WIT7!

di Franco Pezzini

Spelsbury (Oxfordshire), agosto 

È metà mattina, sole e aria fresca, e da poco abbiamo lasciato Woodstock – tappa comoda per chi, in viaggio da queste parti, voglia concedersi una sosta notturna senza entrare nel traffico di Oxford. Ma una deviazione verso Spelsbury merita le poche miglia: e non tanto per il villaggio, poche case attorno a una strada, in un angolo della campagna dove va a votare il premier Cameron e ha residenza Ben Kingsley. La nostra meta è la chiesa parrocchiale in fondo alla via, un edificio di origini normanne votato a Tutti i Santi, non diverso da tanti altri e con il classico, piccolo cimitero all’intorno. Dove solo il visitatore curioso può farsi qualche domanda a proposito di un’ingombrante struttura in pietra che emerge tra le lapidi su un lato della chiesa: un parallelepipedo irregolare coronato da una cornice e che richiama un sepolcro, ma senza iscrizioni apparenti e attaccato dalla vegetazione.

Anche l’interno della chiesa, silenzioso e bianco, complessivamente sobrio, non colpisce il viaggiatore da guida turistica. Ma quel che cerchiamo è inquadrato su un muro.

Torniamo indietro a “over a quarter of a century ago”, come recita la didascalia. Quando cioè l’allora vicario di Spelsbury, a seguito di voci ricorrenti da secoli nella zona a proposito di un tesoro in una tomba della chiesa, fa aprire dopo secoli la cripta – che sta appunto sotto lo scatolone di pietra all’esterno. Di tesori in senso proprio non ci sono tracce, ma ai visitatori appaiono tre sepolcri, uno più piccolo degli altri: e le targhe (due di metallo, una di pietra) raccontano chi vi riposi. Una piccola urna rinvenuta all’interno rilascia anzi, all’apertura a distanza di più di tre secoli, il forte odore delle erbe che avevano impacchettato i visceri rimossi.

Ora la cripta è nuovamente chiusa, ma la storia dello scavo e qualche foto sono inquadrate sulla parete; e poco più in là un’altra cornice espone in memoriam tre targhe metalliche coi nomi di un uomo, della sua compagna e del figlio bambino. L’uomo è John Wilmot secondo conte di Rochester, l’Oscar Wilde della Restaurazione, il libertino per antonomasia, nonché uno dei più brillanti poeti del Seicento inglese: e se a riportarne in auge la memoria a livello collettivo è stata un’opera teatrale, The Libertine di Stephen Jeffreys (1994) e soprattutto l’omonimo, apprezzabile film derivatone di Laurence Dunmore (2004) – con Johnny Depp per protagonista, John Malkovich col naso finto nei panni di Carlo II e tanta nebbia e fango – l’uomo Wilmot e la sua opera meritano da soli il ricordo.

John nasce nel 1647 qui nell’Oxfordshire, nella sontuosa Ditchley House, il giorno primo d’aprile – quasi a preannunciare le sorprese che disseminerà sul cammino dei contemporanei. Il padre, il visconte Henry, si guadagna patente di campione della monarchia e titolo di conte di Rochester organizzando la fuga di Carlo II dopo la rotta di Worcester contro i Parlamentari di Cromwell (1651), e condividendone l’esilio: e il fatto che il papà eroe, che morirà in Olanda all’alba di un ennesimo tentativo di rivalsa monarchica (1658), già goda solida fama di bevitore predispone naturalmente il futuro del figlio alle imprese etiliche. Tanto più per reazione all’altro fronte, visto che la madre Anne St. John custodisce una formazione puritana.

Se tra gli studenti di Oxford, in margine alle lezioni, il giovane conte può imbattersi in discipline ben più sfiziose di quelle conosciute sotto il controllo della mamma, al ritorno della monarchia nel 1660 giungono a emanciparlo definitivamente una pensione annua e il Grand Tour (lunghetto, dalla fine del ‘61 al ‘64) a spese del riconoscente Carlo. Quell’immersione prolungata e vorace nel mondo intellettuale del Continente, soprattutto in Francia, e lo stesso clima di rilassatezza di costumi trovato al rientro in Inghilterra – dove l’euforia per la fine dell’autoritario regime puritano è cavalcata dal re a rinsaldare il paese – aprono così le porte al mito di Wilmot.

