e capitalismo, ora le diverse posizioni teoriche sono tacitate dalla prova dei fatti e l’ago della bilancia non mente, il divorzio nel matrimonio forzato tra sovranità popolare e Capitale è compiuto.

Intanto, il fallimento globale dell’impero allo sbando, ha dato prova di sé con l’incredibile tentativo di insurrezione del 6 gennaio 2021, quando branchi di “trumpiani” hanno preso d’assalto il Campidoglio degli Stati Uniti a Washington. Quello che fino a poco tempo prima sarebbe stato considerato materia per un grottesco b-movie, diventava evidente realtà in diretta mondiale su ogni media. Ma già l’11 settembre la macchina mitologica nordamericana era letteralmente crollata sotto i colpi del micidiale contro-spettacolo messo in atto da Al-Qāʿida, capace di mostrare la vulnerabilità e la fragilità dei “padroni del Mondo”.

Fondati sulla leggenda dei pionieri che costruiscono la nazione delle “opportunità” (American dream), supportati dalla favola del Manifest destiny e imbellettati dalla fantasticheria dell’American way of life, gli Stati Uniti sono un gigantesco ossimoro. Il genocidio dei nativi, l’arricchimento originario realizzato con il lavoro “gratuito” di milioni di schiavi neri, la violenza armata alla base della politica internazionale e una guerra civile dell’altro ieri, brace ardente sotto la cenere, sono la coscienza nera di un impero nelle mani di un’oligarchia sovvenzionata dalle multinazionali, le banche d’affari e la finanza che hanno incatenato il sistema culturale all’impossibilità di dire la verità, ovvero il dover riconoscere e ammettere la catastrofica, irrazionale ideologia della “crescita infinita”, imboccando la via dell’Armageddon.