di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

È stato detto che dal momento in cui il calcio ha incontrato la radio e, soprattutto, la televisione, questo si è per certi versi trasformato, come (e forse più) più di altri sport, in «un genere drammatico». Di quanto e come la rappresentazione televisiva abbia modificato il gioco del calcio e la sua fruizione si occupa il saggio di Giorgio Simonelli, Quasi gol. Storia sentimentale del calcio in tv (Manni Editori, 2024). Il volume ripercorre il rapporto tra calcio e televisione operando una suddivisione per blocchi temporali segnati da svolte dettate da innovazioni tecnologiche, cambiamenti culturali e di costume, oltre che da scelte economiche e politico-sportive.

A far incontrare nel 1936 il calcio con la televisione sono la Germania, all’interno delle 138 ore di copertura delle Olimpiadi berlinesi, e la Gran Bretagna con la trasmissione dell’incontro Arsenal-Leicester. Quella delle tv degli anni Trenta, sottolinea Simonelli, può dirsi però una «falsa partenza», presto soffocata dal secondo conflitto mondiale. Lo spazio concesso dalla televisione pubblica britannica al calcio alla ripresa postbellica deriva in parte dalla necessità tecnologica della televisione degli anni Quaranta e Cinquanta di tramettere sostanzialmente in diretta non potendo avvalersi di sistemi di registrazione se non ricorrendo alle tecnologie cinematografiche richiedenti tempi di produzione lunghi.

In ambito italiano la prima trasmissione di una partita calcio (Juventus-Milan) si ha nel febbraio del 1950, in via del tutto sperimentale, quando ancora l’emittente non ha iniziato a trasmettere con regolarità. In questa fase embrionale il rapporto della televisione italiana con il calcio secondo lo studioso è dettato tanto dalla volontà di consolidare l’identità nazionale, non a caso ad essere trasmesse sono soprattutto le partite della nazionale, quanto dall’esigenza di ampliare lo sguardo a livello internazionale grazie al confronto degli azzurri, e successivamente delle squadre di club impegnate nelle coppe europee, con le formazioni dei paesi stranieri. Durante questa fase pionieristica la programmazione del calcio nella televisione italiana ha carattere di eccezionalità, non avendo ancora uno spazio fisso e regolare nel palinsesto.

Il racconto delle vicende settimanali del campionato italiano è affidato alla radio e alla carta stampata mentre la televisione è alle prese con i suoi limiti tecnici dettati dal fatto che le registrazioni sono ancora su pellicola. Per qualche tempo i servizi calcistici coprono esclusivamente le partite giocate nelle vicinanze delle sedi milanese e romana della Rai, ove vengono consegnate le pellicole che poi devono essere sviluppate, sezionate e montate in tempo utile per ottenere i servizi da mandare in onda alla Domenica Sportiva, la più antica rubrica della tv italiana. I sevizi riguardanti le restanti partite devono attendere la trasmissione Telesport del lunedì sera.

L’avvento dell’RVM (Registrazione Video Metagenetica) alla fine degli anni Cinquanta contribuisce in maniera fondamentale a togliere al calcio televisivo il carattere di eccezionalità assegnandogli uno spazio fisso all’interno del palinsesto, tanto da prevedere la trasmissione domenicale di un tempo di una partita di calcio. Grazie alle nuove tecnologie di registrazione cambia anche la Domenica Sportiva che anziché limitarsi a mostrare i servizi di alcune partite, diviene una trasmissione con un conduttore (Enzo Tortora) che presenta, commenta e intervista i protagonisti degli eventi sportivi alla presenza di un pubblico.

Simonelli sottolinea anche come in questo periodo il grande interesse suscitato dalle dirette delle partite di coppa dei club italiani non detti il palinsesto che invece obbedisce a un progetto pedagogico che intende mantenere un certo equilibrio tra i contenuti offerti dal servizio pubblico televisivo. Allo spirito pedagogico appartiene anche la decisione di mandare in onda negli anni Sessanta una trasmissione volta a insegnare ai giovani telespettatori i fondamentali della tecnica calcistica come Lezioni di gioco del calcio tenuta da Silvio Piola e Giovanni Ferrari.

L’entrata in scena della moviola nel 1967, poi entrata a far parte della Domenica Sportiva a partire dal 1970, cambia il calcio in tv. «Il ruolo che la Rai affida alla tecnologia è soprattutto spettacolare, motivo di celebrazione dell’occhio infallibile della telecamera, spunto per discussioni che cominciano in studio e proseguono nei bar, sui giornali, momento atteso e popolarissimo tra i telespettatori, tanto che moviola diventa un termine usato come iperbole, metafora, metonimia» (pp. 53-54).