Presentato a corte il giorno di Natale 1664, già l’anno dopo il nostro pensa bene di rapire e, pare, violentare l’avvenente ereditiera Elizabeth Malet che l’aveva rifiutato (ben interpretata nel film da Rosamund Pike). Se i parenti di lei non vogliono sentire ragioni, il fatto che il re già vedesse bene quel matrimonio dello squattrinato pupillo (aveva parlato addirittura per lui all’interessata) e l’appoggio recato all’operazione dalla stessa mamma puritana avvolgono il tutto in un clima vischioso: John finisce per tre settimane nella Torre, da cui esce dopo un non troppo oneroso atto di contrizione a Carlo.

Non banalizziamo però la figura di Elizabeth, “the great beauty and fortune of the North”, come la definisce Samuel Pepys in un resoconto del rapimento. Questa donna incantevole e colta che più avanti fugge con John sposandolo contro la volontà paterna (1667), compone con lui testi lirici tra le stanze del quieto manor di Adderbury e sopporta tutte le sue infedeltà, continuerà ad amarlo fino alla fine – e lui, nel suo modo equivoco, la ricambia sinceramente. Con attenzioni niente affatto scontate per l’epoca – come il rifiuto di intaccare le ricchezze della moglie per i propri comodi, testimoniato dall’epistolario – e una tenerezza per lei, i figli, la madre puritana, che stride con la maschera cinica appiccicatagli addosso. Di questo groviglio di contraddizioni, ambiguità e pessimismo sulla natura umana sarà emblematica espressione la produzione lirica di John, con versi come: “Dunque non mi parlare d’incostanza, / Di cuori falsi e voti infranti; / Se per miracolo posso esserti, / Questo lunghissimo minuto, fedele, / È quanto il cielo consente”. Elizabeth morirà un anno dopo di lui per apoplessia, ed è sua la cassa trovata accanto a quella del marito.

John_Wilmot,_2nd_Earl_of_RochesterVa detto che dopo la scarcerazione John si è rifatto un’immagine combattendo da eroe nella Seconda guerra anglo-olandese e guadagnandosi una buona pensione oltre alla nomina a Gentiluomo da Camera (in pratica chi assiste la vestizione del re, facendogli da guardia del corpo e uomo di compagnia). Nei fatti, più che come amico, il sempre riconoscente Carlo vede John come un fratellino scavezzacollo o un figlio, con una tolleranza per le sue sbandate che sembra pencolare tra sopportazione ammirata e stupita delusione. Con una speciale licenza per l’età troppo giovane del pupillo, l’anno stesso del matrimonio con Elizabeth il re lo fa entrare addirittura alla Camera dei Lord.

I ritratti che disponiamo di John ci mostrano un giovane gentiluomo elegante dall’aria tra svagato e birichino. Quello ammiccante e lievemente malizioso dipinto da Sir Peter Lely può giustificare anche nei tratti la scelta di Johnny Depp per il film; mentre in altri il viso pare più lungo e pallido e il tipo fisico più chiaro – magari con l’occhio sinistro un po’ più chiuso, come un occhiolino d’intesa mentre beffardamente corona d’alloro una scimmietta. Sappiamo dalle testimonianze che John è magro e alto (probabilmente più di Depp – anche se una valutazione è difficile a fronte di stature medie d’epoca complessivamente minori delle odierne), e appare molto attraente.

La pur bella e intelligente Elizabeth, come detto, non basta a placare gli ardori del consorte. Viene la tentazione di leggere come rivolti a lei i versi di una canzone di John, insieme marpioni e paradossalmente sinceri:

 

“[…] Dalle tue braccia, cara, lascia dunque ch’io fugga,

Ché il mio animo irrequieto possa sperimentare

I tormenti che merita, poiché strappa

Il mio cuore ben saldo dal mio amore.