Il 1970 è anche l’anno in cui prende vita 90° minuto di Maurizio Barendson, Paolo Valenti e Remo Pascucci e l’anno di Italia Germania 4-3 ai mondiali messicani. Per quanto riguarda la nuova trasmissione Simonelli sottolinea come questa contribuisca a dare visibilità alle squadre provinciali attraverso giornalisti che, nel giro di poco tempo, ne diventano per certi versi portavoce.

Alcuni sono sobri e professionali, altri invece più confidenziali e originali sia nel look che negli atteggiamenti e per questo vengono criticati ma diventano popolari, il loro linguaggio spicca, la loro breve introduzione è un appuntamento atteso e gustato. 90° minuto non è più solo un programma di informazione calcistica, ma un rito domenicale non privo di una certa teatralità. Ma soprattutto, con la sua formula che consente di passare nel giro di pochi minuti da Genova a Vicenza, da Cesena a Catanzaro, trasforma il campionato di calcio e la sua rappresentazione televisiva in una manifestazione della compattezza del tessuto culturale del paese (pp. 57-58).

Circa i motivi per cui la famosa partita dei mondiali messicani è entrata nella leggenda, oltre all’avvincente andamento altalenante della partita e la presenza del replay immediato delle azioni più spettacolari, vi è chi vi ha visto un momento di rinnovata unità nazionale dopo le fratture dell’autunno caldo e chi hanno messo in luce l’eterogeneità delle squadre di provenienza della formazione azzurra. Simonelli vi aggiunge l’abbattimento del «tabù della notte»; la decisione della Rai di mandare in diretta l’evento nonostante l’orario in notturna.

A cambiare la narrazione del calcio in tv contribuisce il debutto televisivo di Dribbling nel 1973 «un magazine settimanale nato attorno a un gruppo di giornalisti, come Barendson o Minà, desiderosi di trattare il calcio con uno sguardo più ampio, che propone inchieste, interviste agli atleti in grado di andare molto più in profondità e in ampiezza rispetto alla semplice cronaca» (p. 70).

Tra gli altri momenti di svolta importanti per il calcio televisivo l’autore ricorda l’avvento del colore, che contribuisce alla spettacolarizzazione delle partite, e la concorrenza portata alla Rai dalle emittenti della Svizzera e di Capodistria che, per certi versi, anticipano problematiche che si dispiegheranno con l’avvento dei canali radiofonici e televisivi locali (che offriranno copertura capillare alle piccole squadre di provincia), dunque con l’avvento delle televisioni commerciali nazionali che, a livello sportivo a partire dai diritti del Mundialito del 1980, cambieranno l’universo televisivo italiano avviato a quella che Umberto Eco ha definito l’avvento della neotelevisione. Dal punto di vista del calcio in tv le emittenti private introducono «una telecronaca esuberante, gridata, appassionata, ricca di iperboli, di iterazioni, di linguaggi spregiudicati» (pp. 84-85), presto destinata a farsi egemone. Altra novità è data dai programmi che nelle diverse emittenti offrono una narrazione delle partite attraverso ospiti che le osservano in bassa frequenza.

Con gli anni Ottanta si entra nell’era segnata dalla contesa dei diritti televisivi ed un cambio di indirizzo all’interno del servizio pubblico televisivo che abbandona quello spirito pedagogico che lo aveva a lungo contraddistinto facendo prevalere le ragioni dell’audience, come attesta, simbolicamente, la cancellazione dalla programmazione di un evento culturale su uno dei canali Rai (la seconda parte di Fanny e Alexander di Ingmar Bergman) per non intralciare la trasmissione sul canale principale della finale di Coppa dei Campioni Roma-Liverpool nel maggio del 1984. Simonelli pone l’accento anche sul ruolo giocato dall’esultanza popolare del Presidente Pertini mostrata dalla tv nel corso della finale dei Mondiali spagnoli del 1982 vinta dall’Italia nel conferire al calcio un ruolo trasversale capace di infrangere distinzioni di sesso, di classe e di cultura.

Dopo anni in cui era considerato un tipico esempio della cultura di massa, una delle armi di distrazione che la società capitalistica metteva in campo e in cui gli uomini di cultura che nutrivano e confessavano quella strana passione erano un’assoluta eccezione, all’improvviso il calcio godeva di interesse e simpatia da parte del mondo intellettuale: scrittori, artisti, politici, attori si rivelavano appassionati e accaniti tifosi, persino con una punta di snobismo nei confronti di chi non condivideva la loro passione (pp. 90-91).