 

Quando stanco di un mondo di dolori

Mi ritrarrò dal porto del tuo seno,

Dove amore, pace e verità fluiscono,

Possa io spirarvi contento.

 

A meno che ancora una volta, errando lontano da quel paradiso,

Io non m’imbatta in qualche cuore vile e miserabile,

E a te fedifrago, falso, imperdonato,

Così perda il mio riposo imperituro.”

 

Mentre è sicuramente rivolto a Elizabeth l’Impromptu (alla sua signora, che aveva mandato un servo a chiedere notizie, assai preoccupata per il suo lungo silenzio) che termina: “Con gamba molle e lingua zuccherina, / Ammainando le brache al bel didietro vostro, / Pur di mostrarmi in tutto quel che posso / Vostro fedele umile servo, / John” – a suggerire una certa vivacità anche nel dialogo di coppia.

E ad affascinarlo sono soprattutto le attrici, partecipi di quella magia del teatro che John vivrà con furiosa passione. Prima quella Nell Gwyn, grandiosa attrice comica, che diverrà amante del re continuando a proteggere l’amico libertino; poi la diva Elizabeth Barry (Samantha Morton nel film) che si dice acquisisca vera capacità di recitazione grazie a lezioni del Nostro – ma la fonte è discussa – e che comunque gli donerà una figlia. A separarli dopo cinque anni sarà il successo di lei, che il pigmalione non sente più soltanto sua, e che congederà un po’ acidamente coi versi: “Live up to thy might mind / And be the mistress of mankind”.

Nel frattempo si è cacciato in una serie di altri guai. Nel clima sensuale e disordinato di un paese che esorcizza il passato grigiore puritano e cerca di non pensare alle proprie grane interne e internazionali (grane serie, come la grande peste, l’incendio di Londra e i conflitti con l’Olanda) i Court Wits che attorniano il re fanno scintillare per l’ultima volta il sogno di una corte di letterati eccellenti – dove l’intraducibile wit evoca spirito e intelligenza, arguzia e ingegno. Fioriscono canzoni d’amore fredde e maliziose, fiorisce la satira: e di questa nuova era il conte di Rochester è quasi l’incarnazione, assurgendo a modello di personaggi teatrali e spiccando come il più selvaggio nella Merry Gang della corte – il gruppo di allegroni che dal 1665 e per una quindicina d’anni raccoglie aristocratici e uomini di penna tra sbornie, burle e brillanti conversazioni. Tutte attività nelle quali John spicca per eccessi, vivendo come a folle velocità e interpretando la condizione sociale di cortigiano in modo inquieto, svagato e ribelle. Si guadagna un primo bando dalla corte (per un cazzotto sferrato al real cospetto contro un altro cortigiano) già nel 1669: presto Carlo lo richiama, ma gli anni successivi vedono vari altri allontanamenti forzati – in particolare per le satire sulle spese facili e le ossessioni sessuali del re.

In genere l’esilio significa semplicemente un confino nella casa di campagna, dove John può dedicarsi alla scrittura e forse dar requie al fisico; mentre quando torna libero e rimette piede tra corte e teatri, tra amanti di ambo i sessi (“Voglio mutare amante finché muoio / Ed il destino me muterà in vermi”) e spesso sbronzo – continuativamente per cinque anni, ammetterà lui stesso – ripiomba fatalmente negli atti più irresponsabili. “Gli narrerò di puttane, dei loro signori assaliti nelle case, / Di quartieri di ruffiane sconvolti, di fortezze espugnate; / Di finestre sfondate, di guardiani soverchiati, / E di bei misfatti operati di mia mano”: un siparietto da una lirica che suggerisce la turbolenza del Nostro, ma insieme una dimensione di racconto che ingigantisce di voce in voce – e parecchi episodi narrati a suo carico verranno in effetti dimostrati falsi.

John scrive: e quelle pagine poi alla deriva di edizioni miscellanee dove non è sempre chiaro cosa venga dalla sua penna, dove i componimenti sono spesso rubricati “A Song” in distratta mancanza di altri titoli (del resto non scrive per pubblicare), dove scrittura e vita d’eccessi si compenetrano, appaiono in realtà un levigato zibaldone di lucidità critica e disincanto, ironia tagliente e ombre di depressione – che sarebbe semplicistico ricondurre ai giorni del crepuscolo del viveur alla deriva di malattia e impotenza. Nelle poesie di John risuona il lamento per l’eccessivo riserbo di qualche dama, o il consiglio di essere più gentile a fronte dell’incalzare dell’età; l’esortazione alla tolleranza delle debolezze (“Tu devi ammettere la bottiglia come rivale, / Io tollererò come rivale il vagheggino”) e la malinconia per la condizione esistenziale di uomo e donna (“Ma noi, poveri schiavi di speranza e paura, / non siamo mai sicuri delle nostre gioie”), laddove prima della Caduta “Ogni membro obbediva al voler loro, / Né potrebbe concepirsi piacere più alto”. Vi troviamo la rabbia per qualche delusione: “Addio, donna, io ho intenzione / D’ora innanzi di stare ogni sera / Col mio corrotto buon amico / A bere per aguzzare l’ingegno”; ma anche l’estasi in realtà piena d’ironia: “Ribelle fino ad ora, le armi getto, / O grande Amore: ho appena visto gli smaglianti vezzi di Olinda; / Reso sicuro e ardito da tali forze, / Ora potrai tiranneggiare come ti piace”. Il tutto con una vivacità di rime che la pur magistrale traduzione di Masolino D’Amico, curatore dell’edizione italiana per Einaudi (Rochester, Poesie e satire, edita nel 1968 e poi riproposta nel 2005, a cui mi rifaccio per le citazioni) non riesce purtroppo a conservare. Mentre le stesse lettere di John, considerate tra le migliori del periodo per la limpidezza della prosa, mostrano come egli viva in modo perplesso e talora sofferto le proprie contraddizioni.

Su un altro fronte è proprio lui a introdurre in Inghilterra un modello oraziano di satira – sia pur rivisto in senso acre e decadente – che attecchirà con successo. Ne sono mira i nobili di corte (John è anzi pronto a piazzare spie in giro per nutrire i propri versi di novità salaci) o il semplice chierico di campagna che canta male, le indulgenze di Roma (nell’Italia papista il Nostro era stato a lungo nel corso del Grand Tour), i colleghi di penna e persino l’intera umanità – per non parlare del re, che qualche volta mostrerà di non gradire. I versi di John riescono a suonare di brillante oscenità: testi come The Imperfect Enjoyment, dove il protagonista se la prende col proprio attributo che gli ha giocato un brutto tiro (sul tema, più lieve e amaro, si veda anche il componimento The Maim’d Debauchee, Il vizioso fuori uso) o il divertente Signior Dildo (con l’inizio che è tutto un programma: “You Ladyes all of Merry England / Who have been to kisse the Dutchesse’s hand, / Pray did you lately observe in the Show / A Noble Italian call’d Signior Dildo?”) sono anzitutto fuochi d’artificio di fantasia. Mentre resta il silenzio sulla quantità di componimenti fatti distruggere nei suoi ultimi giorni o dopo la morte perché giudicati osceni o inopportuni.

Notevoli sono poi le sue traduzioni di classici; e notevole è anche la produzione teatrale, dove John lavora soprattutto per adattare opere precedenti o arricchirne le scene. Discussa è invece la paternità wilmottiana dello scabroso Sodom, or the Quintessence of Debauchery (al di là di quanto appare nel film con Depp, che ovviamente romanza i fatti mostrandone l’allestimento e il profluvio di falli), satira feroce della corte di Carlo II e della sua tolleranza per i cattolici nel linguaggio del closet drama – dunque da leggere o al massimo rappresentare in piccoli gruppi, non a teatro.