Ad un calcio sempre più orientato a divenire uno «spettacolo generalista» da prima serata televisiva si rendono necessari nuovi interpreti. A tale esigenza rispondono tanto la riapertura delle frontiere ai calciatori stranieri, bloccate in seguito all’insuccesso della nazionale nel 1966, quanto l’adozione di una narrazione televisiva adeguata alla svolta votata alla spettacolarizzazione dell’evento calcistico. Le riprese televisive abbandonano «l’atteggiamento referenziale per cui la televisione era semplice testimone dell’evento che doveva trasferire al destinatario senza alterarne le caratteristiche ma una dimensione rielaborativa, di decostruzione e ricostruzione dell’oggetto, una costante scelta di spettacolarizzazione in senso televisivo» (p. 94). La fruizione televisiva si è fatta sempre più autoreferenziale ed ubiqua allontanandosi dalla visione dal vivo della partita, mentre il commento verbale, anche nel servizio pubblico, ha abbandonato il tradizionale tono compassato in favore di un linguaggio più esuberante, passionale, ricco di metafore, iperboli e formule proprie dei diversi giornalisti. A spingere sulla spettacolarizzazione dell’evento calcistico, ricorda Simonelli, sono anche alcune modifiche al regolamento come ad esempio il ricorso ai calci di rigore in caso di parità nelle partite a eliminazione, al posto della ripetizione della gara o del sorteggio, il divieto di passaggio con i piedi al proprio portiere, l’introduzione dei tre punti per le vittorie così da incentivare le squadre a non accontentarsi del pareggio. Inoltre, mal conciliandosi il calcio televisivo con i tempi morti, viene incentivata la ripresa veloce del gioco dai falli laterali grazie alla presenza massiccia di raccattapalle ed i direttori di gara vengono spronati a interrompere il gioco il meno possibile. Le stesse società di calcio, sempre più foraggiate dagli introiti televisivi, si adeguano alle esigenze del medium accettando orari di gioco differenziati e spalmati su diverse giornate.

A partire dagli anni Ottanta si sviluppano anche nuove modalità di seguire il calcio in tv; si pensi, ad esempio, al fortunato Processo del Lunedì di Aldo Biscardi che porta in tv a livelli sempre più iperbolici nel corso delle diverse edizioni le modalità sguaiate delle discussioni e delle polemiche da bar ricorrendo a giornalisti che ormai vestono letteralmente i panni dei tifosi schierati a difesa di questa o quella squadra. La trasmissione di Biscardi «affida al talk una dimensione antagonistica, contrappositiva, conflittuale in cui protagonisti appartenenti allo stesso mondo si scontrano su un tema molto preciso» (p. 103), anticipando per certi versi la stagione dei talk show televisivi che si occupano di attualità e politica ricorrendo alle medesime modalità.

Ai margini dei mondiali italiani del 1990 prendono altre trasmissione volte ad affrontare in maniera nuova l’universo del calcio; si pensi alla modalità ironica di Mai dire mondiali del trio di giornalisti noto come Gialappa’s Band, format destinato a prolungarsi nel tempo su Italia 1 nella variante Mai dire gol, oppure alla modalità salottiera introdotta da Galagol su Telemontecarlo, che affianca ai commenti enfatici di José Altafini una conduttrice come Alba Parietti digiuna sino ad allora di calcio. Nel 1993 prende il via la trasmissione Quelli che il calcio di Marino Bartoletti e da Fabio Fazio su Rai 3; in questo caso a informare puntualmente dell’andamento delle partite domenicali di campionato sono semplici tifosi, attorno ai quali il conduttore imbastisce bonari siparietti, che seguono sui monitor gli incontri delle rispettive squadre del cuore. Da tale trasmissione numerose televisioni private deriveranno programmi in cui ad incarnare le diverse tifoserie saranno non semplici sconosciuti ma ex calciatori o giornalisti che in maniera sempre più sguaiata esaspereranno la propria fede calcistica dando vita a iperboliche discussioni. I primi anni Novanta vedono anche la nascita di Pressing su Mediaset, in palese concorrenza con la Domenica Sportiva, di cui ricalca il format introducendo però un conduttore non giornalista, Raimondo Vianello, presto affiancato da Antonella Elia che impersona con «autoironia il ruolo della bionda un po’ svampita» (p. 119), a cui succede dopo quasi un decennio Controcampo che, pur condotto da un giornalista sportivo come Sandro Piccinini, esprime una vocazione teatrale.

Insomma, a partire dagli anni Ottanta il calcio in televisione non ha più quel carattere di eccezionalità che aveva caratterizzato l’incontro dell’evento sportivo con il medium, è diventato, sottolinea Simonelli, «un materiale di consumo come tanti altri, un consumo quotidiano, e ha perso il ruolo più discreto e affascinante di luogo e tempo di celebrazione della festa» (p. 108).

I primi anni Novanta inaugurano anche l’era calcio delle pay tv da Tele+ a Stream fino a Sky e, molto più recentemente Dazn. Se ci si poteva attendere dalle pay tv, rivolte come sono ad un pubblico selezionato di appassionati di calcio, programmi più sobri incentrati sugli eventi di campo forti anche di tecnologie di avanguardia, in realtà man mano si assiste a un sempre più marcato processo di spettacolarizzazione e teatralizzazione. «Nell’ultimo decennio del secolo si afferma un modello di rappresentazione del calcio verso cui convergono tutte le televisioni pubbliche, commerciali, a pagamento, una omogeneità basata su una grammatica, una sintassi e una retorica audiovisive comuni» (pp. 124-125).

Negli ultimi tempi le telecronache si sono fatte sempre più corali visto che, almeno negli incontri più importanti, il telecronista viene affiancato non solo da ex calciatori o ex allenatori a cui viene assegnato il commento tecnico, ma anche da altre voci a bordo campo che concorrono alla narrazione spettacolarizzata dell’evento. La vocazione a guardare al calcio internazionale, presente sin dagli albori del calcio televisivo è ulteriormente ampliata dalle coperture dei campionati stranieri da parte delle pay tv che però, rispetto al passato, non si limitano a mostrare le partite in sé ma allargano la visione alla storia delle società, ai loro stadi e alle tifoserie contribuendo così ad sprovincializzare la visione calcistica dello spettatore italiano. È importante notare, segnala l’autore, come a fronte della frammentazione, del consumo impressionistico ed effimero delle immagini sportive, si siano ultimamente ritagliate visibilità programmi di approfondimento dal taglio documentaristico, volti ad approfondire anche questioni di carattere culturale legate ai personaggi ed agli eventi sportivi. Si pensi ad esempio alle produzioni sviluppate da Sky, con giornalisti come Federico Buffa, Giorgio Porrà, Matteo Marani, o da Dazn, con Emanule Corazzi o, ancora, da altre piattaforme televisive.

Altra novità importante nella storia del rapporto tra calcio e televisione, sottolinea Simonelli, è la copertura totale del fenomeno sportivo, soprattutto calcistico, offerta da canali come Sky Sport 24 in cui l’evento è esteso ben al di là della performance sportiva in sé, contemplando la preparazione, l’attesa, le ipotesi, le analisi, i commenti trasmessi in una sorta di loop man mano aggiornato lungo l’intera giornata e settimana. Infine, a sancire quanto il rapporto tra calcio e televisione si sia fatto inestricabile, non si può che far riferimento all’introduzione del VAR sul finire degli anni Dieci del nuovo millennio. «L’immagine televisiva non è più solo il testimone maggiormente attendibile di ciò che è avvenuto in campo, capace di ristabilire la verità in astratto, ma un concreto attore dell’avvenimento agonistico, un “quinto uomo” che assiste i quattro giudici con potere decisionale, un’immagine che scende in campo» (pp. 149-150).

La conclusione di questo interessante volume di Simonelli sul rapporto tra calcio e televisione è dedicata a un episodio che stride rispetto all’invadenza dei un medium che ha preteso persino di entrare negli spogliatoi pochi minuti prima del calcio di inizio. Il riferimento è a quanto accaduto a Copenaghen durante la partita Finlandia-Danimarca, quando danese Eriksen è restato al suolo in arresto cardiaco e il capitano della squadra Kjaer fa prontamente schierare i compagni attorno all’attaccante a cui i sanitari praticano il massaggio cardiaco preservandolo dagli occhi delle televisione. Con quel gesto spontaneo Kjaer ribalta il rapporto comunicativo. «A scegliere la disposizione dell’inquadratura, a decidere cosa mostrare e cosa no, non è la regia ma un protagonista, un calciatore di solito oggetto e in quel caso autore della rappresentazione» (p. 156).


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