Nel ’74 John strapperà il titolo di Guardiano di Woodstock Park, ma i nuovi forzati abbandoni della corte nei due anni seguenti consolideranno definitivamente una fama di cattivo soggetto. Tanto più considerando che se l’allontanamento del giugno 1675 è causato da una stupidaggine, per quanto spiacevole (la distruzione, spinto dall’alcool, di una specie di meridiana del re, un apparecchio rarissimo), l’episodio del ‘76 si lega a una tragedia: nel corso di un tafferuglio con la ronda a tarda notte, provocato probabilmente dallo stesso John, un amico muore e lui si defila. Probabilmente è per l’ennesima volta sbronzo e ha reagito d’impulso, ma la vicenda lo mette in pessima luce – e insomma è di nuovo bandito. 

Normalmente, come detto, il confino significa campagna. Ma almeno in un caso – collocato dalle biografie in momenti diversi – John si riserva una divertita variazione di copione. È appena andato nei guai per una satira particolarmente birichina sul re, che inizia allegra “Nell’isola di Gran Bretagna, da tempo rinomata / Per aver allevato il miglior gonzo della Cristianità” e dopo una serie di riferimenti piuttosto pepati alla vita sessuale del sovrano termina considerando la fatica necessaria alla regia amante con “hands, fingers, lips and thighs” per conseguire finalmente il risultato – e insomma è arrivato il solito bando da corte. Cosa fa allora il nostro? Abbastanza incredibilmente non si ritira nell’ombra come tutti si aspetterebbero, ma – con una faccia tosta che ha del pirotecnico – assume identità di tale “Dottor Alexander Bendo”, presunto ginecologo e specialista in cure dell’infertilità, e prende a praticare con gran pubblicità nella City. Non senza un certo successo, pare, e forse mettendoci del suo; ma almeno in un’occasione assume anche identità femminile camuffandosi da Signora Bendo, il che permette più agevoli esami ravvicinati alle pazienti.

Se, nonostante tutto, John riesce sempre a cavarsela, alla fine è il fisico a cedere. Che si tratti dei reni devastati dal morbo di Bright o piuttosto, dato il tipo di vita, di un combinato disposto di affezioni veneree e sfascio del fegato distrutto dall’alcool, colui che per i pii puritani aveva incarnato i peggiori peccati dell’epoca muore a trentatré anni come Gesù il 26 luglio 1680. Sul fatto che il libertino che ha dedicato una lirica al Nulla (“Fratello maggiore persino dell’ombra, / Tu avevi un’esistenza prima che il mondo fosse fatto, / E, ben saldo, sei il solo a non temere la fine”) davvero si converta negli ultimi giorni, come proclamato trionfalisticamente in un profluvio di scritti devoti, sono stati di recente avanzati dubbi. Qualcuno pensa che le conversazioni avviate a partire dall’inverno 1679 con l’erudito e futuro vescovo Gilbert Burnet, povere di dogmi e piene di concretezza britannica, abbiano illuminato John sull’irragionevolezza naturale di una vita di eccessi; altri hanno sostenuto che a conquistare quest’uomo “stanco di un mondo di dolori” come nei suoi antichi versi – nel film la sifilide gli ha consumato il naso e sfondato il corpo – sia stato piuttosto un Dio sofferente, che non parla il linguaggio delle pie lottizzazioni; Andrea Carlo Cappi associa la conversione a un contesto generale di estorsione e tradimento ai danni del libertino (Rochester, Felici Editore, 2012) – mentre altri negano tutto, attribuendo le voci alla volontà di Burnet di autopromuoversi, o di salvare la nomea della famiglia del grande peccatore. Se una certezza assoluta non l’avremo mai, è però vero che tra sesso e bevute John non ha mai messo da parte le sfide della trascendenza, confrontandosi con pensatori e teologi; e la sua stessa propensione a spiazzare tutti può avere avuto, chissà, qualche ruolo in una scelta tanto inattesa.

Qualunque sia la verità, il secondo conte di Rochester si spegne in silenzio una mattina presto, per essere poi tumulato poco distante a Spelsbury. Come detto, Elizabeth lo seguirà poco più di un anno dopo, il 20 agosto 1681, e a ruota il figlio bambino Charles morirà il 12 novembre di quello stesso anno: è sua la bara più piccola della cripta. Sopravvivranno tre figlie femmine.

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In parallelo al Wilmot pentito dei predicatori, subito dopo la morte trionfa però il Wilmot bricconcello degli editori – nello specifico gli anonimi che con un volume di sessantun testi spesso hard poi spesso ristampato confondevano le acque mischiando componimenti suoi e di altri. Una complessa storia critica permette oggi di attribuire al Libertino, da un originario bacino di circa duecentocinquanta attribuzioni, un numero tra ottantasei e cinquanta testi.

Proclamato a suo tempo come il miglior poeta satirico d’Inghilterra e in seguito considerato per esempio da Voltaire uomo di genio e grande poeta – reputazione poi recuperata a partire degli anni Venti del Novecento – John Wilmot conosce però un lungo periodo di svalutazione. A partire da metà del Settecento, con l’ormai avvenuto mutamento di costumi, il riconoscimento per l’eleganza dei suoi versi si accompagna a un giudizio pesante sull’uomo; e l’età vittoriana completerà l’opera, rifiutandogli ogni perdono per la vita scellerata e i versi osceni (peraltro, a volte, attribuitigli a torto).

La fama di codardia “di ritorno” – gli stravizi l’avrebbero allontanato dal coraggio di un tempo – gli verrà per aver reso impossibile il duello cui l’aveva futilmente sfidato il conte di Mulgrave: ma l’immagine del Nostro che fa andare in palla l’avversario con un fitto gioco di complicazioni procedurali è per noi piuttosto un titolo di merito. Mentre l’accusa (ottocentesca) di aver fatto biecamente bastonare il poeta Dryden in una notte di dicembre del 1679, benché ancora saltuariamente ripetuta da qualche malinformato, già da parecchio tempo si è dimostrata infondata. Ma per i vittoriani il lascivo Rochester è l’uomo che aggredisce o, peggio, fa aggredire con mosse vili in agguati notturni: ed è in tale veste che fa la sua comparsa in un romanzo fantastico – cioè al termine del diluviale Varney the Vampyre; or, The Feast of Blood apparso tra il 1845 e il 1847 in fascicoli settimanali, i cosiddetti penny dreadful, e subito dopo ristampato in edizione in tre volumi. Una formula, la pubblicazione in trittico, riproposta anche recentemente nella colossale impresa di traduzione del romanzo in forma integrale per la Gargoyle Books dell’era-De Crescenzo: dove il terzo volume, come nell’edizione ottocentesca, stacca marcatamente dagli altri due.

Se la storia descritta nel primo volume del Varney risponde alle logiche di un gotico popolarissimo e il secondo la continua con anche più robuste dosi di commedia (per un esame panoramico sul dittico cfr. qui), i fatti si svolgono in un territorio circoscritto dell’Inghilterra rurale, con personaggi sostanzialmente stanziali. Il terzo volume conosce invece un’improvvisa variazione di clima: spariscono i “buoni” che avevamo conosciuto, Varney inizia a viaggiare forsennatamente, il ritmo è più frantumato e picaresco – evidentemente una scelta degli anonimi autori (tra i quali almeno Thomas Preskett Prest e James Malcolm Rymer), o piuttosto del pragmatico editore Edward Lloyd per un rinnovamento della trama. Ed è in questo contesto che, alla fine del romanzo, la strada del vampiro incrocia quella di un altro libertino eccellente, appunto il nostro John.

Apprendiamo la storia da un memoriale dello stesso Varney. Tornato in vita all’epoca della Restaurazione (come il Ruthven di Polidori, anche Varney ogni tanto muore per poi riaprire gli occhi) e trovandosi a Londra nei pressi del palazzo reale, il vampiro si imbatte casualmente in due gentiluomini che escono alla chetichella da una porticina. Sono naturalmente re Carlo e Rochester diretti verso avventure galanti a Pimlico, e Varney curioso si mette a seguirli. Rimorchiate due dame, il re e il suo compare – naturalmente sotto falsa identità – si fanno belli di condurle nei giardini di Saint James a Buckingham Palace, e Varney continua a pedinarli fino a un padiglione il cui interno riesce comunque a occhieggiare. Mentre i due seduttori si danno da fare per spingere le compagne a bere, Varney può così dettagliare i singoli volti – ed è interessante notare la trasformazione di John. Qui definito “decisamente brutto. Il viso era piuttosto schiacciato, di un colorito bianco sporco. Sicuramente non era destinato a conquistare i favori di una donna. Ma, a quanto ne sapevo, sembrava essere dotato di una loquela in grado di soggiogare un angelo del Paradiso” (Thomas Preskett Prest, James Malcolm Rymer, Varney il vampiro. All’ombra del Vesuvio, Gargoyle Books 2010, pag. 587): una trasformazione resa possibile, oltre che forse dalla mancata conoscenza di ritratti di Rochester da parte dell’autore, certo dal pregiudizio negativo covato nei suoi confronti. Viene anzi da chiedersi se, in termini più specifici, lo sporco biancore del volto del vilain non cifri pudicamente gli effetti dei mali venerei da cui è notoriamente affetto – e che costituiscono una delle grandi paure dell’età vittoriana.

Se può essere casuale che parte della vicenda del secondo volume del Varney si svolga nel villaggio (immaginario) di Anderbury mentre la villa dei conti di Rochester sorge ad Adderbury nell’Oxfordshire, è almeno legittimo domandarsi se l’associazione possa aver stimolato a posteriori la fantasia dell’autore nell’evocare il nome di John. Ma in fondo non ce n’è bisogno: vampiri e libertini, come detto, sono ormai giudicati appartenere a un’unica categoria di personaggi equivoci – e nella storia dei libertini il conte di Rochester è il più paradigmatico, quindi quella con Varney è simbolicamente una lotta tra titani.

La situazione è quella descritta, quando a un tratto la più rispettabile e giovane delle due dame, dopo aver offerto resistenza ai tentativi del re di ubriacarla, e cercato invano il soccorso dell’amica, scappa fuori dal padiglione. Finendo tra le braccia di Varney: che però nella confusione, mentre sta cercando di far fuggire la ragazza aggrappatagli addosso, viene abbattuto dalla pallottola di una delle guardie. “In seguito scoprii che questa era stata la mia seconda morte e che il favorito, Rochester, aveva effettivamente dato istruzioni che mi sparassero pur di non lasciarmi fuggire, perché temeva più del monarca che i suoi vizi venissero rivelati. In una situazione analoga, non credo che – se si fosse trovato lì vicino – Carlo mi avrebbe fatto uccidere, anche se è difficile sapere che cosa facciano o non facciano i sovrani, quando sono contrariati” (ivi, pag. 589): e con queste parole di disincantato buon senso sulle reazioni del gestori del potere terminano insieme il manoscritto di Varney e il capitolo 236 dell’opera. L’ottimo ecclesiastico signor Bevan che stava leggendo il memoriale resta perplesso, ma siamo ormai al capitolo 237, cioè l’ultimo; e una settimana più tardi il pio confidente del vampiro ne viene a conoscere da un giornale il suicidio, nella bocca del Vesuvio. Per il vilain Rochester, insomma, non c’è più spazio per comparire in scena – ma si tratta, ripetiamolo, del Rochester del mito vittoriano. E a farne giustizia non sarà Varney ma la critica.

Per incontrare il vero John possiamo invece venire qui, nel silenzio di Spelsbury. Ma anche ora che conserva il suo “lunghissimo minuto” di fedeltà, forse non gli dispiace che, brandito il volume, ritmiamo i versi delle sue poesie birichine. Versandoci da bere, perché:

 

“Shou’d some brave youth (worth being drunk) prove nice,

And from his fair inviter meanly shrink,

Twould please the ghost of my departed vice,

If, at my counsel, he repent and drink.”